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Wednesday, March 7, 2018

PARINOUSH SANIEE QUELLO CHE MI SPETTA



PARINOUSH SANIEE


QUELLO
CHE MI SPETTA


Postfazione di
SHAHLA LAHIJI



                                                        Condividete lasciando il mio logo
                                                                      [Ebook] FL005















Prima edizione: marzo 2010


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Il grande portale del romanzo


Traduzione dal farsi di
Narges Gholizadeh Monsef
e Sepideh Rouhi

Revisione di Alba Mantovani

Titolo originale dell'opera:
Sahme man

© 2004, Parinoush Saniee
First published in Iran by Roozbahan

ISBN 978-88-11-66599-1

© 2010, Garzanti Libri s.p.a., Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Printed in Italy

www.garzantilibri.it



Teheran. A quindici anni Masumeh non ha mai conosciuto la libertà. Conosce l'obbedienza. Al padre e ai fratelli. Conosce le percosse, di cui spesso è vittima. Conosce i doveri che si pretendono da una ragazza d'onore come lei: portare il chador, servire l'uomo sempre e comunque, camminare svelta con lo sguardo rigorosamente rivolto verso il basso. Eppure, oggi, Masumeh ha disobbedito. Ha osato alzare gli occhi verso il giovane che ogni giorno la osserva negli stretti vicoli della città. Lui è Saeid e lavora come apprendista in una farmacia. Basta poco perché quello scambio di sguardi si trasformi in un amore forte e appassionato. Un amore pericoloso, impossibile da nascondere. A scoprirli è il fratello maggiore di Masumeh. La ragazza deve essere punita, si è macchiata del peggiore dei peccati, amare. Ma le botte e la violenza non bastano. Per salvare l'onore della famiglia si deve sposare, subito, con un uomo scelto dai fratelli. Da questo momento in poi a Masumeh non resta altra scelta che accettare il suo destino. Prima come moglie dedita a compiacere ogni desiderio di un marito assente ed egoista, poi come madre di tre figli. E mentre l'Iran è sconvolto dalla rivoluzione, attingendo a una forza che non credeva di avere, la donna sacrifica sé stessa per crescerli e farli studiare. A darle coraggio è l'amore silenzioso che coltiva dentro di sé. Perché non ha mai dimenticato Saeid. E attende solo il giorno in cui finalmente forse avrà quello che le spetta. Quello che mi spetta ha una storia editoriale unica. Bestseller in Iran, in cima alle classifiche dei libri più venduti, è stato censurato e messo al bando dal governo iraniano e vede ora per la prima volta luce in Occidente. Un grande romanzo sull'amore e sulla speranza, sull'odio e sulla sofferenza, in cui Parinoush Saniee, con coraggio e determinazione, svela la vera condizione delle donne iraniane, prigioniere della tradizione, che lottano ancora, in questi giorni e in queste ore, contro il fanatismo.

Terza di cinque figli, Parinoush Saniee è nata a Teheran nel 1949. Il padre, giurista e professore all'università, le ha consentito l'accesso alla biblioteca di casa sin da quando era piccola, permettendole così di coltivare la passione per la narrativa e la scrittura. Laureatasi in psicologia, madre di due figli, entrambi residenti all'estero, Parinoush è oggi una delle intellettuali iraniane più conosciute in Medio Oriente e una scrittrice di grande successo. Il suo primo bestseller, Quello che mi spetta, oggi, dopo essere stato bandito e censurato dal governo, è ancora tra i libri più venduti in Iran.

In copertina: Rui Vale de Sousa Progetto grafico: ushadesign



Dedicato ai miei splendidi genitori,
dai quali ho imparato l'amore e la vita;
e a mio marito, compagno e sostegno
di sempre






1.

Mi stupivo sempre del comportamento della mia amica Parvaneh. Non pensava proprio all'onore di suo padre: per strada parlava ad alta voce e si fermava a guardare le vetrine dei negozi additandomi ciò che aveva attirato la sua attenzione. Continuavo a dirle che era sconveniente, ma lei mi ignorava. Una volta mi chiamò addirittura dall'altra parte della strada, urlando il mio nome e facendomi morire di vergogna. Per fortuna nessuno dei miei fratelli era nei paraggi, altrimenti Dio solo sa cosa sarebbe potuto succedere...
Quando ci trasferimmo da Qum a Teheran, Agha Jun - il mio «signor padre» - mi diede il permesso di andare a scuola, e quando gli dissi che nessuna ragazza indossava il lungo velo del chador e che mi prendevano in giro, mi concesse di uscire coperta solo di manteau e rusari - cioè spolverino e foulard in testa - a patto che mi comportassi in modo conveniente e non lo disonorassi. Del resto io sapevo bene come salvaguardare il suo onore anche senza velarmi.
Devo ringraziare mio zio Abbass per queste concessioni: «Dadash - fratello - l'importante è che una ragazza sia di indole buona e questo non ha niente a che fare con il velo... se fosse cattiva, stai certo che il chador non le impedirebbe di combinarne così tante da compromettere il tuo onore per sempre! Ora che siete a Teheran dovete adattarvi ai nostri costumi: ormai sono finiti i tempi in cui una ragazza veniva relegata in casa. Permettile di frequentare la scuola e di vestirsi come le altre, altrimenti diventerà oggetto di scherno», lo sentii dire a mio padre.
Mio zio Abbass era davvero una persona illuminata. Da quasi dieci anni viveva a Teheran e veniva a Qum soltanto quando moriva qualcuno. Naneh Jun, la nonna - che la sua anima riposi in pace -, ogni volta che lo zio Abbass tornava, gli chiedeva di andarla a trovare più spesso e lui esclamava ridendo bonariamente: «Che ci devo fare mamma? Dite ai parenti di passare a miglior vita più spesso, così che io possa venire a Qum più spesso!».
La nonna allora, per l'imbarazzo, si pizzicava il viso così forte da lasciarvi dei segni rossi che sparivano soltanto dopo qualche ora.
La moglie di Abbass era di Teheran e, nonostante indossasse il chador durante le loro visite a Qum, tutti sapevano benissimo che in città non portava un abbigliamento «consono», per non parlare delle loro figlie, che non sapevano neanche cosa significasse e andavano a scuola senza velo.
Alla morte della nonna, la casa in cui mio padre aveva trascorso l'infanzia venne venduta e ognuno ricevette la propria parte di eredità. Allora lo zio Abbass insistette con lui perché ci trasferissimo a Teheran: «Fratello, qui non è più un posto per vivere... mettiamo insieme la nostra parte di eredità, apriamo un negozio, lavoriamo insieme - io stesso provvederò a prenderti in affitto una casa nei dintorni della mia - in modo che tu possa dare una direzione proficua alla vostra vita perché, parliamoci chiaro, i soldi veri si fanno solo a Teheran».
All'inizio mio fratello maggiore Mahmud si oppose, dicendo che a Teheran si abbandonava la retta via e si perdeva la fede. Mio fratello Ahmad, invece, fu entusiasta all'idea di diventare qualcuno nella grande città. La mamma - che chiamavamo Khanum Jun, «signora madre» - dal canto suo era preoccupata per noi ragazze: «A Teheran non potranno trovare un degno sposo, nessuno ci conosce, tutto ciò che abbiamo e tutte le persone che conosciamo sono qui. Masumeh ha finito le medie ed è ora che si sposi. Fati deve cominciare ad andare a scuola e Dio solo sa quello che potrebbe diventare studiando a Teheran... lo dicono tutti che, quando una ragazza cresce a Teheran, finisce male!». Persino mio fratello Ali, che faceva la terza elementare, volle dire la sua e dichiarò che ci avrebbe pensato lui a tenere sotto controllo mia sorella Fati. Poi, per mostrare da subito la sua autorità, le assestò un calcio anche se stava giocando tranquilla sul pavimento. Lei cacciò un urlo ma nessuno se ne preoccupò a parte me, che la presi in braccio per consolarla e sbottai che era una follia pensare che tutte le ragazze di Teheran si comportassero male solo perché vivevano lì.
Ahmad, che andava matto per Teheran, tranquillizzò mia madre: «Se il problema è Masumeh, la faremo sposare qui e poi ci trasferiremo a Teheran. Così sarebbe anche meglio: avremo una gatta da pelare in meno. Fati, invece, la affideremo ad Ali: il ragazzo ci sa fare», e diede al fratello piccolo una pacca complice sulla spalla. Io mi sentii morire: Ahmad era stato contrario sin dall'inizio al fatto che continuassi a studiare, soprattutto perché lui non era mai stato diligente. Era stato bocciato più volte fino all'abbandono definitivo degli studi e così non voleva che io proseguissi la scuola, superandolo. Anche la nonna - che la sua anima riposi in pace - non fu mai felice del fatto che studiassi e perciò ripeteva continuamente a mia madre che ero una buona a nulla nei lavori domestici e non avevo alcun talento per potermi sposare. «Quando andrà a casa del marito, vedrai che ce la rimanderanno indietro entro un mese.» A mio padre, invece, diceva: «Perché investi così tanto su questa ragazza? Non ne vale la pena, dovrà andarsene, sistemarsi... sarà presto di qualcun altro: fatichi tanto e finirai per dover spendere di più per mandarla via».
A quasi vent'anni, mio fratello Ahmad non aveva ancora concluso niente. Lavorava come apprendista presso il negozio dello zio Astollah, ma se ne andava a zonzo gran parte del tempo. Era l'opposto di mio fratello Mahmud, che restava nella bottega tutto il giorno e di cui, a detta del signor Mozaffar, ci si poteva fidare. Mio padre era orgoglioso che Mahmud mandasse avanti il negozio di Agha Mozaffar. Pur avendo solo due anni più di Ahmad, era molto credente, non trascurava mai la preghiera e il ramadan, e tutti pensavano che fosse molto più grande della sua età.
La mamma desiderava tanto che sposasse la nostra cugina Ehteramsadat, di stirpe nobile, ma io sapevo che aveva preso una cotta per la cugina Mahbubeh. Ogni volta che Mahbubeh faceva visita a casa nostra, Mahmud arrossiva fino alla cima dei capelli e cominciava a balbettare. Poi si metteva in un angolo e la guardava di sottecchi, soprattutto quando le scivolava via il chador dal capo. D'altro canto, Mahbubeh era così socievole e schietta che a stento si ricordava del suo velo. E anche quando mia nonna la sgridava - «Vergognati, ci sono degli scapoli!» - Mahbubeh rideva e replicava che per lei erano come fratelli. Io, però, sapevo perfettamente che, appena se ne andava, Mahmud si dedicava alla preghiera per almeno due ore chiedendo perdono ad Allah: era sicuramente colpevole di qualche fantasia proibita...
Il trasloco a Teheran fu causa di liti e discussioni per molto tempo. L'unica cosa su cui sembravano tutti d'accordo era l'idea di sbarazzarsi di me facendomi sposare. Pareva che tutta Teheran non aspettasse altro che portarmi alla perdizione. Tutti i giorni salivo al santuario della santa di cui porto il nome e pregavo perché mi aiutasse ad andare a Teheran con gli altri e a continuare gli studi. Piangendo, maledivo di non essere un maschio e di non essere morta di difterite da bambina com'era successo a mia sorella Zari.
Per fortuna le mie preghiere furono esaudite e in quel periodo nessun pretendente bussò alla porta della nostra casa. A poco a poco mio padre organizzò e sistemò le sue faccende e lo zio Abbass ci affittò una casa nei pressi di via Gorgan, la stessa che anni dopo avremmo comprato. L'unico problema rimasto irrisolto ero io. Mia madre accennava al fatto che era tempo per me di sistemarmi ogni volta che incontrava un uomo a modo a casa di qualcuno, e io diventavo paonazza per l'imbarazzo e la rabbia. Ma santa Masumeh, grazie a Dio, non si dimenticò di me e nessuno scapolo si fece avanti.
Tuttavia, la voce della mia presunta disponibilità al matrimonio giunse non so come alle orecchie di un mio passato pretendente, che era stato rifiutato in quanto reduce da un divorzio. Be', ora la situazione sembrava completamente cambiata: in fondo che importanza aveva se l'uomo in questione era un divorziato? Dovevano pur sbarazzarsi di me, no? Inoltre godeva di un'ottima situazione finanziaria ed era ancora abbastanza giovane, e poco importava che nessuno sapesse perché aveva divorziato dalla moglie dopo solo pochi mesi di matrimonio. A me sembrava che avesse un viso cupo e soprattutto mi incuteva paura. Quando scoprii cosa stava per accadermi, lasciai da parte ogni imbarazzo, mi gettai in lacrime ai piedi di mio padre e riuscii a convincerlo a portarmi con loro a Teheran. Dopotutto mio padre era compassionevole e mi voleva bene nonostante fossi una femmina.
Come diceva la mamma, dopo la morte di Zari mio padre aveva cominciato a preoccuparsi per me più del normale perché ero molto magra e temeva che morissi anch'io. Era convinto che, non avendo lui dimostrato gratitudine per la nascita di mia sorella Zari, Dio si fosse offeso e gliel'avesse tolta. Forse non era stato soddisfatto nemmeno alla mia nascita, chi lo sa? Io comunque lo amavo moltissimo e ho sempre pensato che in casa nostra fosse l'unico a capirmi. Quando tornava dal lavoro, prendevo sempre un asciugamano e andavo all'hoz, la vasca situata al centro del giardino, paragonabile a una piscina. Lui si sciacquava i piedi nell'acqua appoggiandosi alla mia spalla e, dopo essersi lavato anche mani e viso, prendeva l'asciugamano che gli porgevo. I suoi occhi nocciola mi guardavano con calore per farmi capire che mi voleva bene ed era soddisfatto di me. Allora mi veniva voglia di abbracciarlo, stringerlo forte e dargli un bacio, ma non potevo perché è sconveniente che una ragazza baci un uomo, anche se si tratta di suo padre.
Così quella volta Agha Jun provò compassione per me, e io gli giurai che mi sarei comportata bene e avrei tenuto alto il suo onore a Teheran.
Ma l'arrivo a Teheran non segnò affatto la fine dei miei problemi. Entrambi i miei fratelli erano contrari che frequentassi la scuola e la mamma era convinta che un corso di taglio e cucito fosse più urgente, ma io ottenni ancora l'appoggio di mio padre con rinnovate suppliche e lacrime e lui, contro il parere di tutti, mi iscrisse all'ottava classe.
La scuola era a qualche isolato da casa e richiedeva circa un quarto d'ora di cammino. Per mio fratello Ahmad ogni pretesto era buono per picchiarmi, ma io sapevo benissimo cosa gli desse veramente fastidio... perciò subivo in silenzio. Agli inizi mi pedinava persino e allora io tenevo ben stretto il mio chador e stavo all'erta in modo da non offrirgli pretesti per accusarmi. Mio fratello Mahmud, invece, non mi parlava, anzi, mi ignorava del tutto.
Finalmente entrambi trovarono lavoro: Mahmud presso il negozio del fratello del signor Mozaffar e Ahmad come apprendista di una falegnameria. Ahmad si fece anche un sacco di amici: passava i pomeriggi con loro, per poi tornare alla sera con l'alito che puzzava di alcol. Agha Jun abbassava il capo e non rispondeva ai suoi saluti. Mahmud si girava dall'altra parte e chiedeva il perdono di Dio. Khanum Jun gli scaldava velocemente la cena e diceva: «Il mio ragazzo ha mal di denti: usa l'alcol per alleviare il dolore...».
Caspita! Non si riusciva a capire che tipo di male fosse il suo, visto che sembrava non passare mai... In effetti mia madre era solita giustificare le bravate di Ahmad perché era il suo prediletto. Inoltre il signorino aveva trovato un altro passatempo: spiare Parvin, la nostra vicina, dalla finestra del piano di sopra. Parvin Khanum passava la maggior parte del suo tempo in giardino, dove aveva sempre qualcosa da fare e dove, puntualmente, le scivolava via il chador. Ahmad restava immobile a osservarla dalla finestra e una volta io stessa li vidi scambiarsi occhiate allusive.
Comunque, il fatto che Ahmad avesse altro da fare fu la mia salvezza perché finalmente si dimenticò di me. Persino quando mio padre mi concesse di andare a scuola in manteau e rusari litigammo solo per due giorni, poi mi lasciò in pace. Mahmud, invece, ne fu molto contrariato. Non diceva nulla, non discuteva, ma era chiaro come il sole che per lui rappresentavo il peccato in persona, tanto da non degnarmi più nemmeno di uno sguardo. Ma a me poco importava di tutto questo: andavo a scuola! E poi prendevo ottimi voti e avevo fatto amicizia con tutte le mie compagne: cosa potevo desiderare di più dalla vita? Ero al settimo cielo, soprattutto da quando Parvaneh era diventata la mia amica del cuore e ci eravamo giurate di raccontarci tutto e di non avere mai segreti l'una per l'altra.


2.

Parvaneh era una ragazza allegra e spensierata. Era molto brava a pallavolo e faceva parte della squadra della scuola, ma non si poteva dire lo stesso dei suoi risultati scolastici... Ero certa che fosse una brava ragazza, benché non molto rispettosa delle regole... anzi, direi che non capiva proprio la differenza fra giusto e sbagliato. Non si preoccupava dell'onore di suo padre e non temeva per nulla i suoi fratelli: «A volte litighiamo e se mi picchiano li picchio anch'io!» esclamava ridendo. Tutto la faceva sorridere e divertire e lo manifestava ovunque si trovasse, persino per strada. Sembrava che nessuno le avesse mai insegnato che una ragazza non deve far vedere i denti quando ride e che non si deve sentire il suono della sua risata...
Credo però di esserle sembrata altrettanto strana. Quando le dicevo che era sconveniente fare qualcosa mi guardava con stupore e mi chiedeva perché. A volte doveva pensare che fossi arrivata dalla campagna. Conosceva tutti i nomi delle automobili e desiderava che suo padre comprasse una Chevrolet nera. Io non sapevo nemmeno quale fosse la Chevrolet, ma non glielo chiedevo per non fare una figuraccia.
Un giorno, vedendo un'auto nera nuova che mi sembrò bella, gliela indicai dicendo: «Parvaneh, ti piacerebbe avere una Chevrolet come quella, vero?» e lei scoppiò a ridere dopo aver guardato prima l'auto e poi me. «Uau, che buffo, confondi le Fiat con le Chevrolet!» esclamò facendomi arrossire e morire d'imbarazzo non so se più per aver mostrato la mia ignoranza o perché la sua risata risuonò liberamente per la strada.
I suoi avevano sia la radio sia il televisore. Ne avevo visto uno a casa dello zio Abbass, ma noi possedevamo soltanto una grande radio. Fino a quando mia nonna fu in vita e perfino quando Mahmud era in casa, però, non ascoltavamo la musica perché loro lo consideravano peccato, soprattutto se era una donna a cantare e la musica era particolarmente ritmata. Anche mia madre e mio padre erano molto credenti, ma non rigidi e inflessibili come mio fratello. Al contrario di lui apprezzavano la musica e quando Mahmud non era in casa la mamma accendeva la radio, pur tenendola a basso volume per evitare che i vicini la sentissero e venisse compromesso l'onore della famiglia.
Inoltre, lei stessa conosceva a memoria alcuni brani e li canticchiava sottovoce in cucina. Quando però una volta le feci i complimenti, ammutolì di colpo, preoccupata che mio fratello potesse sentirci.
Anche il papà, tornato a casa dal lavoro, accendeva la radio con la scusa del notiziario delle due e poi puntualmente si dimenticava di spegnerla. Quando trasmettevano le canzoni tradizionali, senza accorgersene cominciava a dondolare la testa al ritmo della musica e io sono sicura che fosse innamorato della voce di Marzieh perché mai gli veniva in mente che fosse peccato mentre, quando era Vigen a cantare, tutto a un tratto si ricordava di essere musulmano e allora iniziava a imprecare contro il cantante armeno e ordinava di spegnere la radio. Eppure a me piaceva molto la voce di Vigen e mi ricordava tanto lo zio Hamid, non so perché.
Mio zio Hamid era un uomo affascinante ed era molto diverso dai suoi fratelli e sorelle. Innanzitutto profumava di buono, cosa molto rara nel mondo che mi circondava... Quando ero piccola, mi prendeva sempre in braccio e diceva a mia madre: «Brava sorella, hai messo al mondo proprio una bella bambina! Meno male che non assomiglia ai tuoi ometti, di sicuro rimarrebbe zitella».
«Ma cosa dici, fratello? Brutti i miei ragazzi? Se Dio vuole sono belli come soli, certo un po' scuri di pelle, ma questo non è affatto male per un uomo», replicava lei. «E poi, un uomo non deve essere grazioso, ma tenebroso.» E canticchiando le frasi di una nota filastrocca iraniana sull'argomento, chiudeva il discorso con zio Hamid che nel frattempo era scoppiato a ridere.
Io assomigliavo molto a mio padre e a mia zia. Capitava spesso, infatti, che prendessero me e mia cugina Mahbubeh per sorelle, ma in realtà lei era molto più bella di me: aveva un corpo morbido e pieno, mentre io ero troppo magra, e i capelli le si inanellavano in boccoli intorno al viso, mentre i miei restavano lisci nonostante tutti i tentativi per arricciarli. Però avevamo entrambe intensi occhi verdi e pelle bianchissima e ci spuntavano due graziose fossette sulle guance quando sorridevamo, con l'unica differenza che i suoi denti non erano dritti come i miei. Mi diceva sempre: «Beata te che hai denti così bianchi e perfetti!».
Mia madre e i membri della sua famiglia erano molto diversi: quasi tutti di pelle olivastra, con occhi scuri, sopracciglia folte e nere come la pece e capelli mossi, e tutti grassi, anche se non quanto la zia Ghamar. Però non erano brutti, soprattutto la mamma che, quando si depilava le sopracciglia, diventava identica ai disegni di Khorshid Khanum1 sui nostri piatti. Aveva anche un grazioso neo all'angolo della bocca e amava raccontare che, quando mio padre era andato a chiederla in sposa, si era innamorato perdutamente di lei dopo aver visto quel neo.
Ricordo perfettamente zio Hamid che stava per partire; avrò avuto otto o nove anni. Al momento dell'addio mi abbracciò e disse a mia madre: «Ti prego, sorella, non dare in sposa troppo presto questo tuo fiore, sarebbe un vero peccato. Permettile prima di studiare e di diventare qualcuno».
Lo zio Hamid fu il primo della nostra famiglia ad andare all'estero. Non avevo la minima idea di come fosse l'estero: pensavo a qualcosa di simile a Teheran, solo un po' più lontano. A volte mandava lettere e bellissime foto alla nonna, tutte scattate in un giardino pieno di alberi e fiori dove il verde era il colore dominante. Poi fu la volta di una foto che lo ritraeva in compagnia di una donna bionda senza il velo: si era sposato. Non dimenticherò mai quel giorno: era pomeriggio quando Aziz Jun - la nonna materna - venne a casa nostra per farsi leggere la lettera da mio padre. Lui era seduto accanto a sua madre su un grande cuscino e lesse la lettera fra sé finché, all'improvviso, esclamò: «Ecco, anche Hamid si è sistemato e questa è la foto di sua moglie».
Aziz Jun svenne e Naneh Jun, la nonna paterna, che non era mai andata molto d'accordo con lei, si coprì le labbra con il chador e rise di nascosto. Mia madre si batté sulla fronte non sapendo se aiutare la nonna o svenire a sua volta. Finalmente Aziz si riprese e dopo aver bevuto parecchia acqua zuccherata chiese: «Ma sono senza Dio da quelle parti?».
Agha Jun si strinse nelle spalle. «Proprio senza Dio no... in qualcosa credono... sono armeni, ecco!»
Aziz Jun fece per colpirsi la testa, ma mia madre la fermò prendendole le mani e assicurandole che Hamid aveva senz'altro convertito la moglie all'Islam - qualsiasi mullah le avrebbe confermato che un uomo musulmano può prendere in sposa una non credente e convertirla, compiendo per di più un gesto di grande carità.
Aziz la guardò con occhi stanchi e le credette: dopotutto anche gli Aemme Athar2 avevano sposato donne non musulmane...
Agha Jun allora sorrise. «Bene, inshallah - se Dio vuole - saranno felici insieme. Quando pensate di offrire dei dolci per festeggiare? Una sposa straniera ne vale tanti!»
Naneh Jun, però, era irritata all'idea di una sposa straniera in famiglia, che per di più non sapeva la nostra lingua e non conosceva la differenza fra puro e impuro.
Aziz invece si era ricomposta e, come se avesse ripreso vita, mentre si alzava per andarsene sentenziò: «La sposa rappresenta la fecondità della famiglia. Noi non siamo come alcuni che non sanno apprezzare la propria sposa e che credono di aver trovato una schiava. Noi la mettiamo sul piedistallo, tanto più se è straniera...».
Naneh Jun non sopportava quello spudorato vantarsi. «Eh sì, lo vedo come avete messo sul piedistallo la moglie di vostro figlio Astollah... e poi non è affatto sicuro che la moglie di Hamid si sia convertita... forse è lui che è diventato un senza Dio. Non ci sarebbe da stupirsene in fondo... Hamid non è mai stato un fedele convinto, altrimenti non sarebbe certo andato in un paese di miscredenti», commentò con cattiveria, ma mio padre si mise fra le due e chiuse la questione. La nonna diede comunque un gran ricevimento e si vantò della nuora straniera. Incorniciò e appese alla parete la sua foto mostrandola a tutte le signore, ma fino all'ultimo, perfino sul letto di morte, chiese di nascosto a mia madre se era davvero sicura che la moglie di Hamid fosse diventata musulmana...
Dopo la sua dipartita non ricevemmo più molte notizie dallo zio Hamid.
Una volta portai le sue foto a scuola e le mostrai alle mie compagne. Parvaneh ne rimase affascinata e commentò che mio zio era molto fortunato a vivere all'estero; anche a lei sarebbe tanto piaciuto andarci...
Parvaneh conosceva un'infinità di canzoni ed era un'ammiratrice di Delkash. A scuola metà delle ragazze idolatrava Delkash e l'altra metà Marzieh e io, ovviamente, dovevo stare dalla parte di Delkash per continuare a essere amica di Parvaneh. Ma lei conosceva bene anche i cantanti stranieri e i suoi avevano persino un giradischi. Una volta, sulla porta di casa sua, me lo fece vedere: sembrava una valigetta rossa, mi spiegò che era il modello portatile.
Non era ancora finito l'anno scolastico e io avevo imparato molte cose. Parvaneh chiedeva spesso i miei quaderni e appunti e a volte studiavamo insieme. Era una ragazza semplice e disponibile: si adattava di buon grado a venire sempre a casa mia e non badava al fatto che fosse piccola e modesta. Dall'entrata tre gradini portavano nel giardino che aveva in centro una vasca rettangolare fiancheggiata da una lunga aiuola. In fondo al giardino c'era la cucina, sempre buia, con accanto il bagno. A sinistra della porta d'ingresso altri gradini conducevano a un piccolo atrio su cui si affacciavano due stanze adiacenti e dal quale partiva una rampa di scale che saliva al primo piano. Qui si aprivano altre due stanze l'una di fronte all'altra: il salotto aveva due finestre che davano sul giardino e sulla casa di Parvin Khanum; la camera di Ahmad e Mahmud guardava sul cortiletto posteriore e sul giardino della casa accanto.
Quando veniva Parvaneh, andavamo al piano di sopra, in salotto. Non c'era molto in quella stanza: un tavolo rotondo con sei sedie su un grande tappeto rosso e in un angolo una grossa stufa con intorno tappeti e cuscini. La cosa più bella era un arazzo appeso al muro sul quale era ricamata una preghiera musulmana. C'era anche una mensola coperta da una tovaglietta ricamata a mano da Khanum Jun su cui poggiavano lo specchio e le due lampade a olio del suo matrimonio.
Parvaneh e io ci sedevamo sui cuscini, parlavamo a bassa voce, ridevamo e ogni tanto studiavamo. Io, però, non avevo assolutamente il permesso di andare a casa sua. Secondo mio fratello Ahmad non ne avevo il diritto e non dovevo azzardarmi a mettere piede in casa di Parvaneh perché aveva un fratello grande e soprattutto perché era una ragazza frivola e con la testa fra le nuvole. E poi sua madre non portava il velo... Io rispondevo immancabilmente: «E chi lo porta in questa città?» ma osavo farlo solo sottovoce...
Quando dissi a Parvaneh che i miei fratelli non mi davano il permesso di andare a casa sua, lei si stupì e me ne chiese il motivo. «Perché hai un fratello», le risposi. Ma lei continuava a non capire: dopotutto suo fratello era ancora piccolo, aveva un anno meno di noi. Cercai di spiegarle che era abbastanza adulto perché fosse sconveniente, ma credo che le nostre tradizioni fossero proprio incomprensibili per lei; comunque non mi chiese più di andare da loro.
Un giorno però Parvaneh voleva darmi le sue copie della rivista «Zaneh Ruz» - «Donna oggi» - e allora accettai di andare a casa sua, anche se solo per pochi minuti. Tutto mi sembrò ordinato e di buon gusto. Avevano un sacco di belle cose e alle pareti c'erano molti quadri raffiguranti paesaggi e figure di donne. Nel salotto troneggiavano grandi poltrone scure e divani di velluto dello stesso colore delle tende. Le finestre si affacciavano sul giardino e la sala da pranzo era dalla parte opposta della stanza, separata dal salotto per mezzo di una tenda. In un altro locale avevano messo il televisore e alcune comode poltroncine. Da lì si accedeva sia al bagno sia alla cucina: non erano costretti a uscire in giardino per ogni cosa come noi. Le camere da letto erano al piano di sopra. Parvaneh e sua sorella minore Farzaneh disponevano di una stanza tutta per loro: che fortuna! A noi lo spazio bastava a malapena. Nonostante in casa nostra ci fossero effettivamente quattro stanze, in realtà vivevamo tutti in quella grande al piano di sotto. Pranzavamo e cenavamo lì e durante l'inverno ci sistemavamo il korsi, un basso tavolo riscaldato da un radiatore elettrico, collocato sotto, e coperto da una trapunta. Intorno giacevano materassi e cuscini così che almeno venti persone potessero stendere le gambe sotto il tavolo e scaldarsi. La notte ci dormivamo io, Fati e Ali. Nella stanza accanto c'erano un grande letto di legno con materasso, lenzuola e cuscini dove dormivano mamma e papà e un enorme armadio con tutti i nostri vestiti e cianfrusaglie varie. Nel salotto, la stanza più grande al piano di sopra, c'erano le mensole per i libri: una per ciascuno di noi, ma i miei ne occupavano due.
A Khanum Jun piacevano le immagini di «Zaneh Ruz» e faceva in modo che la rivista non finisse in mano ad Agha Jun o a Mahmud. Io amavo leggere le storie a puntate e quelle aperte, il cui finale poteva essere scelto dalle lettrici, e le raccontavo a mia madre con tale trasporto da farla commuovere e da versare qualche lacrima anch'io insieme a lei. Così, ci eravamo messe d'accordo con Parvaneh che ogni settimana ci avrebbe passato la rivista dopo averla letta lei.
Gli esami del terzo trimestre andarono molto bene e a scuola mi coprirono di elogi, ma a casa nessuno mostrò di apprezzarlo. Mia madre non capì nemmeno di cosa stessi parlando, mio fratello Mahmud mi disse che non era la gran cosa che pensavo e mio padre commentò che già che c'ero potevo diventare la prima della classe...
Con l'inizio dell'estate io e Parvaneh ci perdemmo di vista. I primi giorni, quando i miei fratelli non c'erano, Parvaneh veniva sotto casa nostra e io scendevo a chiacchierare, ma Khanum Jun brontolava sempre. Sembrava essersi dimenticata che quando stavamo a Qum anche lei ogni pomeriggio si sedeva sulla porta di casa a spezzare noci e a spettegolare con le altre donne fino all'arrivo di mio padre. Ma a Teheran non aveva amiche e le vicine di casa non la consideravano, così le dava fastidio che io parlassi a lungo con la mia amica del cuore.
Mia madre non fu felice di vivere a Teheran sin dall'inizio. Continuava a ripetere che non eravamo fatti per stare lì, che tutti i nostri parenti erano a Qum e che lei si sentiva sola. La moglie di nostro zio Abbass non seguiva le nostre tradizioni e secondo mia madre si dava troppe arie e quindi non avevano legato, e se era difficile fare amicizia con una parente, figuriamoci con gli estranei.
Brontolò così tanto e così a lungo, che alla fine convinse mio padre a mandarci per le vacanze estive dalla propria sorella a Qum. Io non fui affatto contenta della notizia e commentai ironicamente che mentre gli altri cercavano luoghi freschi per le vacanze, noi sceglievamo il clima torrido di Qum...
Mia madre mi guardò di traverso. «Ah... ti sei già dimenticata da dove vieni? Ci passavamo tutto l'anno e andava bene così, ma ora che ci vogliamo tornare per l'estate la signorina non è d'accordo. Non è nemmeno un anno che siamo qui e vuole una vacanza! E io non ho più visto la mia povera sorella, non ho più avuto notizie dei miei fratelli e non sono più stata sulla tomba dei miei cari. Comunque vedrete che restando una settimana a casa di ciascuno dei nostri parenti, l'estate se ne andrà in fretta...»
Mahmud, benché fosse d'accordo con il fatto che passassimo l'estate a Qum, voleva che restassimo per tutto il periodo a casa della sorella di mio padre, in modo da poter vedere mia cugina Mahbubeh durante i fine settimana in cui ci avrebbe raggiunto.
Così quell'estate andammo a Qum e io pensai bene di non lamentarmi più di tanto, soprattutto perché anche Parvaneh e i suoi partirono per andare a casa di suo nonno, a Gol-ab-darreh.
Tornammo all'inizio di Shahrivar - ossia alla fine di agosto - perché Ali aveva dei debiti scolastici cui doveva rimediare con un esame. Non ho mai capito perché i miei fratelli siano sempre stati così pigri nello studio. Povero Agha Jun, che desiderava che i suoi figli maschi diventassero medici o ingegneri! Comunque, io fui entusiasta di tornare perché non ne potevo più di essere sballottata da una casa all'altra dei vari zii; ma soprattutto non ne potevo più della casa della sorella di mia madre, che era peggio di una moschea. La zia non faceva altro che chiederci se avevamo pregato e ci rimproverava di non recitare bene le nostre preghiere. Per non dire del fatto che non passava giorno che non si vantasse della sua religiosità e della famiglia di suo marito in cui tutti gli uomini erano dei mullah...
Una o due settimane più tardi anche Parvaneh e i suoi fecero ritorno a Teheran e con la riapertura della scuola la vita per me tornò a essere dolce. Rivedere le insegnanti e le compagne fu emozionante e non mi sentivo più sola e spaesata come l'anno precedente, non mi stupivo più di tutto e potevo tranquillamente dire la mia senza fare figuracce... insomma mi sentivo come le altre ragazze di Teheran e dovevo tutto questo alla mia migliore amica e maestra Parvaneh.
Quello stesso anno scoprii il piacere della lettura di libri non scolastici: ci scambiavamo romanzi d'amore, versavamo fiumi di lacrime leggendoli e li commentavamo insieme.
Parvaneh aveva un quaderno particolare in cui raccoglieva pensieri non suoi: tutte le ragazze della classe, le amiche e i parenti di Parvaneh ci avevano scritto qualcosa su vari argomenti elencati in elegante grafìa da suo cugino accanto a bellissime immagini a tema. Con quanto entusiasmo leggevamo alcuni di quei pensieri, soprattutto quelli sull'amore e sul ragazzo ideale! Qualche amica - con impensabile sfacciataggine - ci aveva addirittura messo i più intimi dettagli, evidentemente senza alcun timore di quello che sarebbe successo se il quaderno fosse finito nelle mani della preside.
Io, invece, avevo un quaderno di poesie. Vi riportavo tutte quelle che mi piacevano o mi colpivano di più e a volte le accompagnavo con un disegno o una fotografia che Parvaneh mi ritagliava dalle sue riviste straniere.

3.

Un luminoso pomeriggio d'autunno, mentre tornavamo da scuola chiacchierando allegramente, Parvaneh mi trascinò nella farmacia a metà strada tra scuola e casa per comprare dei cerotti.
Il dottor Ataye era un anziano signore che tutti conoscevano e rispettavano. Quando entrammo nella farmacia, però, non c'era, allora Parvaneh lo chiamò mettendosi in punta di piedi e sbirciando oltre il bancone. Un giovane uomo in camice bianco era chino a sistemare dei farmaci sugli scaffali più in basso. Si girò a guardarci e ci chiese di cosa avessimo bisogno, poi andò a prenderci i cerotti. Allora Parvaneh, dandomi una gomitata nel fianco, mi sussurrò a un orecchio: «E questo da dove sbuca? Certo che è carino!». Il giovane porse la scatola di cerotti a Parvaneh e lei, chinandosi sulla cartella a prendere il portafoglio, mi disse di nuovo a bassa voce: «Dài, guarda quant'è carino!».
Alzai la testa e per un istante i nostri occhi si incrociarono. Sentii come una scossa elettrica e arrossii distogliendo lo sguardo in preda a un terribile imbarazzo: era la prima volta che provavo una sensazione così. «Andiamocene, su!» la spronai, uscendo a passo spedito dalla farmacia con Parvaneh che mi seguiva senza capire il perché di quella fretta.
«Ma che ti è preso? Perché te la sei data a gambe?»
«Mi sono vergognata.»
«Di cosa?»
«Delle cose che dicevi riguardo a quell'uomo, estraneo per di più!»
«Non ti capisco, che cosa ho detto di male?»
«Carino e così via... è sconveniente! Sono certa che ti ha anche sentito.»
«No che non mi ha sentito... e anche se avesse sentito ne sarebbe stato lusingato... e poi non era nulla di così scandaloso! Comunque, detto fra noi, l'ho guardato meglio, più da vicino, e non è questa gran bellezza. Però devo dire a papà che il dottore ha preso un apprendista...»
Il giorno seguente passammo di fretta davanti alla farmacia andando a scuola e lo vedemmo di nuovo: lui ci guardò. Al ritorno lanciammo un'occhiata alla vetrina: era occupato a lavorare, ma molto probabilmente ci vide anche lui.
Da quel giorno in poi, ogni mattina e ogni pomeriggio, come per un tacito accordo, i nostri sguardi si incontravano e questo divenne per me e Parvaneh un nuovo e interessantissimo argomento di conversazione. A poco a poco il suo nome cominciò a circolare anche per la scuola. Le ragazze parlavano del giovane affascinante che da poco lavorava in farmacia e si presentavano lì con le scuse più svariate cercando di attirare la sua attenzione. Io e Parvaneh, invece, ci eravamo ormai abituate a vederlo ogni giorno e potrei giurare che anche lui attendeva con impazienza questi «incontri» e faceva il possibile per materializzarsi puntualmente davanti ai nostri occhi.
Ormai conoscevo anche gli attori stranieri - avevo fatto molti progressi dal mio arrivo a Teheran! - così io e Parvaneh decretammo che il giovane apprendista assomigliava a Steve McQueen.
Parvaneh s'informò subito sul suo conto. Il dottore, che era amico di suo padre, gli aveva detto che si chiamava Saeid, era nato a Rezaieh, studiava alla facoltà di farmacia ed era davvero un bravo ragazzo. Da allora cominciò a non essere più un estraneo ai nostri occhi, tanto che Parvaneh gli scelse un soprannome, ovviamente a sua insaputa: il Preoccupato, e diceva: «Sembra sempre preoccupato e in attesa di qualcuno. Chissà chi cerca con lo sguardo!».
Quell'anno fu il più felice della mia vita. Tutto andò nel migliore dei modi, soprattutto dal punto di vista scolastico. La mia amicizia con Parvaneh diventava ogni giorno più profonda: ci stavamo trasformando in un'anima divisa in due corpi. L'unica preoccupazione che a volte spegneva l'allegria e la serenità delle mie giornate veniva dai discorsi sussurrati in casa mia - pensavano che non li sentissi - che avrebbero potuto significare la fine della mia carriera scolastica.
Parvaneh mi consolava dicendo che era impossibile che mi facessero una cosa del genere: ero troppo brava a scuola, non potevano certo obbligarmi ad abbandonarla a metà strada, ma io non ero tranquilla, dopotutto lei non sapeva nulla su come erano fatti nella mia famiglia e del fatto che non gli importava niente dei miei successi scolastici. E poi per loro il SICL2 era più che sufficiente.
«Ma cosa ci fai con il SICL? Adesso come adesso non basta più nemmeno il diploma. Tutte le ragazze della mia famiglia che hanno superato l'esame di ammissione frequentano l'università e sono certa che tu lo passeresti a occhi chiusi. Sei mille volte più intelligente di tutte loro messe insieme», commentava Parvaneh. Ma per me era già tanto il diploma, figuriamoci se osavo pensare alla laurea!
Secondo Parvaneh non avrei dovuto «farmi mettere i piedi in testa», ma lei non poteva capire la situazione in cui vivevo: in casa sua era tutto diverso. Io potevo discutere con Khanum Jun, risponderle a tono e difendermi, ma con i miei fratelli era tutta un'altra storia: ci sarebbe voluto un coraggio da leoni per fronteggiarli, e forse non sarebbe bastato nemmeno quello...
Agli esami dell'ultimo trimestre fui la seconda a raggiungere i risultati più alti. La professoressa di lettere mi stimava molto e quando andai a ritirare la pagella mi disse che ero stata bravissima e che non dovevo assolutamente sprecare le mie capacità e mi chiese come avevo deciso di proseguire i miei studi.
«Mi piacerebbe moltissimo diplomarmi in letteratura...»
«Perfetto. Era proprio quello che volevo consigliarti, ottima scelta!»
«Lo so, ma in realtà non posso. Cioè, la mia famiglia non vuole... per loro il SICL3 è più che sufficiente.»
La signora Bahrami si rabbuiò immediatamente ed entrò in presidenza scuotendo la testa in segno di disapprovazione e facendomi segno di aspettare. Dopo pochi minuti ne uscì accompagnata dalla preside, che mi prese la pagella dalle mani e mi disse: «Masumeh, di' a tuo padre di passare nel mio ufficio domani, ho bisogno di parlargli. E bada che non ti restituirò la pagella finché non l'avrò visto!».
Quella sera, quando annunciai ad Agha Jun che la preside voleva vederlo, mio padre si stupì e pensò che avessi combinato qualcosa, poi disse a mia madre di andare lei a sentire di cosa si trattava: lui non avrebbe messo piede in una scuola femminile...
«Perché? I padri di tutte le altre ragazze lo fanno. E la preside è stata chiara: "Non ti restituirò la pagella finché non avrò visto tuo padre", così mi ha detto», cercai di convincerlo. Poi gli versai del tè, gli misi un cuscino dietro la schiena e lo blandii finché cedette: l'indomani mi avrebbe accompagnato a scuola.
Quando lo vide arrivare, la preside si alzò da dietro la sua scrivania, lo salutò calorosamente facendolo accomodare e gli fece vivissimi complimenti per i miei risultati, la mia condotta e il mio carattere. Io ero in piedi sulla porta con la testa china e non riuscivo a smettere di sorridere dalla gioia. Poi la preside mi disse di aspettare fuori mentre parlava con mio padre.
Non so cosa gli comunicò, ma quando Agha Jun uscì dall'ufficio aveva il viso raggiante e gli occhi lucidi e guardandomi con affetto e orgoglio mi accompagnò in segreteria per rinnovare l'iscrizione. Ero al settimo cielo e mentre lo seguivo non smettevo di ringraziarlo e di dirgli che gli volevo bene e di promettergli che sarei diventata la prima della classe e gli avrei sempre ubbidito... «Adesso basta... magari quegli scansafatiche dei tuoi fratelli avessero un po' del tuo cervello!» si limitò a esclamare con un sorriso.
Parvaneh, che aveva passato la notte in bianco per la preoccupazione, appena mi vide cercò di chiedermi a gesti com'era andata e io, dopo aver finto per qualche minuto un'aria triste per farle uno scherzo, corsi ad abbracciarla e a darle la bella notizia. Allora cominciammo a saltellare in mezzo al cortile della scuola come due pazze asciugandoci l'un l'altra le lacrime di gioia.
La decisione di mio padre destò scalpore in casa nostra, ma lui tenne testa a tutti riportando le parole della preside su quanto io fossi dotata e sul ruolo importante che avrei potuto ricoprire se avessi continuato a studiare. Dal canto mio, ero troppo felice per dar peso a ciò che dicevano gli altri. Perfino le occhiate dei miei fratelli piene di odio e di sdegno non mi incutevano più alcun timore.
Quell'estate, benché significasse tre mesi di lontananza da Parvaneh, passò bene proprio perché fu vissuta nell'attesa del nuovo anno scolastico insieme...
Tornammo a Qum soltanto per qualche giorno e Parvaneh riuscì a trascinare il padre a Teheran tutte le settimane con ogni genere di scuse per venirmi a trovare. Insistette molto perché andassi una settimana con lei e la sua famiglia a Gol-ab-darreh e anch'io lo desideravo tanto, ma non provai nemmeno a chiedere il permesso ai miei fratelli. Parvaneh diceva che se suo padre glielo avesse chiesto, il mio sicuramente avrebbe acconsentito, ma io non volevo dare ulteriori grattacapi ad Agha Jun. Sapevo che gli sarebbe stato difficile sia dire di no al signor Ahmadi sia far fronte al putiferio che si sarebbe scatenato in casa nostra se me ne fossi andata.
Per accontentare e rendere felice anche Khanum Jun, d'estate accettai di frequentare un corso di taglio e cucito che mi sarebbe stato utile nella casa del «futuro marito». Il corso si svolgeva nei dintorni della farmacia e ben presto Saeid si accorse che passavo di lì tre volte alla settimana e cominciò a farsi trovare davanti alla porta al momento opportuno. Quando mi trovavo a una strada di distanza, il cuore cominciava a battermi all'impazzata e il respiro mi si faceva affannoso senza che me ne rendessi conto. Ogni volta che passavo, cercavo di non guardare nella sua direzione e di non arrossire, ma come potevo? Se i nostri sguardi si incrociavano mi sentivo subito avvampare e lui, speranzoso e imbarazzato allo stesso tempo, abbassava il capo in segno di saluto.
Una volta, appena svoltato l'angolo, me lo ritrovai improvvisamente di fronte come se fosse sbucato dal nulla e fui presa così alla sprovvista che mi cadde di mano il metro da sarta. Lui si chinò a raccoglierlo e mentre si rialzava si scusò per avermi forse spaventata, ma io riuscii solo a farfugliare un no e scappai via. Dopo quell'episodio mi sentii confusa per qualche giorno: ogni volta che ci ripensavo, arrossivo e sentivo un piacevole fremito al cuore.
Con i primi venti autunnali e l'inizio del mese di Mehr,4 la nostra lunga separazione terminò e io e Parvaneh ritornammo a scuola con molto entusiasmo. Le cose che avevamo da raccontarci sembravano infinite: tutto quello che ci era successo durante l'estate, ciò che avevamo fatto e perfino pensato, e alla fine i nostri discorsi tornavano sempre a Saeid... Parvaneh voleva sapere quante volte ero stata in farmacia mentre lei era via e io le giuravo di non averci mai messo piede per la vergogna...
«Perché? Di sicuro non sa dei nostri pensieri e discorsi...»
«Questo lo credi tu!»
«Ti ha per caso detto qualcosa?»
«No, è solo una mia idea...»
In realtà, qualcosa era veramente cambiato: anche se non era successo niente, gli incontri dell'ultimo periodo avevano avuto un sapore diverso, e la faccenda sembrava farsi più seria. In fondo al cuore sentivo un legame silenzioso con lui, talmente forte da non poterlo nascondere facilmente a Parvaneh.
Non era passata ancora una settimana dall'inizio della scuola che Parvaneh aveva già trovato un pretesto per andare in farmacia, trascinandomi con la forza insieme a lei. Mi sentivo molto imbarazzata e mi sembrava che tutta la città fosse al corrente di ciò che provavo. Saeid non si aspettava di vederci e restò impalato a fissarmi senza nemmeno accorgersi che Parvaneh gli aveva chiesto tre volte una confezione d'aspirina, finché il dottor Ataye richiamò la sua attenzione invitandolo a servirci.
Quando uscimmo dal negozio non restava più nulla da nascondere. Parvaneh, pensierosa e sorpresa allo stesso tempo, esclamò: «Hai visto come ti guardava?» e poiché ero impallidita e non le rispondevo, dapprima mi fissò, poi camminò in silenzio per qualche minuto e infine sbottò: «Certo che sei bugiarda! Altro che ingenua: tu sei la furba e io ho fatto la figura della scema... Perché non me l'hai detto?».
«Cosa avrei dovuto dirti? Non c'è proprio niente da dire!»
«Sì, buonanotte! Si vede lontano un miglio che voi due ve la intendete... bisogna essere proprio ciechi per non capire. Di' la verità, fin dove vi siete spinti?»
«Ma cosa dici?!»
«Smettila di fare la finta tonta! Da te ci si può aspettare di tutto: dal velo alle follie d'amore... Che stupida, che stupida sono stata... e io che pensavo che si mettesse in bella vista per me! E poi guarda quanto sei stata brava a non farmi capire nulla! Ecco perché dicono che quelli che vengono da Qum sono falsi... hanno ragione: non hai detto niente nemmeno a me che sono la tua migliore amica, a me che ti racconto sempre tutto nei minimi dettagli! Come hai potuto nascondermi una cosa così importante?»
Sentivo il magone stringermi la gola e prendendola per un braccio la supplicai di non dire più quelle cose, di calmarsi e di abbassare la voce e le giurai su mio padre e sul Corano che fra noi non era successo niente, ma Parvaneh continuò ad attaccarmi come un fiume ormai in piena che distrugge gli argini, con voce sempre più densa di rancore, finché scoppiai in lacrime. Solo quelle riuscirono a riportarla in sé e a spegnere il fuoco della sua rabbia: il suo cuore non aveva la forza di reggere il mio pianto. Allora con voce più pacata mi disse: «E ora perché ti metti a piangere? Per strada, poi! Sono soltanto delusa dal fatto che tu me l'abbia tenuto nascosto... tutto qui... io sono sempre stata sincera con te».
Giurai e spergiurai che lei era la mia migliore amica e che non le avevo e mai le avrei nascosto nulla e pace fu fatta.
Io e Parvaneh sperimentammo insieme tutte le fasi dell'innamoramento. Dimostrava il mio stesso interesse nei confronti di questo nuovo sentimento anche se non era direttamente coinvolta, e mi chiedeva di continuo come mi sentivo e a cosa pensavo quando stavo in silenzio. Io allora le raccontavo dei miei sogni, dei miei desideri, delle mie inquietudini riguardo al futuro, del timore di dovermi un giorno sposare con qualcun altro. Lei chiudeva gli occhi e sospirando diceva: «Uau, che romantico! Allora è così che ci si sente a essere innamorati? Purtroppo io non sono sentimentale come te e alcune cose che dicono gli innamorati mi fanno ridere... e poi non arrossisco mai... da cosa potrò capire se sono innamorata?».
Le giornate colorate e splendide dell'autunno passarono con la stessa velocità dei suoi venti.
Io e Saeid non ci eravamo ancora parlati, ma ultimamente, quando io e Parvaneh gli passavamo accanto, mi salutava sottovoce e il mio cuore ogni volta sobbalzava e batteva più forte. In quei giorni, leggevo poesie d'amore e le imparavo a memoria con impressionante velocità...
Parvaneh scovava quotidianamente nuove informazioni su Saeid e si precipitava a comunicarmele. Ormai sapevamo che il suo cognome era Zarei, che era nato a Rezaieh, dove vivevano ancora la madre e le sue tre sorelle, e aveva perso il padre qualche anno prima. Era rispettabile e di buona famiglia, frequentava il terzo anno della facoltà di farmacia, era intelligente e studioso, e il dottore si fidava ciecamente di lui e ne era pienamente soddisfatto. Tutto ciò che sentivamo riguardo a lui era lusinghiero e confermava i miei sentimenti. Mi sembrava di conoscerlo dall'inizio dei miei giorni e sognavo di passarne con lui anche la fine... Parvaneh mi portava in farmacia più volte la settimana con vari pretesti e spendeva un sacco di soldi in medicine solo per vedere i nostri sguardi rubati, il tremore delle mani di Saeid e l'innaturale rossore delle mie guance. Teneva attentamente sotto controllo ogni nostro gesto e una volta commentò: «Mi sono sempre chiesta cosa fosse un gioco di sguardi e ora l'ho capito fin troppo bene!».
Tutte le mattine mi pettinavo con cura maniacale. Annodavo il rusari in modo da non rovinarmi la frangia e da non coprire le punte dei capelli. Ogni tentativo di farmi venire i boccoli fu inutile, finché un giorno Parvaneh mi convinse che era sciocco cercare di farmi riccia, perché i capelli lisci erano di moda e i miei erano stupendamente lisci e serici al naturale. Lavavo e stiravo regolarmente la mia uniforme scolastica e pregai mia madre di comprarmi la stoffa per un'uniforme nuova e di farmela cucire da una sarta, perché con il corso di taglio e cucito avevo imparato a riconoscere i difetti nel lavoro «sartoriale» di Khanum Jun: mancava completamente di stile, ma questo naturalmente non glielo dissi mai... Parvin Khanum mi confezionò un'uniforme molto bella e io le chiesi di nascosto di accorciarmi un po' la gonna, che rimase comunque la più lunga di quelle che giravano per la scuola... Misi anche da parte qualche risparmio e insieme a Parvaneh comprai un nuovo rusari verde smeraldo che - come diceva la mia amica - metteva in risalto il colore dei miei occhi.

4.

Quell'anno l'inverno fu molto freddo: la neve non faceva in tempo a dissolversi che fioccava di nuovo e il sole era così pallido da non riuscire mai a scioglierla del tutto. La mattina le strade erano ghiacciate e sembrava di camminare sulle uova: ci voleva la massima cautela perché ogni giorno qualcuno scivolava e finiva a gambe all'aria. Venne anche il mio turno: quel giorno non ero ancora arrivata alla casa di Parvaneh, quando una lastra di ghiaccio mascherata dall'ultima spruzzata di neve mi tradì e io caddi malamente a terra procurandomi una distorsione alla caviglia. Appena cercai di alzarmi sentii un dolore lancinante, poi arrivò Parvaneh e Ali passò di lì andando a scuola, e insieme mi aiutarono a rialzarmi e mi accompagnarono a casa.
Khanum Jun mi fasciò il piede e attese fino al pomeriggio, ma il gonfiore e il dolore aumentarono. Quando gli uomini di casa tornarono, naturalmente ognuno disse la sua. Secondo Ahmad non era niente e non mancò di aggiungere che non mi sarebbe successo se fossi rimasta a casa come avrei dovuto. Agha Jun voleva portarmi in ospedale. Mahmud propose di consultare il signor Ismail - il macellaio - che secondo lui era bravissimo a diagnosticare e sistemare le slogature e andò a chiamarlo...
Agha Ismail aveva suppergiù l'età di Agha Jun ed era famoso per le sue diagnosi. In quei giorni faceva fior di quattrini con le cadute provocate dalla neve. Quando vide il mio piede disse subito che non era rotto, ma che mi ero slogata la caviglia. Me lo fece mettere nell'acqua calda e lo massaggiò, poi, senza preavviso, lo girò di scatto... Urlai per il dolore e svenni. Quando ripresi conoscenza mi stava fasciando il piede dopo averlo cosparso con un impacco d'uovo, spezie e varie sostanze oleose, e mi raccomandò di non camminare per almeno due settimane. Che catastrofe! Piangendo dissi che non potevo: avevo la scuola e stavano per cominciare gli esami del secondo trimestre, anche se in realtà agli esami mancava ancora un mese e mezzo e le mie lacrime erano per tutt'altro...
Per qualche giorno non potei veramente muovermi. Passavo molto tempo al tepore del korsi pensando a Saeid. La mattina, quando tutti erano fuori, mettevo le mani sotto la testa con il viso rivolto al triste sole invernale e mi lasciavo trasportare dai sogni, passando immaginarie ore felici in sua compagnia. L'unico disturbo in quelle mattine tranquille era Parvin Khanum, che trovava ogni scusa per venire a trovare mia madre. Non mi piaceva per niente quella donna! Appena sentivo il suono della sua voce fingevo di dormire e non capivo proprio come avesse fatto Khanum Jun, così religiosa e devota alla propria famiglia, a diventare amica di una persona poco per bene e a non accorgersi che tutte quelle attenzioni in realtà erano per mio fratello...
Il pomeriggio, quando tornavano tutti gli altri, la pace si dissolveva. Ali avrebbe potuto dar fuoco a un intero quartiere per quanto era scatenato ed era diventato anche disubbidiente e maleducato. Seguiva le orme di Ahmad e riusciva a essere cattivo quanto lui nei miei confronti, soprattutto adesso che ero costretta a stare in casa. Khanum Jun mi coccolava e Agha Jun continuava a chiedere come stavo. Ali era invidioso e mi guardava come se lo avessi detronizzato. Si divertiva a saltare giù dal korsi e a far piangere Fati. Ma non si limitava a questo... mi calpestava i libri, li sparpagliava, e spesso inciampava inavvertitamente nel mio piede malato facendomi urlare dal dolore.
Finalmente un giorno, dopo mille lacrime e lamentele, convinsi mia madre a trasferirmi al piano di sopra, in modo da essere al sicuro dai brutti tiri di Ali e da poter studiare in santa pace per gli esami che si stavano avvicinando. Mia madre non smetteva di borbottare che non avrei potuto salire e scendere le scale in quelle condizioni e che di sopra faceva freddo perché la stufa grande era rotta, ma alla fine ebbi la meglio. Anche se disponevo solo di una piccola stufa per scaldarmi, in quella stanza avevo pace e potevo studiare, riflettere e scrivere sul mio quaderno di poesie. Nei miei sogni, partivo per viaggi lunghi e lontani e scrivevo il nome di Saeid sugli angoli delle pagine dei miei libri in un codice segreto che avevo inventato...
In quei giorni luminosi e allegri non avevo bisogno di motivi per sorridere. Mi sentivo felice e fortunata e mi ero persino dimenticata del dolore al piede.
Un giorno di fine inverno venne a trovarmi Parvaneh. Di fronte a Khanum Jun parlammo dei compiti e degli esami che sarebbero cominciati il 15 del mese di Esfand, ma non appena mia madre si allontanò, Parvaneh chiuse la porta e disse che aveva importanti novità. Ardevo dalla curiosità e dal desiderio di sapere e temevo che arrivasse qualcuno prima che Parvaneh potesse raccontarmi tutto...
«Saeid il Preoccupato è più preoccupato che mai: pensa che ogni giorno si mette sui gradini di fronte alla farmacia e continua a guardarsi intorno in cerca di qualcuno... e quando mi vede arrivare da sola ci rimane malissimo, si fa scuro in viso e rientra in negozio con aria avvilita. Oggi però non ce l'ha più fatta e ha avuto il fegato di avvicinarsi e di salutarmi, diventando di tutti i colori. Poi, balbettando, è riuscito a chiedermi della "mia amica", come mai non andava più a scuola e se stava bene... Io sono stata un po' crudele: ho fatto la finta tonta e gli ho chiesto di quale amica stesse parlando. Dovevi vedere come mi ha guardata! Ha detto: "Ehm... mi riferisco a quella signorina che sta sempre con voi e che abita in ria Gorgan". Be', mia cara, si vede che conosce anche il tuo indirizzo, non è affatto stupido il ragazzo... deve averci pedinate! Comunque gli ho risposto: "Ah! Allora parlate di Masumeh Sadeghi. Poverina, è caduta slogandosi una caviglia e non potrà andare a scuola per due settimane". È impallidito di colpo, ha esclamato "Oh, mi dispiace!", si è girato e se ne è andato senza nemmeno dirmi buongiorno, ma dopo pochi passi si è reso conto di essere stato scortese, è tornato indietro a salutarmi e mi ha chiesto di salutare anche te...» mi raccontò Parvaneh tutto d'un fiato.
Il mio cuore e la mia voce tremavano. Così adesso sapeva anche il mio nome! Secondo Parvaneh non c'era niente di male e poi probabilmente lo sapeva già prima che glielo dicesse lei visto che conosceva anche il mio indirizzo... anzi doveva avere studiato persino il mio albero genealogico ed essere perdutamente innamorato di me!
«Vedrai che si presenterà a giorni per il tuo khastegari...5 per chiedere la tua mano», mi disse convinta.
Mi sentivo sciogliere per l'emozione e non riuscivo a smettere di sorridere, così quando Khanum Jun entrò con il vassoio del tè, mi guardò sorpresa e mi chiese il motivo di tanta allegria. Fui presa alla sprovvista, ma Parvaneh venne in mio soccorso e si inventò che a scuola avevano consegnato il pagellino e che i miei voti erano i migliori della classe...
Mia madre come sempre diede poca importanza ai miei successi scolastici e disse che a una ragazza non serve studiare... stavo sprecando inutilmente il mio tempo perché presto mi sarei sposata e mi sarei occupata solo dei bambini e della casa... Io protestai che non volevo affatto sposarmi presto, perché prima dovevo prendere il diploma e Parvaneh aggiunse che avrei fatto anche l'università e sarei diventata un dottore. La guardai di traverso perché si stava divertendo a soffiare sul fuoco e infatti mia madre sbottò: «Ma bene, e così ha intenzione di studiare ancora! Più la mando a scuola e più diventa sfacciata... è tutta colpa del suo Agha che non la smette di viziarla, come se fosse unica!» e continuando a brontolare uscì dalla stanza. Io e Parvaneh scoppiammo a ridere: per fortuna mia madre era ignorante in materia, altrimenti mi avrebbe chiesto da quando in qua si diventava medici con un diploma in letteratura... e, mentre si asciugava le lacrime che le erano venute a forza di ridere, Parvaneh concluse: «Non volevo dire che saresti diventata un dottore, ma che avresti sposato un dottore!».
Dopo che Parvaneh se ne fu andata mi gettai sul letto a crogiolarmi nel pensiero che Saeid era preoccupato per me e sentiva la mia mancanza.
Quel giorno nemmeno le urla di Ahmad che litigava con Khanum Jun riuscirono a infastidirmi: sapevo che Ali aveva fatto la spia con Ahmad avvertendolo che Parvaneh era venuta a trovarmi, ma la cosa mi lasciava indifferente.
Tutte le mattine mettevo in ordine la stanza zoppicando, poi scendevo lentamente le scale con una mano sul corrimano e l'altra sul bastone di Naneh Jun, mi lavavo, facevo colazione e con grande fatica tornavo di sopra. Mia madre continuava a brontolarmi dietro: «Con il freddo che fa lassù ti beccherai anche una polmonite oppure finirai per scenderle di testa, quelle dannate scale!». Ma chi la stava a sentire! Me la cavavo benissimo con la mia piccola stufa e non avrei barattato con niente quella piacevole solitudine. E poi il calore che avevo dentro non mi faceva sentire il freddo fuori...
Due giorni dopo Parvaneh tornò. Mi precipitai alla finestra e sentii che mia madre rispondeva con freddezza al suo saluto, ma la mia amica fece finta di non accorgersene e disse di avermi portato il programma d'esame. Poi salì di corsa in camera mia e con il fiatone si chiuse la porta alle spalle, vi si appoggiò e tenne gli occhi chiusi per qualche istante. Aveva la faccia tutta rossa, non sapevo se per il freddo o per l'emozione, ma non avevo il coraggio di fare domande e lei mi tenne sulle spine per un po', dicendomi che rischiava di finire nei guai per me mentre io me ne stavo comoda a dormire e che aveva corso come una matta dalla farmacia a casa mia e doveva riprendere fiato... poi finalmente si decise a raccontare.
«Stavo tornando a casa con Maryam. Quando siamo arrivate di fronte alla farmacia Saeid era lì in piedi e mi ha fatto un cenno quasi impercettibile, ma Maryam - sai quant'è sveglia no? - se n'è subito accorta e mi ha detto: "Il giovanotto ti vuole!". Naturalmente le ho risposto che si sbagliava, ho fatto finta di niente e ho continuato a camminare, ma lui ci è corso dietro e mi ha chiesto se potevo seguirlo in farmacia perché doveva parlarmi... e mentre lo diceva era rosso come un peperone e io non sapevo cosa fare con quell'impicciona di Maryam, allora ho cercato di rimediare facendo finta di ricordarmi che dovevo ritirare le medicine per mio padre... ma quel tontolone è rimasto lì a guardarmi a bocca aperta e a quel punto, per evitare ulteriori figuracce, ho detto a Maryam di non aspettarmi perché dovevo ritirare le medicine in farmacia. Lei però non ha mollato l'osso: non voleva perdersi un'occasione del genere e mi ha risposto che non aveva fretta e sarebbe venuta con me! Non potevo più insistere perché si era già insospettita e poi si è inventata di aver finito il dentifricio... insomma alla fine è entrata con me in negozio. Fortunatamente Saeid si è svegliato e ha preparato in fretta una scatola di farmaci infilandoci dentro una busta e dicendomi che era la ricetta. "Vi prego di darla a vostro padre e di porgergli i miei saluti", ha aggiunto e io l'ho messa immediatamente nella mia cartella perché Maryam non la vedesse - quando mai, dico io, si mette una ricetta in una busta chiusa e sigillata! Se avesse potuto, Maryam me l'avrebbe tolta dalle mani per vedere cosa c'era scritto: sai anche tu quanto è intrigante e pettegola! Per di più tutte le ragazze della scuola parlano di Saeid e molte pensano che se ne stia davanti alla farmacia per loro... Chissà domani che voci gireranno su di me! Comunque, Maryam stava ancora scegliendo il dentifricio quando sono venuta via per precipitarmi qui.»
Per qualche istante rimasi come inebetita da quelle eccitanti novità, poi però la più importante di tutte mi fece risvegliare di colpo: la lettera di Saeid! Era per me: dovevo leggerla, ma mi tremavano le mani... non avevo il coraggio di aprirla... cosa poteva esserci scritto? Fino ad allora, non ci eravamo scambiati altro che discreti e bisbigliati saluti... In quel momento - senza preavviso - entrò Khanum Jun e io nascosi la lettera sotto le lenzuola con uno scatto, poi la guardammo entrambe con aria colpevole o forse troppo innocente, perché immediatamente si insospettì. Come al solito fu Parvaneh a entrare in scena per risolvere la situazione: questa volta si inventò che stavo facendo una tragedia per un brutto voto in inglese, un comportamento davvero assurdo perché mia madre non mi sgridava per la scuola come la sua - «Vero signora, che non la sgriderete?» - e guardò candidamente Khanum Jun rimasta interdetta. Non poteva che confermare che non le importava niente dei miei voti... anzi sarebbe stata contenta se mi avessero bocciato e mi fossi finalmente decisa a frequentare il corso di taglio e cucito... Allora mise il tè di fronte a Parvaneh e se ne andò con aria perplessa. Ci guardammo per qualche secondo in silenzio prima di scoppiare in una risata liberatoria: ce l'eravamo vista brutta!
Finalmente aprii la lettera: lo feci con cautela, come se non dovessi danneggiare nemmeno la busta bianca. Sentivo pulsarmi il cuore in ogni parte del corpo e vidi anche Parvaneh fremere d'ansia insieme a me. Che bella scrittura! Ma le parole mi danzavano davanti agli occhi e mi girava la testa: lessi velocemente trattenendo il fiato, erano solo poche righe ma dovetti leggerle una seconda volta per afferrarne il senso...
La lettera cominciava con i versi di una poesia.

Il tuo corpo dalle premure di un medico sia lontano,
la tua esistenza delicata dalle macchie sia lontana!

E continuava con educati saluti e auguri di una pronta guarigione. Com'era cortese e gentile! E dalla sua scrittura si capiva chiaramente che era anche colto...
Parvaneh se ne andò subito, perché non aveva avvertito la madre che passava a trovarmi, ma non me ne accorsi nemmeno! La mia testa era altrove, mi sembrava di volare e mentre volavo potevo vedermi lì, stesa sul letto con la lettera stretta al petto e un largo sorriso sulle labbra. Per la prima volta mi pentii di aver desiderato tante volte di essere morta al posto di Zari. Quanto era piacevole la vita! Avrei abbracciato e baciato il mondo intero... rimasi trasognata per tutto il giorno. Non mi accorsi quando si fece sera, di cosa mangiai per cena, di chi arrivò, chi se ne andò o cosa dissi io stessa.
A mezzanotte accesi la luce per rileggere la lettera e mi riaddormentai stringendola al petto, poi fra i sogni la notte diventò mattino. Era un'esperienza che poteva capitare una sola volta nella vita... ne ero certa.
Il giorno seguente aspettai con ansia Parvaneh, continuando a guardare in giardino da dietro la finestra. Khanum Jun se ne accorse e io inventai che mi stavo annoiando e osservavo la strada per distrarmi. Dopo qualche minuto però suonarono il campanello e alla vista di Parvaneh mia madre mi guardò ammiccando come per dire «aspettavi lei, eh?»
Parvaneh salì di corsa le scale. Mentre cercava di togliersi una scarpa con l'aiuto dell'altro piede, gettò la cartella in mezzo alla stanza.
«Su, entra! Che fai?»
«Accidenti a questi lacci...»
Finalmente si liberò delle scarpe, si sedette e volle rileggere la lettera. Le lanciai il libro tra le cui pagine l'avevo nascosta.
«Parlami di oggi, l'hai visto?»
Rise. «Lui mi ha vista... Era in piedi sui gradini della farmacia e girava così tanto la testa di qua e di là che sono certa che tutta la città abbia capito che aspettava qualcuno! Questa volta mi si è avvicinato e mi ha salutata senza arrossire, poi mi ha chiesto come stavi e se ti avevo dato la lettera. Allora gli ho risposto che stari meglio e ricambiavi i saluti. Lui ha tirato un sospiro di sollievo: era preoccupato, aveva paura che ti offendessi... poi mi ha chiesto in tono esitante se gli avevi mandato una risposta. Non sapevo cosa dire, allora ho inventato che ti avevo consegnato la lettera e me n'ero andata subito, che non avevi avuto il tempo di rispondergli... ma adesso cosa pensi di fare? Si aspetta una risposta!»
«Io scrivergli una lettera? Non se ne parla! E sconveniente - non posso - penserebbe che sono una sfacciata.»
Nello stesso momento entrò mia madre e commentò che ero davvero diventata una sfacciata... Io e Parvaneh ci guardammo spaventate: cosa poteva aver sentito? Khanum Jun mise a terra il vassoio della frutta e si sedette. Parvaneh improvvisò qualcosa come al solito, ma questa volta mia madre non sembrò convinta e quando se ne andò le feci cenno di tacere: ero certa che fosse dietro la porta ad ascoltare... così cominciammo a parlare a voce volutamente alta della scuola e dei compiti. Parvaneh prese il nostro libro di arabo e cominciò a leggerne un brano. A Khanum Jun piaceva molto l'arabo, pensava stessimo leggendo il Corano! Dopo qualche minuto sentimmo il rumore dei suoi passi, che cercava invano di attutire, scendere le scale.
«Finalmente se n'è andata! Allora, hai preso una decisione? Gli scriverai?»
«No... non lo so... cosa devo fare?»
«Se non gli scrivi, almeno gli devi parlare! Non potete andare avanti a sguardi e cenni del capo... dobbiamo scoprire le sue intenzioni... insomma, vuole o non vuole sposarti? Forse vuole soltanto prendersi gioco di noi due...»
Era davvero buffo. Io e Parvaneh stavamo diventando una cosa sola: nei nostri discorsi avevamo cominciato a usare il plurale...
«Ma io non ho idea di cosa scrivergli. Fallo tu!»
«Io? Ma sei matta? Non ne sono capace... e poi tu sei molto più brava di me nei temi! E conosci un sacco di poesie...»
«Fammi almeno il favore di scrivere tutto quello che ti passa per la mente... provaci, ti prego! Io farò lo stesso... poi mettiamo insieme le nostre creazioni e cerchiamo di tirarne fuori una lettera decente!»
Quel pomeriggio mi svegliai di soprassalto a causa delle urla di Ahmad. Aveva saputo che Parvaneh veniva a trovarmi tutti i giorni e si era infuriato: non sopportava né lei né le sue sciocchezze, non capiva cosa volesse e perché arrivasse a casa nostra a tutte le ore e minacciava di sbatterla fuori a calci alla prima occasione. Khanum Jun cercava invano di calmarlo, dicendogli di non farsi il sangue amaro per così poco, che Parvaneh veniva a portarmi i compiti e si fermava solo il tempo necessario... Avrei voluto mettere le mani su Ali e ammazzarlo di botte! Quel nanerottolo si era messo a fare la spia... Dovevo avvertire Parvaneh di stare attenta e di venire quando non c'era Ali.
Passai tutta la giornata a scrivere e cancellare frasi. In realtà avevo già provato a scrivergli, ma solo nel mio codice segreto e molto intimo: assolutamente inadeguato per una lettera ufficiale.
Il mio codice era nato dalla necessità, innanzitutto perché in casa nostra non esisteva alcun tipo di riservatezza: non avevo nemmeno un cassetto tutto mio! E poi perché amavo la scrittura, non riuscivo a staccarmene, dovevo assolutamente mettere su carta i miei pensieri, desideri e sogni: era l'unico mezzo che mi aiutasse a ordinarli e a capire cosa volessi veramente. Ma scrivere per un altro - un uomo - era ben diverso... non sapevo cosa, non sapevo nemmeno come rivolgermi a Saeid... «Gentile signore»? Formale. «Caro amico»? Sconveniente. «Saeid»? Troppo confidenziale.
Quando a mezzogiorno di giovedì Parvaneh venne a casa nostra direttamente da scuola, non avevo ancora buttato giù neanche una parola.
Parvaneh era più eccitata del solito. Quando Fati le aprì la porta, non le fece la solita carezza sui capelli, ma salì le scale come una furia, si precipitò nella mia stanza lanciandoci dentro la sua cartella e si sedette sul tappeto di fronte alla porta. Mentre si toglieva con forza le scarpe cominciò subito a parlare concitata: «Stavo tornando da scuola e lui mi ha chiamata e mi ha detto che i farmaci di mio padre erano pronti - povero papi, chissà che malattia può avere per dover fare un uso così spropositato di medicine! Grazie a Dio Maryam non era con me questa volta. Sono entrata in farmacia e lui mi ha dato un pacchetto che ho messo nella cartella... Sbrigati ad aprirla: il tuo pacchetto sta sopra a tutto».
Avevo il cuore in subbuglio: mi sedetti a terra, aprii in fretta la cartella e presi il piccolo pacco bianco. Strappai subito l'incarto. Era un libro di poesie dalle cui pagine sporgeva il bordo di una lettera. Ero madida di sudore. Con la lettera in mano mi accasciai contro il muro: era come se all'improvviso avessi perso tutte le mie energie. Parvaneh mi raggiunse gattonando e mi spronò a leggere: voleva sapere cosa mi aveva scritto e non poteva fermarsi a lungo. In quel preciso momento entrò Fati, si attaccò a me e disse che la mamma chiedeva se Parvaneh Khanum desiderava del tè...
«Oh... no, grazie, devo correre a casa, ma ringrazia la tua signora mamma da parte mia... su da brava, vai ora!» le rispose dopo averle dato un bacio sulla guancia. Ma Fati si attaccò di nuovo a me, non se ne voleva andare. Era chiaro che le era stato dato preciso ordine di non lasciarci sole. Parvaneh allora ci provò con una caramella e le disse di nuovo di scendere dalla mamma: povera Khanum Jun, le faceva male una gamba e non volevamo che si disturbasse a salire le scale, comunque lei non poteva fermarsi a bere il tè...
Con l'uscita di scena di Fati, Parvaneh mi tolse di mano la busta e mentre diceva: «Sbrigati prima che arrivi qualcun altro!» l'aprì e cominciammo a leggere:

Gentile signorina,
non mi permetto ancora di scrivere il vostro nome, pur gridandolo mille volte al giorno nel mio cuore.
Non mi era mai successo di sentire un nome che rappresentasse perfettamente lo sguardo, il volto di chi lo porta.6 Masumiate, l'innocenza dei vostri occhi e l'espressione del vostro viso sono le prime cose che richiamano l'attenzione di chi vi guarda. Sono ormai dipendente dal vedervi ogni giorno, e se vengo privato di tale dono come ora non so che fare della mia esistenza... Il mio cuore è uno specchio coperto da un velo di tristezza, che voi sola potrete soffiare via con un semplice sorriso! In questi giorni in cui non ho potuto vedervi, mi sono sentito perduto. Salvatemi da questo senso di smarrimento con un vostro messaggio perché possa tornare in me.
Mi auguro dal più profondo del cuore che vi riprendiate presto... Abbiate cura di voi,
Saeid

Entrambe confuse e sorprese per quelle bellissime parole, stavamo lì immobili in silenzio e con il fiato sospeso, perse nei nostri pensieri, quando all'improvviso entrò Ali. Rapidamente nascosi il libro e la lettera sotto i miei piedi, mentre mio fratello chiedeva con voce rabbiosa da parte della mamma se Parvaneh voleva rimanere a pranzo e, alla sua risposta negativa, aggiunse a voce più bassa mentre se ne andava che però loro adesso volevano pranzare...
Ero imbarazzata per la maleducazione di Ali e non sapevo cosa dire. Ma Parvaneh era perfettamente consapevole della freddezza della mia famiglia nei suoi confronti e si limitò a commentare che forse era venuta troppe volte a casa nostra e i miei erano stanchi di vederla...
«Quando tornerai a scuola? Con oggi sono dieci giorni che stai a letto... e io sono stanca di queste recite... non ho più il coraggio di guardare tua madre in faccia per quante bugie le ho raccontato!»
Anch'io non vedevo l'ora di uscire, di tornare a scuola, di passare dalla farmacia... Le assicurai che il sabato seguente sarei andata a scuola con lei.
Mi diede un bacio frettoloso sulla fronte, e senza allacciarsi le scarpe scese le scale. Sentii la sua voce proveniente dal giardino dire a Khanum Jun: «Mi scuso tanto per il disturbo, ma dovevo assolutamente venire... Sabato abbiamo un esame importantissimo e dovevo avvertire Masum di studiare bene. Grazie a Dio sta molto meglio. Sabato passo a prenderla così andiamo a scuola insieme e l'aiuto a camminare...».
«Non può venire, la sua caviglia non è ancora del tutto guarita.»
«Ma abbiamo un esame...»
«E allora? Non è così importante... e poi Ali mi ha detto che manca ancora un mese abbondante agli esami!»
Allora aprii la finestra e urlai che ci dovevo assolutamente andare, perché si trattava di una verifica che avrebbe fatto media con il voto dell'esame... Khanum Jun, indispettita, voltò le spalle e rientrò in cucina. Parvaneh gettò uno sguardo alla finestra, mi fece l'occhiolino e se ne andò.
Da quel momento cominciai a esercitarmi a camminare e raddoppiai le cure alla caviglia non ancora guarita: appena sentivo male mi fermavo e mettevo il piede sul cuscino; invece di un tuorlo ne spalmavo due e il doppio dei vari unguenti e mi fasciavo con grande cura... e ogni occasione era buona per rileggere la lettera di Saeid, la cosa più bella che avessi ricevuto in tutta la mia vita...
Cercavo di interpretare le sue parole e i pensieri si rincorrevano confusi nella mia testa: "Perché il suo cuore è velato di tristezza? Devono essere i suoi problemi familiari: è orfano di padre e responsabile di una madre e di tre sorelle e deve studiare e lavorare allo stesso tempo... forse se non avesse tutte queste preoccupazioni e suo padre fosse ancora in vita, verrebbe di corsa al mio khastegari... anzi l'avrebbe già fatto. Del resto il dottore ha detto al padre di Parvaneh che Saeid fa parte di una famiglia onorata... comunque io sarei disposta a vivere accanto a lui anche in una topaia! Ma perché ha scritto che il mio nome si addice perfettamente al mio sguardo? È stato un po' indiscreto... Ricevere e leggere quelle lettere può aver distrutto la mia innocenza? E se fossi stata veramente masum, mi sarei mai innamorata? Eppure ho cercato di resistere, di non farmi battere forte il cuore quando gli passavo accanto, di non arrossire quando mi salutava, ma è stato inutile, non sono riuscita a imprigionare i miei sentimenti...".
Quel sabato mi svegliai prima del solito; a dire il vero ero rimasta sveglia quasi tutta la notte. Mi vestii, rimisi al suo posto il bastone di Naneh Jun, che in quei giorni mi era tornato tanto utile, per dimostrare a tutti che non stavo più male, poi scesi le scale reggendomi al corrimano con tutte le forze e mi sedetti a fare colazione con gli altri.
Agha Jun era preoccupato per il mio piede e disse che avrebbe potuto accompagnarmi Mahmud in motorino, ma mio fratello gli lanciò uno sguardo sprezzante come se fosse impazzito. «Ci manca solo che la signorina senza hijab si metta in sella a un motorino dietro a un uomo!»
«Ma no... si metterà il velo, vero, Masum? E poi tu sei suo fratello... non un namahram!7»
«Astakhforellah! Cosa dite? Dio, perdono! Agha Jun, questa Teheran sembra aver traviato anche voi...»
Visto che ero la diretta interessata, cercai di inserirmi nel loro battibecco: «Ehm, scusatemi... ma quando mai sono andata a scuola senza rusari? Comunque non ho bisogno di un passaggio, verrà a prendermi Parvaneh che mi aiuterà a camminare fino a scuola».
Mia madre borbottò qualcosa sottovoce, mentre mio fratello Ahmad, come sempre rabbioso e con gli occhi gonfi per la sbornia della sera precedente, commentò: «Eh già! Noi le diciamo che non può girare con Parvaneh e lei cosa fa? La usa come bastone da passeggio... una svergognata con la gonna sempre troppo corta che cammina ancheggiando... una pettegola che ride sguaiatamente facendosi sentire da tutti!».
Diventai rossa di rabbia. «La sua gonna non è affatto corta, anzi a scuola indossa la più lunga, ed è una ragazza sportiva, quindi non è tipo da queste sciocchezze! E poi, com'è che osservi così attentamente la figlia degli altri da accorgerti che ancheggia?»
«Se non stai zitta ti tiro un ceffone così forte da farti cadere tutti i denti! Vedete, Khanum Jun, quanto è diventata sfacciata e senza ritegno? Per forza: tutti le coprono le spalle, tutti la difendono...»
Finalmente Agha Jun intervenne e disse che lui conosceva il padre di Parvaneh, il signor Ahmadi - un uomo onesto, intelligente e rispettato da tutti - e con questo chiuse la questione, almeno per il momento.
Subito dopo, per fortuna, Parvaneh suonò alla porta. Annodai in fretta il mio rusari, li salutai velocemente e uscii con passo zoppicante.
L'aria era fredda, pulita e mi sferzò il viso. Mi fermai qualche istante ad assaporarla: sapeva di giovinezza, amore e gioia. Mi appoggiai a Parvaneh: mi faceva ancora male il piede ma non mi importava. Ci incamminammo lentamente verso la scuola mentre io cercavo di frenare la mia emozione, di tenerla chiusa dentro di me. Da lontano, scorsi Saeid in piedi sul secondo gradino della farmacia che si guardava intorno in cerca di qualcuno. Quando anche lui ci notò, saltò il primo gradino e ci venne incontro senza esitare, ma io mi morsi il labbro e lui capì di essere stato troppo avventato, allora tornò indietro e restò fermo ad aspettare che passassimo. Quando il suo sguardo apprensivo cadde sul mio piede fasciato e sul mio incedere zoppicante, si fece scuro in viso. Il mio cuore volava verso di lui: sembravano secoli che non lo vedevo, eppure percepivo un'intimità maggiore, sentivo di conoscerlo meglio, sapevo cosa provava per me ed ero ormai certa di amarlo. Quando arrivammo di fronte alla farmacia, Parvaneh si fermò con la scusa di farmi riposare.
Appoggiai la mano contro il muro e risposi al suo saluto sottovoce con un lieve movimento delle labbra. Con apparente calma mi chiese se mi faceva male il piede e se volevo un antidolorifico. Ma mentre gli rispondevo che stavo bene, Parvaneh mi avvertì ansiosamente che stava arrivando Ali e fummo obbligate a rimetterci subito in cammino verso la scuola, con passo molto più rapido di prima.
Quel giorno avevamo un'ora di educazione fisica e la saltammo entrambe per raccontarci tutte le cose non dette che ci erano rimaste nel cuore. In cortile, sotto il sole svogliato del mese di Esfand, attente a non farci scoprire dalla vicepreside nel suo giro d'ispezione, leggemmo e rileggemmo la lettera di Saeid, parlammo della sua gentilezza, della sua educazione e della sua bella scrittura finché le confidai che pensavo di avere una malattia al cuore, perché il mio battito aveva improvvise accelerazioni e una specie di smania mi assaliva di continuo... Lei si mise a ridere. «Questi non sono sintomi da infarto, cara, sono sintomi di mal... d'amore! E poi io stessa che non c'entro niente mi sento il cuore in gola quando lui sbuca dal nulla, figuriamoci tu!»
«Pensi che mi succederà anche quando saremo sposati?»
«Certo che no, sei proprio ingenua! Ma se sarai ancora nelle stesse condizioni di oggi, allora sì che ti consiglierò una visita dal cardiologo...»
«Comunque credo che dovremo aspettare almeno due anni prima che lui finisca i suoi studi, e l'idea non mi dispiace, così potrò prendere il diploma anch'io... per fortuna poi non dovrà fare il servizio militare perché suo padre è morto, lui è l'unico figlio maschio in famiglia e dovrà di sicuro farne le veci.»
«Può darsi, ma un lavoro dovrà pur trovarlo, no? Come pensi che possa riuscire a mantenere due famiglie? Ah, e a proposito, quanto guadagnano i farmacisti?»
«Non ne ho la più pallida idea, ma se sarà necessario andrò a vivere insieme a sua madre e alle sue sorelle, per evitargli spese inutili.»
«Vuoi dirmi che saresti disposta a finire in un paesino insieme a suocera e cognate che per di più parlano solo turco e con cui quindi non puoi comunicare?!»
«Sì, certo, sarei pronta a finire anche all'inferno con Saeid! Ovunque gli piaccia stare... E poi dicono che Rezaieh sia molto bella e pulita.»
«Non vorrai farmi credere che in quel buco si sta meglio che a Teheran!»
«Be', non so, ma sicuramente si respira un'aria cento volte più buona di quella di Qum! Non ti sarai già dimenticata del posto in cui sono cresciuta?»
Che dolci sogni... Come tutte le adolescenti romantiche ero pronta a seguire ovunque il ragazzo che amavo e a fare qualsiasi cosa lui avesse voluto.
Dopo esserci scambiate tutte queste confidenze, cominciammo ad analizzare le varie risposte alla lettera di Saeid cercando di ricavarne almeno una adatta, ma avevo le mani congelate, ero scomoda e scrivevo in modo disordinato e pasticciato, così decidemmo che avrei riscritto con calma la lettera a casa, e che l'avremmo consegnata a Saeid l'indomani stesso.

5.

Quel freddo mattino d'inverno mi sembrò uno dei più caldi e dolci della mia vita. Pensavo di avere il mondo in pugno. Avevo tutto: una buona amica, l'amore vero, la gioventù, la bellezza, un futuro radioso. Mi sentivo così fortunata che persino il dolore al piede mi sembrava un segno benigno del destino: se non mi fossi slogata la caviglia non avrei mai ricevuto le dolci lettere di Saeid.
Nel pomeriggio tornarono le nuvole e la neve incostante ricominciò a cadere svogliata. Avevo la caviglia che pulsava, camminare diventava sempre più difficile. Tornando a casa mi appoggiai con tutto il mio peso a Parvaneh e dovevamo continuamente fermarci a riprendere fiato. Alla fine arrivammo alla farmacia e Saeid, nel vedere le mie condizioni, mi corse incontro e mi aiutò a salire i gradini. Mi lasciai andare su una poltrona. L'interno del negozio era caldo e illuminato, mentre la strada sembrava ancora più fredda e buia dietro i vetri appannati. Il dottore era impegnato con i malati raccolti intorno al bancone: li chiamava uno alla volta, dando indicazioni sulle medicine di ciascuno. L'attenzione di tutti era rivolta a lui e nessuno sembrò far caso a noi. Saeid si sedette a terra di fronte a me, mi alzò il piede e lo appoggiò sul tavolino davanti alla poltrona. Con delicatezza sfiorò la mia caviglia fasciata e il tocco lieve della sua mano mi fece tremare anche attraverso le bende, poi i brividi attraversarono il mio corpo come un cavo elettrico per passare a lui. Mi guardò teneramente e disse: «È ancora parecchio infiammata, non dovevate camminare oggi! Vi ho messo da parte una pomata da spalmare sul piede e un antidolorifico, ora ve li prendo».
Lo seguii con lo sguardo mentre andava dietro il bancone e tornava con un bicchiere d'acqua e una pastiglia. Mandai giù la pillola. Quando gli restituii il bicchiere, mi diede una lettera e i nostri sguardi si annodarono. Gli occhi dicevano tutto: non avevamo alcun bisogno di parlare. Mi dimenticai del dolore. Non riuscivo a vedere nessun altro: erano tutti spariti nella nebbia, le loro voci distanti e incomprensibili, finché una gomitata di Parvaneh mi riportò alla realtà. Con un movimento degli occhi mi indicò la strada dove Ali, le mani e la faccia premuti contro la vetrina, cercava di guardare all'interno, mentre io mi sedevo diritta e composta come un automa senza nemmeno rendermene conto. Parvaneh si stupì del mio pallore improvviso e uscì a chiamare Ali per farsi aiutare a riportarmi a casa, ma mio fratello se la diede a gambe dopo averle lanciato uno sguardo carico di odio e di disprezzo, «come se avesse voluto staccarle la testa», mi disse.
Quando, dopo mille fatiche, giungemmo alla porta di casa, il sole era ormai tramontato e l'aria si era fatta più fredda e buia. Non avevo ancora suonato il campanello che la porta si aprì e qualcuno mi trascinò in casa. Parvaneh non capì cosa stava succedendo e provò a entrare con me, ma Khanum Jun l'aggredì, spingendola fuori e urlandole che non voleva più vederla e che era tutta colpa sua - ma di cosa? - prima di sbattersi la porta alle spalle. Io caddi dai gradini nel giardino, e Ali mi trascinò per i capelli all'interno della casa. Mi vergognavo tremendamente per la brutta figura con Parvaneh, diedi dell'idiota a mio fratello e gli intimai di lasciarmi andare, ma Khanum Jun fece irruzione nella stanza e anche lei mi strattonò borbottando maledizioni contro di me, mentre io le chiedevo cos'era successo e se erano diventati tutti pazzi...
«Mi chiedi cosa è successo, puttanella? Dopo esserti messa a civettare davanti a tutti con un estraneo!»
«Ma di che estraneo parlate? Mi faceva un male tremendo il piede e il dottore della farmacia gli ha dato un'occhiata e mi ha consigliato qualche medicina. Ecco tutto! E poi il dottore è mahram.»
«Dottore... dottore! Da quando in qua un apprendista di farmacia è diventato medico? Pensi che io sia stupida e non capisca? Che non mi sia resa conto che stai nascondendoci qualcosa?»
«Vi prego, Khanum Jun! Non so di cosa state parlando...»
Ali, anche se era ancora un bambino e non aveva nemmeno cambiato voce, aveva le vene del collo che gli pulsavano e mi tirò un calcio, dicendo che lui ci aveva seguite tutti i giorni e aveva visto lo «sbruffone» della farmacia che si guardava intorno davanti al negozio per vederci passare e che i suoi amici lo prendevano in giro - «tua sorella e la sua amichetta combinano qualcosa con quel ragazzo...» Mia madre si batté forte sul capo. «Elahy, che possa vederti sul letto di morte! Guarda come ci hai disonorato... e adesso cosa dico ad Agha Jun e ai tuoi fratelli?» e mi strattonò di nuovo.
In quello stesso istante, la porta della stanza si spalancò mostrando Ahmad che mi fissava furibondo con gli occhi iniettati di sangue e i pugni serrati. Aveva sentito tutto... Con voce rauca grugnì: «Alla fine sei riuscita a fare di testa tua... Ecco, Khanum Jun, prendetevela e tenetevela così, adesso! Io sapevo sin da quando abbiamo messo piede a Teheran che questa disgraziata, impiastricciandosi e andando in giro con quella ragazza tutti i giorni avrebbe infranto il nostro onore... E ora con che coraggio possiamo alzare la testa di fronte ai vicini, con quale coraggio possiamo guardarli in faccia?».
Urlai che non avevo fatto niente, che stavo cadendo per strada per il male alla caviglia, così mi avevano portato dentro la farmacia e dato un antidolorifico, e nient'altro...
Mia madre gettò uno sguardo al mio piede che si era gonfiato e quando lo toccò gridai per il dolore.
Non potei trattenermi dal continuare: «E poi ancora con questa storia dell'onore? Chi è che ci disonora veramente: io o tu che torni a casa ubriaco fradicio ogni sera? Tu che te la fai con una donna sposata?».
Ahmad balzò in mezzo alla stanza e mi diede un ceffone così forte che sentii in bocca il sapore del sangue. Allora impazzii... «Vuoi forse sostenere che non è vero? Ti ho visto io stessa che ti intrufolavi di nascosto in casa loro quando non c'era suo marito... e non era nemmeno la prima volta.» Un pugno mi raggiunse l'occhio dal basso. La testa mi girava e per un attimo pensai di essere diventata cieca. Tenendomi ferma mia madre mi gridava di stare zitta, di vergognarmi...
Mi divincolai dalla sua presa: ormai ero un fiume in piena, carico di rabbia e di disprezzo. «Pensi che non lo dirò a suo marito? E voi non vi siete accorti che si ubriaca tutte le sere? L'hanno già portato due volte al commissariato perché era stato coinvolto in risse a mano armata! E queste cose non infangano l'onore della famiglia? Mentre io vi disonoro entrando semplicemente in una farmacia...»
Questa volta due ceffoni mi raggiunsero le orecchie facendomi di nuovo un gran male. Ma non placarono la mia rabbia. Mia madre continuava a ripetermi di stare zitta e mi augurò di perdere la voce, mi urlò che io ero una femmina e mio fratello un maschio e infine pianse chiedendo pietà a Dio e maledicendo me, augurandomi di bruciare all'inferno... Giacevo distrutta in un angolo della stanza: mi sentivo male nel corpo e nello spirito, avevo perso tutte le mie speranze, e lacrime calde continuavano a sgorgarmi dagli occhi.
Ali e Ahmad stavano confabulando in giardino, quando la voce rotta dal pianto di mia madre interruppe i loro discorsi. Non voleva più sentirli, non capiva come facesse Ali ad avere tutte quelle informazioni su di me, era stanca e rabbiosa... Poi sentii lo Ya Allah di Agha Jun: non aveva mai abbandonato l'abitudine, anche se in casa non c'erano altre donne oltre a noi della famiglia, di annunciare la sua presenza ogni volta che rientrava.
«Salam, Agha Mustafà! Già di ritorno? Come mai sei a casa così presto?» lo salutò mia madre.
«Con questo freddo nessuno esce per fare la spesa e così ho pensato che potevo chiudere il negozio e tornare prima... perché? Ma cos'hai? Sembri in imbarazzo, mi stai nascondendo qualcosa? Ah, bene, anche Ahmad è già tornato, e di Mahmud hai notizie? Le strade sono inagibili a piedi, sarà costretto a tornare in taxi e sicuramente farà fatica a trovarne uno libero con questo tempo... sembra che la neve e il gelo non vogliano lasciarci in pace e che l'inverno abbia deciso di non andarsene più... certo che è strano vedere Ahmad a casa a quest'ora: forse oggi la taverna ha chiuso presto, eh Khanum?» Mio padre parlava di rado con Ahmad e infatti sembrava che stesse rivolgendo il suo commento alla porta, nella direzione opposta a quella dove si trovava il figlio.
«Direi proprio di no, Agha Jun! Ma finché non avrò capito bene quello che DEVO, non me ne andrò da nessuna parte!»
Mio padre poggiò una mano sullo stipite della porta e si sfilò le scarpe. La luce fioca della lampada illuminava parte della stanza, ma io mi ero accasciata di fianco al korsi e quindi non poteva vedermi.
Con sarcasmo ribatté a mio fratello che pensava di essere lui ad avere dei conti in sospeso con Ahmad e non viceversa. Ahmad rispose prontamente che non si trattava di lui, ma di me, quella puttanella di sua figlia...
Agha Jun diventò bianco come un lenzuolo. Non si capacitava di ciò che Ahmad stava insinuando: dopotutto il mio onore era anche il suo.
Mio fratello non ebbe pietà. «Non capite? Quella disgraziata non ci ha lasciato nemmeno un briciolo di onore. Aprite gli occhi, Agha Jun, e lasciate in pace me! Se ne sono accorti tutti tranne voi che avete tenuto la testa sotto la sabbia finora...»
Il papà tremava visibilmente. La vena che aveva sulla fronte si era gonfiata così tanto che anch'io riuscivo a vederla. La mamma era terrorizzata: implorava mio fratello e cercava di tranquillizzare mio padre dicendogli che non era successo nulla di grave, che mi avevano solo dato una medicina perché mi faceva male la caviglia... Intanto Agha Jun si era come risvegliato da un brutto sogno e le intimava di tacere e ripeteva che voleva parlare con me, voleva sapere cosa avevo da dire... Mi cercò con lo sguardo e mi intravide accanto al korsi, poi accese la luce per vedermi meglio. Sembrava spaventato. «Che cosa ti hanno fatto?» Si avvicinò e mi aiutò a sedermi, poi tirò fuori il fazzoletto e mi pulì la bocca dal sangue. La tela profumava di acqua di rose, dolce e fresca.
«Chi ti ha conciato così?» Le lacrime ripresero a scorrermi sulle guance.
«Disgraziato! Vigliacco senza vergogna! Alzi le mani anche sulle donne adesso?»
«Ma bene, ora sono io quello dalla parte del torto! Ma chi se ne frega! Io non ho più una sorella... che si faccia toccare e insozzare da chi vuole, tanto il danno è fatto e ormai siamo disonorati...»
Solo allora mi accorsi che era tornato anche Mahmud, il quale ci fissava incuriosito dalla soglia. Khanum Jun intervenne e mentre si annodava il chador cercò disperatamente di porre fine alla scena, di spostare l'attenzione sulla cena, chiamando Fati, che aveva assistito in silenzio per tutto il tempo. Mia sorella uscì dall'ombra e corse terrorizzata verso la cucina a prendere i piatti dalla mamma per metterli sul korsi.
Mio padre, che aveva appena smesso di esaminare il taglio sotto il mio labbro inferiore, i miei occhi scuri e tumefatti e il mio naso sanguinante, chiese ancora una volta: «Chi è stato a farti questo? Ahmad? Che gli si rompa il braccio che ti ha colpito! Vile, maledetto! Non sono ancora morto perché possa comportarsi così con mia figlia e mia moglie!». Ma Ahmad non si diede per vinto e ripeté che io non avevo lasciato neanche un briciolo di onore alla mia famiglia, che Ali glielo avrebbe confermato, gli avrebbe detto che mi aveva visto fare la sgualdrina con l'apprendista della farmacia...
Gli giurai sulla tomba della nonna che stava mentendo, che Parvaneh mi aveva trascinata in farmacia perché non riuscivo più a camminare, che fuori c'era anche Ali e lei l'aveva ripetutamente chiamato per farsi aiutare a riportarmi a casa, ma lui non era nemmeno entrato a vedere come stavo ed era scappato, e poi a casa tutti loro mi si erano scagliati contro... poi ricominciai a singhiozzare.
Mia madre stava disponendo i piatti portati da Fati sul soffreh, la tovaglia da stendere a terra. Mahmud, che fino a quel momento si era guardato intorno spaesato, era appoggiato al muro di fronte a me e studiava il mio dolore con una strana calma.
Mio padre cercava di difendermi da Ahmad che mi si stava scagliando addosso ancora una volta. «Non ti azzardare a toccarla! Le tue parole non si addicono a Masumeh. La sua preside ha detto che non c'è ragazza più educata e pura di lei in tutta la scuola.»
«Ah davvero? Allora la scuola non è altro che un bordello!»
Ali, appena rientrato, diede man forte ad Ahmad e, cercando di sovrastare le altre voci, gridò che aveva ragione, che era tutto vero, che mi aveva visto mentre mi facevo accarezzare il piede in farmacia e che tutti i giorni io e Parvaneh passavamo di lì andando a scuola e rispondevamo ai saluti del giovane con sorrisi ammiccanti. Io però continuai a difendermi da tutte le accuse.
Intanto mia madre si schiaffeggiava il petto e piagnucolava. «Che le fiamme dell'inferno s'impossessino di Parvaneh! Altro che farfalla, Parvaneh è un gufo del malaugurio. È tutta colpa sua!»
Ma Ali non aveva ancora finito di fare la spia. «C'è dell'altro: qualche giorno fa, appena sono entrato nella stanza dove studiavano, hanno nascosto dei fogli sotto i piedi. Credono di avere a che fare con un bambino!»
Sentii il cuore in gola. Se avessero trovato la mia cartella, sarei stata perduta: avrebbero scoperto le lettere e per me non ci sarebbe stata via di scampo. La cercai con lo sguardo facendo attenzione a non farmi notare. Era caduta dietro di me. Con cautela la spinsi sotto il lenzuolo del korsi, ma la voce fredda di Mahmud spezzò il silenzio calato fra noi: «Di qualsiasi cosa si tratti è sicuramente nella sua cartella, l'ha appena nascosta sotto il korsi».
Mi sentii raggelare il sangue nelle vene e mi si seccò la lingua; non riuscivo più a parlare ed ero in preda al terrore. Con uno scatto Ali prese la cartella e ne rovesciò l'intero contenuto. Non potevo fare nulla, mi girava la testa ed ero completamente paralizzata. Le lettere caddero a terra dai libri che Ali scuoteva con violenza. Ahmad le afferrò tutte con un solo gesto e ne aprì subito una. Aveva sulla faccia l'espressione soddisfatta di chi ha ricevuto il premio più ambito al mondo. Lesse con voce scossa dall'emozione della vittoria, poi il suo tono si fece canzonatorio. «Ecco, signor padre, ascoltate e godete: "Gentile signorina... il mio cuore è uno specchio coperto da un velo di tristezza, che voi sola potrete soffiare via con un semplice sorriso...". Glielo faccio vedere io un sorriso che non si scorderà più! Educata e pura come il suo stesso nome, è così che avete detto, Agha Jun?»
Io mi contorcevo dall'imbarazzo e dalla rabbia e vedevo tutta la stanza girarmi intorno. La mamma si disperava: «Che io possa morire!».
Ma il tormento non era ancora finito: Ali aveva trovato anche la mia risposta. Ahmad gli strappò la lettera dalle mani. «Ma bene! La signorina gli rispondeva pure...»
Mahmud, che era stato zitto fino a quel momento, ma si era fatto sempre più paonazzo, all'improvviso esplose: «Non ve l'avevo forse detto? Non l'avevo previsto? Una ragazza che ogni giorno si fa bella davanti allo specchio, che va in giro per strada senza hijab insieme alle amiche, che frequenta una scuola poco seria di Teheran insieme ad altre ragazze già perdute, come fa a rimanere sana? Ho insistito che bisognava darla in sposa subito, ma sempre mi è stato risposto di no, che la signorina doveva andare a scuola... sì, a scuola per imparare a scrivere lettere d'amore!».
Era inutile cercare di difendersi: ero disarmata e con le spalle al muro. Guardai mio padre con timore e vergogna. Era diventato così pallido e le sue labbra tremavano così tanto che mi spaventai. Cucì il suo sguardo scuro e intenso al mio. Al contrario di quello che mi aspettavo, non vi lessi rabbia e rancore, ma amarezza, delusione e profonda tristezza che nuotavano nelle lacrime trattenute. Tremava. Sussurrando appena mi disse: «È così che mi ringrazi? È questo ciò che mi merito? Hai mantenuto proprio bene la tua promessa... per non parlare del mio onore».
Quello sguardo e quelle parole erano molto più pesanti e dolorosi di tutte le botte che avevo preso, e mi trafissero il cuore come un pugnale.
Piangevo disperata senza ritegno e gli giuravo con voce rauca di non aver fatto niente di male... ma era troppo tardi. Mi voltò le spalle e uscì nel freddo senza cappotto. Avevo perso la sua fiducia e il suo appoggio.
Ahmad stava ancora cercando di decifrare il contenuto delle lettere: sapevo che faceva fatica a leggerle e a comprenderne il significato perché era ignorante, ma cercava invano di mascherare la sua incapacità e la sua rabbia. Con un sorriso mellifluo e compiaciuto si girò verso Mahmud e chiese: «E adesso cosa facciamo? Come sbrogliamo questa faccenda? Quel bastardo pensa che siamo della sua stessa specie, ma voglio dargli una lezione che non si scorderà più e non avrò pace finché non avrò versato il suo sangue! Corri Ali, vai a prendermi il coltello. Il suo sangue è halal,8 non è vero Mahmud? Ha disonorato una donna della nostra famiglia e qui ci sono le prove scritte di suo pugno...».
Non potevo tacere. Gridai di lasciarlo stare, di non fargli del male, era innocente, non aveva fatto nulla. Ma la mia difesa eccitò ancora di più Ahmad che questa volta si rivolse alla mamma: «Vedete? Vedete come difende il suo amante? Adesso che ci penso, anche il suo sangue è halal... o sbaglio?». Khanum Jun aveva le lacrime agli occhi e si colpiva la testa disperata, augurandomi di morire e bruciare all'inferno per quello che avevo fatto...
Ali scese con il coltello in mano. Ahmad lo impugnò, ne fece scattare la lama che riverberò la luce della stanza e lo puntò verso di me sogghignando. «Quale pezzo del tuo amante vuoi che ti porti?» Mi gettai ai suoi piedi, mi avvinghiai alle sue caviglie e lo supplicai di non fargli del male, mentre lui si trascinava verso la porta. Lo pregai su Dio e sul Corano, ammisi di avere sbagliato e lui ascoltò le mie parole con un compiacimento impietoso. Arrivato alla porta, scosse la gamba con forza e si liberò dalla mia presa mentre Ali, che lo seguiva come un'ombra, mi fece rotolare dalle scale dell'ingresso in mezzo al cortile con un calcio. Dovevo avere le costole rotte e non riuscivo a respirare, ma il vero dolore mi veniva dal cuore. Avevo paura di ciò che avrebbero fatto a Saeid, piangevo disperata, non avevo più voce. Seduta sulla neve gelida accanto all'hoz, tremavo dalla testa ai piedi, ma non sentivo il freddo.
Khanum Jun chiamò Mahmud affinché mi riportasse dentro: non per me, ma per preservare quel briciolo di onore che ci era rimasto. Ma Mahmud non voleva nemmeno toccarmi, gli facevo schifo, ormai ero veramente diventata nages9 ai suoi occhi. Finalmente, con rabbia, mi prese per un lembo del vestito come fossi un'estranea, mi trascinò su per i gradini e mi spinse in mezzo alla stanza, facendomi sbattere contro l'angolo della porta: sentii il sangue caldo colarmi dalla testa sul viso. Khanum Jun gli disse di andare a cercare Ahmad per evitare disgrazie, ma lui rispose che il mio amante era un fetente che si meritava una lezione, e anch'io avrei meritato di crepare... Poi uscì sbattendo la porta e la casa, dopo tanto fragore, piombò nel silenzio.
Mia madre borbottava fra sé e piangeva, lo non riuscivo a smettere di singhiozzare. Fati se ne stava in piedi in un angolo, bianca come un lenzuolo e teneva lo sguardo fisso su di me, mordicchiandosi le unghie. Sentivo uno strano vuoto nella testa... non percepivo più il fluire del tempo. Tornai alla realtà quando la porta si spalancò sbattendo forte contro il muro. Era Ahmad, la bocca distorta in un ghigno feroce, gli occhi arrossati e il coltello grondante di sangue, «sangue del mio amante», che mi fece oscillare davanti agli occhi. Sentii la stanza girarmi intorno, la faccia di Ahmad si velò e un sipario nero mi calò sugli occhi. Stavo precipitando in un pozzo profondo, sempre più giù, le voci intorno ridotte a sospiri e sussurri, senza nulla cui aggrapparmi. Sprofondavo nel vuoto e nel silenzio, lentamente e inesorabilmente.

6.

Zari stava morendo: il suo viso aveva assunto un colorito innaturale, respirava a fatica e ansimava. Il petto e la pancia si alzavano e abbassavano troppo velocemente. Io la guardavo da dietro i rakhte khab10 e mi mordevo le unghie. Le voci provenienti dal cortile alimentavano il mio terrore.
«Agha Mustafà, per amor di Dio, sta veramente male. Vai a chiamare un dottore!»
«Basta, non farla tanto lunga, Khanum Jun! Hai spezzato il cuore di mio figlio... Vedrai che non le succederà niente! La tisana è quasi pronta, adesso gliela do così starà bene per il tuo ritorno. Tu vai pure al lavoro tranquillo... le tue donne non muoiono.»
Zari mi stringeva la mano. Correvamo lungo un tunnel buio e nero. Ahmad ci rincorreva con il suo coltello e a ogni passo si avvicinava di qualche metro, come se volasse. Noi due urlavamo ma la risata e le parole di Ahmad echeggiavano più forti nel tunnel: «Khun, sangue, sangue, guarda, sangue!».
Era Naneh Jun che voleva far ingoiare a forza la tisana a Zari. Mia madre le schiacciava le guance sui due lati tenendole la testa. Zari era debole, insensibile, non opponeva resistenza, non mostrava più alcuna reazione. La nonna le versò la tisana in bocca, ma non riusciva a fargliela ingoiare. La mamma le soffiò sul viso. A Zari si bloccò il respiro, scosse i piedi e le braccia in modo incontrollato emettendo strani suoni gutturali. Khanum Jun in lacrime disse: «Ozrah Khanum ha detto che dobbiamo portarla dal dottore...».
«Che si faccia gli affari suoi quella! Avanti, alzati, che tra poco torneranno tuo marito e i tuoi ragazzi. Vai a preparargli la cena...»
Naneh Jun continuò a recitare preghiere al capezzale di Zari, finché il colorito di mia sorella divenne violaceo e dalla gola le uscirono orribili gorgoglii. Solo allora la nonna corse in cortile e gridò: «Tayebeh! Tayebeh! Khanum Jun, vai a chiamare il dottore, presto!».
Io presi la mano di Zari e le accarezzai i capelli: la sua pelle diventava sempre più scura, quasi nera. Aprì gli occhi gonfi e iniettati di sangue, mi sembrò che le uscissero dalle orbite e mi spaventai. Mi strinse la mano, si staccò dal cuscino, poi la testa le scivolò verso terra... allora sfilai con forza le dita dalla sua stretta e scappai a nascondermi dietro i rakhte khab. Le sue braccia e le sue gambe si muovevano convulsamente. Mi tappai le orecchie e affondai la testa in un cuscino. La voce di Naneh Jun mi rimbombava nella mente: «Le tue donne non muoiono... non muoiono...».
Adesso Zari dormiva, le accarezzai i capelli scostandoglieli dal viso e mi accorsi che si trattava di Saeid. La sua testa rotolò dal cuscino finendo a terra. Provai a urlare, ma dalla gola non mi uscì alcun suono.

I miei incubi non volevano saperne di finire. Ogni tanto mi svegliavo in un bagno di sudore al suono delle mie stesse urla e subito sprofondavo di nuovo in un pozzo di dolore.
Non mi ricordo per quanto tempo rimasi in quello stato. Mi svegliai per via di un bruciore al piede: era mattino e un odore di alcol pervadeva la stanza. Qualcuno mi girò su un fianco ed esclamò: «Si è svegliata! Venite, Khanum, si è svegliata, mi sta guardando!».
Le facce mi apparivano ancora sfocate, ma riuscivo a distinguere chiaramente le voci.
«Ha ripreso i sensi, preparatele una minestra leggera e fategliela mandar giù a qualsiasi costo, ma con cautela, mi raccomando, è una settimana che non mangia e il suo stomaco è molto più delicato.» Chiusi gli occhi, non volevo vedere nessuno. «Da ieri le si è abbassata la febbre e sapevo che si sarebbe svegliata... Povera ragazza cosa deve aver passato! E tutto quel delirare... ma perché?»
«Oh, Parvin Khanum, che cosa sono costretta a passare! In questi giorni sono morta e resuscitata almeno cento volte insieme a questa figlia! Da una parte lei - sangue del mio sangue - quasi moribonda e dall'altra i miei figli che non si stancano di criticarmi e di ripetermi che ho tirato su una sgualdrina...»
Non sentivo alcun dolore, ma ero debole ed esausta e non riuscivo a muovere un solo muscolo nel rakhte khab. Tirare fuori il braccio da sotto le coperte era come sollevare una montagna. Ero pervasa da uno strano senso di impotenza, ma non desideravo vincerla... speravo di diventare sempre più debole fino a morirne. Perché mi ero svegliata? Per quel mondo non valevo niente, e non c'era più nulla d'importante che mi legasse alla vita.
Quando rinvenni la seconda volta, mia madre appoggiò la mia testa sulle sue ginocchia per farmi bere il brodo. Io opponevo resistenza alle dita che cercavano di aprirmi la bocca e scuotevo la testa. «Almeno un cucchiaino! Sei troppo debole, manda giù, ti prego! Elahy, che tutte le tue disgrazie ricadano sulla mia testa!» Era la prima volta che la sentivo pronunciare quelle parole, che le udivo dire che si sarebbe sacrificata per me... era sempre impegnata con i miei fratelli più piccoli oppure si preoccupava di quelli più grandi ai quali teneva più che alla sua stessa vita e io non ero niente lì nel mezzo, ma soprattutto non ero un maschio. Se Zari non fosse morta, sicuramente avrei finito per essere dimenticata come Fati, che di solito si nasconde in un angolo e nessuno le presta attenzione, come fosse un'ombra. Non dimenticherò mai il giorno in cui nacque: appena dissero a Naneh Jun che era una femmina, lei pianse, ma non di gioia. E per di più ora ritengono che sia una sar-khor - una mangiatrice di teste - perché dopo di lei ci furono due aborti di figli maschi... mi sono sempre chiesta come Khanum Jun potesse conoscere il sesso delle due creature!
Il brodo si rovesciò e mia madre se ne andò dalla stanza brontolando stizzita. Aprii gli occhi di nuovo: era pomeriggio e Fati mi scostava i capelli dal viso con le sue manine, seduta accanto a me. Mi sembrò sola e innocente e vidi me stessa al capezzale di Zari, sentii ancora il calore delle lacrime sulle guance. Fati sussurrò: «Lo sapevo che ti saresti svegliata... non morire, ti prego!». Nostra madre stava rientrando nella stanza. Richiusi gli occhi.
Era sera, sentivo le voci di tutti. Khanum Jun raccontava che avevo riaperto gli occhi ma non avevo voluto bere il brodo e lei non capiva da dove mi venisse tutta quell'energia per opporre resistenza, visto che ero rimasta tanto tempo immobile nel letto. E Parvin Khanum aveva sentenziato che non potevo andare avanti solo a medicine, dovevo mangiare per sopravvivere... Poi sentii la voce di Agha Jun. «L'ho sempre saputo: le ragazze non portano bene alla nostra famiglia. Aveva ragione mia madre... e se anche guarisse, sarebbe comunque come morta visto quello che ha fatto al nostro onore.»
Chiusi la mente all'ascolto. Ci riuscivo senza difficoltà: sentivo e vedevo quando volevo farlo, ma potevo piombare nel silenzio e nel buio quando lo decidevo, come una radio che si accende e si spegne con un semplice gesto. Gli incubi invece non dipendevano da me: immagini crude continuavano la loro macabra danza dietro le mie palpebre chiuse senza che potessi controllarle.
Ahmad correva verso di me impugnando il coltello insanguinato e tirando per i capelli Zari, piccola come una bambola. In piedi sul ciglio di un burrone cercai di afferrare mia sorella, ma mi scivolò dalle mani e precipitò. Guardai in basso: Zari e Saeid erano lì sotto in un lago di sangue. Mi svegliai al suono del mio stesso grido, la testa sul cuscino madido di sudore e la bocca arida. La mamma venne al mio capezzale a chiedermi cos'avevo, perché non potevo smettere di delirare e lasciarla finalmente dormire. Poi mi versò in bocca un po' d'acqua e io ne assaporai ogni singola goccia.
Fui svegliata dai rumori della famiglia a colazione. Mia madre stava raccontando che avevo di nuovo delirato. Mahmud non aveva udito niente. Ahmad non voleva più sentir parlare di me. «Ma quando ti deciderai a lasciarla perdere? Facci mandar giù un dannato boccone in santa pace una volta tanto!» La voce di Ahmad era come un pugnale nel petto: magari avessi avuto la forza di alzarmi e di farlo a pezzi... Non li sopportavo più, mi facevano schifo. Sprofondai la testa nel cuscino e desiderai morire in fretta per liberarmi di tutti loro, del loro egoismo e dei loro cuori di pietra.
Il bruciore dell'iniezione mi fece aprire gli occhi.
«Oh, finalmente ti sei svegliata! Ora cerca di restare sveglia per un po'. Ho sentito che non hai ancora toccato cibo... Vuoi che ti porti uno specchio, così ti guardi e vedi che scheletro sei diventata? Coraggio, su, sono andata in pasticceria e ti ho comprato dei biscotti, sono buonissimi con il tè.»
Guardai Parvin Khanum con uno sguardo vuoto.
Mia madre entrò con la tazza di tè. «Sia lode a Dio, vuole bere!» e così dicendo mi cinse le spalle con un braccio, mi mise a sedere e mi avvicinò la tazza alla bocca. Ma io girai la testa di scatto dall'altra parte e serrai le labbra: era come se avessi la forza per fare soltanto quello.
«Non preoccupatevi, ci penso io: rimarrò qui finché non avrà almeno bevuto qualcosa. Voi pensate alle vostre faccende e state tranquilla, ci penso io.» La vicina insisteva e Khanum Jun uscì dalla stanza brontolando.
«Dài, non farmi fare brutta figura, per favore... bevine almeno un po'. Ma non è un peccato che la tua pelle liscia e morbida come un petalo di rosa stia ingiallendo e appassendo? E sei anche diventata così magra che peserai come Fati! Sei giovane e bella e hai la vita davanti a te, ma se non mangi morirai presto.»
Non so cosa colse nel mio sguardo spento o nell'abbozzo di un sorriso sarcastico sulle mie labbra perché ammutolì di colpo e mi fissò come se avesse avuto un'illuminazione improvvisa. «Ma allora è questo che vuoi: morire! Come sono stata stupida a non capirlo subito... Ma perché? Sei innamorata, se non sbaglio... Forse un giorno potrai stare con lui, solo Dio può saperlo. Ma perché scegliere di morire? Saeid soffrirebbe molto se lo sapesse.» Sentendo pronunciare quel nome mi mossi senza accorgermene e spalancai gli occhi. Parvin Khanum mi guardò, mi chiese se pensavo che lui non mi amasse, mi disse che anche quell'incertezza era il bello dell'amore... Poi cercò di farmi bere il tè. Ma io le afferrai il polso con la poca forza rimastami e mi chinai in avanti.
«Ditemi la verità: Saeid è vivo?»
«Certo che è vivo. Perché non dovrebbe?»
«Ahmad l'ha accoltellato...»
«Sì, lo sapevo, ma non è stato niente di grave. Ora capisco: i tuoi incubi e il tuo delirio sono cominciati quando hai visto il coltello insanguinato. La mia stanza è proprio dietro questo muro e ti sentivo tutte le notti gridare "No! No!" e chiamare Saeid per nome mentre tua madre ti tappava la bocca perché nessuno ti sentisse. E così pensavi che Ahmad avesse ucciso Saeid? No, non credo che tuo fratello ne sarebbe capace... e poi non si può uccidere una persona e tornarsene tranquillamente a casa o girare indisturbati per la città... Diamine, questo paese ha delle leggi! Gli ha fatto solo un graffio al braccio e al viso, poi gli altri negozianti e il dottore li hanno separati. Saeid non è nemmeno andato alla polizia a denunciarlo e sta benissimo, te lo assicuro. L'ho visto io stessa il giorno seguente davanti alla farmacia.»
Era come se dopo una settimana fossi tornata a respirare, a vivere. Chiusi gli occhi e lodai Dio dal più profondo del cuore, poi lasciai sprofondare la testa fra i cuscini e cominciai a piangere forte.

7.

Quando arrivò Noruz, il Capodanno iraniano, mi ero ormai ripresa quasi completamente e anche il piede era guarito, ma ero ancora molto magra. Non avevo alcuna notizia dalla scuola e non potevo parlarne con nessuno. Di mattina andavo a zonzo per la casa, ma non avevo il permesso di uscire nemmeno per fare la doccia. Khanum Jun scaldava l'acqua e mi faceva lavare in casa, dove ero costantemente immersa in un'atmosfera di freddezza e risentimento. Del resto ero così triste e assorta nei miei pensieri che non facevo caso a ciò che mi succedeva intorno. Mia madre cercava di non menzionare in alcun modo quanto era successo, ma a volte non resisteva e se ne usciva con delle frasi che mi bruciavano il cuore. Agha Jun non mi guardava nemmeno, come se non fossi mai esistita, e rivolgeva di rado la parola anche agli altri. Se ne stava sempre muto e imbronciato e mi sembrava più vecchio che mai. I miei fratelli Ahmad e Mahmud cercavano in tutti i modi di non incontrarmi. Di mattina facevano colazione in fretta e furia e uscivano di casa e la sera Ahmad tornava sempre più sfatto e ubriaco e andava direttamente a dormire, mentre Mahmud finiva di mangiare velocemente prima di recarsi alla moschea oppure pregava fino a mezzanotte. Mi sentivo sollevata a non vederli. Soltanto Ali continuava a darmi fastidio e spesso mi diceva cose bruttissime. Io non ci facevo più caso, ma la mamma lo sgridava. L'unica persona cui volere bene, oltre che l'unica mia consolazione, era Fati: quando tornava da scuola veniva a darmi un bacio e mi guardava come se provasse per me una strana pena. Qualsiasi cosa mangiasse la portava anche a me e a volte mi comprava della cioccolata con i soldini messi da parte. La spaventava ancora l'idea che io morissi.
Sapevo benissimo che il ritorno a scuola sarebbe rimasto un sogno irrealizzabile, ma continuavo a sperare che dopo Capodanno mi avrebbero lasciato frequentare almeno i corsi di taglio e cucito. Li odiavo, ma erano l'unica possibilità di uscire da quelle tristi mura. Mi mancava da morire Parvaneh, non sapevo se fosse più forte il desiderio di rivedere lei o Saeid... Era strano, ma nonostante tutte le dicerie sporche e infondate sul rapporto tra me e Saeid e la rovina dell'onore, non ero pentita di quanto era successo né tantomeno mi sentivo in colpa. La verità era che provavo nel profondo il più pulito e innocente dei sentimenti e nel mio cuore c'era posto solo per quello.
A poco a poco la vicina Parvin mi raccontò tutti gli altri risvolti di quella vicenda e di come la rispettabilissima famiglia di Parvaneh era stata coinvolta. La sera in cui avevo perso i sensi, Ahmad era andato sotto casa loro completamente ubriaco e aveva cominciato a urlare al padre insulti rivolti alla figlia, accusata fra l'altro di aver condotto a essere una sgualdrina anche me. Il pensiero di quelle volgarità e di quella orribile scenata mi faceva vergognare a tal punto che non avrei più osato guardare in faccia la mia amica e la sua famiglia così ingiustamente insultate.
Non sapere niente di Saeid mi stava facendo impazzire e decisi di chiedere a Parvin Khanum di portarmi sue notizie: era perfetta per quel tipo di missioni e le adorava, anche se nutriva per mio fratello Ahmad un sentimento di rispetto misto a paura. Non avrei mai immaginato che un giorno lei sarebbe diventata la mia migliore confidente, e la cosa non mi andava del tutto a genio... ma cosa potevo farci? In quel periodo lei rappresentava l'unico mezzo di contatto con il mondo esterno, e stranamente nessuno aveva da ridire sui miei rapporti con lei.
Il giorno dopo la mia richiesta, Parvin Khanum tornò a trovarmi. Mia madre era impegnata in cucina. Preoccupata ed emozionata, le chiesi se fosse riuscita ad avere notizie. Sì, era andata alla farmacia e aveva parlato con il dottore... Saeid era tornato nella sua città natale, non poteva restare lì: lo avevano disonorato e non si sentiva più al sicuro - avrebbero potuto accoltellarlo di nuovo e forse ucciderlo - e non avrebbe mai conquistato la ragazza con quei fratelli pazzi... così aveva lasciato l'università ed era tornato a Rezaieh.
Le lacrime mi scorrevano calde e inarrestabili sul viso.
«Basta piangere! Devi rassegnarti, almeno per il momento. E poi ti ricordo che pensavi fosse morto... Quindi ringrazia il cielo che è ancora vivo e abbi un po' di pazienza, lascia che le acque si calmino e forse Saeid farà qualcosa. Ma devi anche essere pronta a dimenticarlo: non credo che ti daranno mai in sposa a lui - Ahmad non lo accetterebbe - a meno che tu non riesca a convincere il tuo Agha Jun...»
L'unico aspetto positivo di quell'Eid11 fu che mi portarono fuori ben due volte: una per andare all'hammam - ma era così presto che in giro non vidi anima viva - e l'altra per andare a trovare lo zio Abbass e la sua famiglia per l'Eid didani, il giro di auguri a parenti e amici. Dopo tutte quelle settimane passate rinchiusa in casa, rivedere le strade mi diede un piacere strano. Faceva ancora freddo, la primavera era in ritardo, ma l'odore dell'anno nuovo si diffondeva lo stesso per le strade e l'aria fuori di casa sembrava assai più luminosa, pulita e facile da respirare. La moglie di mio zio non era in buoni rapporti con Khanum Jun, e le sue figlie non avevano mai fatto amicizia con noi. Soraya, la maggiore, mi disse: «Finalmente ti sei alzata, Masum», e la zia: «Ma sei molto dimagrita, mi fai spaventare: sei sicura di stare bene?».
«Ma mamma, cosa dite! È per via della scuola... papà ci ha raccontato che studi molto e che sei la prima della classe!» esclamò Soraya.
Abbassai la testa, non sapevo cosa rispondere. Khanum Jun mi venne in aiuto e spiegò che mi ero rotta un piede ed ero rimasta a letto per molto tempo: per quello ero così dimagrita. La zia rispose che lo avevano saputo e che volevano venirmi a trovare, ma mio padre aveva detto che stavo troppo male... Allora la mamma spostò il discorso su mia cugina. «Ho saputo che Soraya Khanum ha già preso il diploma... perché non la date in sposa a qualcuno?»
«Ma che dici... deve ancora andare all'università, è troppo presto.»
«Presto? Non direi. Ma forse non si è fatto ancora vivo nessuno...»
«Troppi, al contrario! Qui pare che anche i cani possano far da marito, ma una ragazza come Soraya non apprezza chiunque... nella nostra famiglia siamo tutti laureati, sia gli uomini sia le donne, non come in certe famiglie ottuse dei paesini. Anche Soraya vuole studiare come le sue cugine e diventare medico.»
Le nostre visite ai parenti sfociavano sempre in liti, rabbia e incomprensioni: la mamma era così permalosa e maligna che allontanava tutti da sé. Non a caso la zia diceva che aveva la «lingua piena di spine»... Quanto a me, mi sarebbe piaciuto molto creare un rapporto più stretto e amichevole con loro, ma quell'astio, del quale non sapevo nemmeno dove affondassero le radici, lo rendeva impossibile.
Passarono anche le feste di Noruz e io ero sempre chiusa in casa. Nemmeno la proposta sussurrata a mia madre di tornare al corso di taglio e cucito aveva funzionato. Ahmad e Mahmud non volevano assolutamente che uscissi di casa. Mio padre non s'intrometteva più, si era definitivamente disinteressato al mio destino: per lui ero morta. Mi annoiavo tremendamente e quando finivo le faccende di casa andavo in salotto e guardavo dalla finestra lo spicchio di strada che si riusciva a intravedere. Quella finestra rappresentava il mio unico, segreto rapporto con il mondo esterno: se i miei fratelli lo avessero scoperto forse l'avrebbero murata... Non so cosa avrei dato per poter almeno scorgere il viso di Parvaneh o di Saeid dal mio nascondiglio. Ma ormai avevo capito che la sola via d'uscita da quella casa sarebbe stato un marito: quella era l'unica soluzione plausibile a tutti i problemi, soprattutto al problema che rappresentavo per la mia famiglia.
Ero disgustata da quella casa ma non volevo finire in un'altra prigione per liberarmi da quella in cui già stavo, e non volevo tradire Saeid... Lo avrei aspettato per il resto dei miei giorni, anche a costo di essere torturata.

8.

Il primo gruppo di pretendenti era formato da tre donne e un uomo. Khanum Jun si era impegnata con estrema cura nella sistemazione di mobili e soprammobili, Mahmud aveva comprato due poltrone rosse per il salotto e Ahmad aveva pensato ai dolci e alla frutta. Non li avevo mai visti collaborare così... era chiaro che non volevano perdere per alcun motivo quei khastegar. Il pretendente era un grassone sui trent'anni, collega di Mahmud, che aveva già perso tutti i capelli davanti e rumoreggiava fastidiosamente con la bocca mentre mangiava. Per mia fortuna erano in cerca di una moglie grassottella e quindi mi scartarono... quella notte andai a letto felice e dormii tranquilla. Il mattino dopo Khanum Jun raccontò del khastegari a Parvin Khanum, aggiungendo e cambiando particolari: il suo dispiacere per quel fallimento mi sembrò davvero buffo.
«Un vero peccato... questa povera ragazza non ha proprio fortuna! Era un buon partito, ricco e di buona famiglia, e poi non si era mai sposato prima ed era anche giovane... Però, detto fra noi, avevano ragione: Masumeh è diventata troppo magra! La madre del ragazzo mi ha chiesto se era malata... e chissà cosa avrà combinato quella disgraziata per apparire ancora più sciupata!»
Io sorridevo dentro di me: per quella volta l'avevo scampata con il giovane pretendente che aveva il doppio della mia età, la testa pelata e un'enorme pancia!
Parvin Khanum la pensava come me.
«Khanum Jun, parlate di quell'uomo come di un ragazzo di vent'anni... meno male che non ha accettato! Ma non vi sarebbe dispiaciuto dare Masumeh a un nano pelato dalla pancia grossa?»
«E cosa dovrei fare Parvin Khanum? Avevamo molti progetti e desideri per questa ragazza... Agha diceva sempre che Masum sarebbe dovuta diventare la moglie di un uomo come si deve, ma dopo quello che è successo, chi la vorrà più? O si adatta a essere una seconda moglie oppure dovrà sposare uno così, qualunque... insomma, non possiamo sperare altro, capite?»
«Ma cosa dite Khanum Jun? Lasciate calmare le acque, la gente dimentica...»
«Dimentica? La gente indaga, la madre e la sorella di un bravo ragazzo non lo lasceranno prendere in moglie la mia povera e sciagurata figlia, di cui tutti nel quartiere conoscono le prodezze.»
«Vi dico che dovete avere pazienza... se ne dimenticheranno, e poi perché avete tutta questa fretta?»
«Sono i suoi fratelli che insistono, continuano a dire che finché lei resterà in questa casa non ci saranno né pace né armonia e che non potranno più camminare a testa alta per la strada. E poi anche Mahmud vuole prendere moglie, ma si rifiuta di farlo finché c'è lei in casa perché non si fida e ha paura che gli corrompa anche la sposa.»
«Ma cosa dite... questa ragazza è più innocente di un bambino! Non ha fatto nulla di grave: è normale che una ragazza carina trovi uno spasimante alla sua età. Non si possono bruciare sul rogo tutte le ragazze che piacciono a qualcuno, e comunque non è stata colpa sua.»
«Sì, cara, io conosco bene mia figlia, non dico che segua alla lettera i precetti del digiuno, ma il suo cuore è con Dio. L'altro giorno mi chiedeva di portarla in pellegrinaggio al santuario di Hazrat Abdolazim. Quando vivevamo a Qum andava almeno una volta alla settimana a pregare da santa Masumeh. È stata colpa di quella squilibrata di Parvaneh, altrimenti mia figlia non si sarebbe comportata così...»
«Motivo in più per avere pazienza... quel ragazzo potrebbe tornare e chiederla in sposa, facendo finire tutto nel migliore dei modi, e non è affatto un cattivo ragazzo: ne parlano tutti bene e gli manca poco a diventare medico. E inoltre, cosa più importante, si desiderano a vicenda!»
«Ma cosa dite Parvin Khanum? I suoi fratelli preferirebbero darla al diavolo piuttosto che a lui! E poi non si è mai presentato da noi. Comunque, alla fine, è Dio a decidere. Il destino è scritto sulla fronte di ognuno di noi sin dall'inizio.»
«Allora non fate nulla... lasciate che ci pensi il destino...»
«Ma i suoi fratelli continuano a ripetere che finché non la diamo a un marito e lei resta in casa siamo anche noi portatori della sua vergogna, mentre quando si sposerà non dovremo più rispondere per lei. Per quanto tempo credete che la potranno tenere rinchiusa? Hanno paura che il loro Agha Jun si impietosisca di nuovo e si lasci convincere.»
«È davvero un peccato: non se lo merita ed è così bella... Lasciate che si riprenda del tutto e vedrete in quanti verranno a bussare alla vostra porta!»
«Vi giuro che le preparo tutti i giorni dei pranzi appetitosi sperando che ingrassi un pochino ed esca da questo suo stato, e che la prenda un uomo come si deve, inshallah!»
Mi ricordai delle fiabe della mia infanzia, in particolare di una che raccontava di un div, un mostro che aveva rapito una bambina ma non l'aveva mangiata perché era troppo magra. Così il div l'aveva imprigionata e ogni giorno le dava moltissimo da mangiare affinché ingrassasse il prima possibile e diventasse un piatto succulento per lui. La mia famiglia si stava comportando allo stesso modo con me: voleva farmi ingrassare per darmi in pasto a un marito. Ero in vendita e il khastegari era diventato l'unico argomento serio a casa, anzi, non si parlava d'altro. Mi avevano raccomandata a tutte le famiglie che conoscevano chiedendo di fare altrettanto con quelle che conoscevano a loro volta, mettendo una buona parola per me... Veniva a vedermi ogni genere di persona e alcuni erano messi così male che nemmeno Ahmad e Mahmud li potevano accettare.
Tutte le sere, durante il namaz,12 pregavo affinché Saeid tornasse e si facesse vivo. Supplicavo Parvin di andare almeno una volta alla settimana a chiedere sue notizie, ma non ne arrivarono più. Solo una volta il dottore aveva detto che gli era arrivata una lettera da lui, ma la risposta del farmacista era tornata indietro: l'indirizzo era sbagliato. Saeid era sparito... Spesso usavo il salotto per recitare il namaz e poi passavo il tempo a osservare dalla finestra le ombre che danzavano sulla strada. Qualche volta mi capitava di vedere una figura scura sulla soglia della casa di fronte e mi illudevo che si trattasse di Saeid venuto a cercarmi, ma quando aprivo la finestra la mia dolce illusione si dissolveva nel buio. Però ogni notte scivolavo nel sonno senza fatica, incontro a un sogno che mi faceva dimenticare le giornate tristi e vuote: la vita con Saeid in una piccola casa graziosa, di cui vedevo tutti i particolari. Un paradiso in cui vivevo con lui e i nostri figli - belli e sani - una vita spensierata e felice. Ero innamorata e lui era un marito modello, gentile, allegro, dolce, rispettoso. Non litigavamo mai, non mi sminuiva mai. Esisteva un'altra donna che amasse un uomo come io amavo Saeid? Se solo avessi potuto vivere di notte...
A metà del mese di Khordad, quando erano imminenti ormai l'estate e la fine degli esami, la famiglia di Parvaneh fece i bagagli e se ne andò dal nostro quartiere. Sapevo che volevano cambiare casa, ma non pensavo così presto. Più tardi appresi che se ne sarebbero andati anche prima, ma avevano aspettato la fine della scuola. Era un po' che suo padre si lamentava del quartiere, e aveva ragione: andava bene solo per gente come i miei fratelli.
Era una mattina calda e stavo pulendo la stanza. Non avevo ancora aperto le tende di bambù, quando sentii la voce squillante della mia amica. Mi precipitai alla porta: Parvaneh era venuta a salutarmi. Fati le aprì ma Khanum Jun arrivò prima di me. Teneva la porta aperta per metà e, mentre le restituiva la busta per me che aveva dato a Fati, le disse di andarsene subito perché i miei fratelli stavano per tornare e di non portare più niente per me. Parvaneh era sgomenta. «Nella lettera ci sono solo i miei saluti e l'indirizzo della casa nuova... leggete voi stessa. Non fate soffrire Masumeh: non ha fatto niente di male!» Cercai di aprire la porta, ma mia madre la teneva ben stretta e mi spingeva indietro con il piede, mentre io urlavo il nome della mia unica amica... della mia ultima speranza: le stavo perdendo entrambe. Khanum Jun sbatté forte la porta. Io mi lasciai scivolare a terra e piansi.

L'ultimo khastegar era un amico di Ahmad. A volte mi chiedevo dove andassero a trovare certi energumeni... e poi come? Ahmad diceva a un amico che aveva una bella sorella pronta al matrimonio? Mi faceva pubblicità? Discuteva su di me come un commerciante in una trattativa? Di qualsiasi cosa si trattasse, sapevo che non era accettabile. Infatti il pretendente era il signor Asghar, il macellaio, praticamente identico ad Ahmad per età e comportamento e quasi totalmente analfabeta. «L'uomo mangia grazie ai suoi muscoli, non sono mica come quelli che passano il loro tempo ad annerire carta!» Ahmad diceva che era ricco e poteva «sistemarmi». E Asghar non si preoccupava per la mia eccessiva magrezza: mi avrebbe dato così tanta carne e trippa da farmi diventare «grossa come una damigiana» in meno di un mese. Sua madre, una vecchiaccia brutta e dalla faccia grinzosa, non faceva altro che mangiare e annuire ai discorsi idioti del figlio.
Questo khastegar piaceva proprio a tutti: Khanum Jun era compiaciuta del fatto che non avesse avuto un'altra moglie e che fosse giovane. Ahmad lo apprezzava perché era suo amico e soprattutto perché una volta l'aveva difeso in una rissa evitandogli la prigione. Lo riteneva un grande, un uomo d'onore, e continuava a tesserne le lodi con tutti. Mahmud assicurava che avrebbe saputo tenermi a bada e avrebbe finalmente chiuso la faccenda a beneficio di tutta la famiglia. Agha Jun acconsentì perché possedeva una macelleria e questo significava guadagni buoni e sicuri. Nessuno chiese il mio parere, a nessuno importava che solo il pensiero di vivere con un uomo così rozzo, sporco e ignorante, che perfino il giorno del khastegari puzzava di carne e sangue, mi desse il voltastomaco.
La mattina seguente, però, Parvin Khanum si precipitò a casa nostra: «Ho sentito che volete dare Masum ad Asghar il macellaio. Non potete farlo: è un analfabeta, un accoltellatore, un ubriacone, un puttaniere! Lo conosco bene io... Almeno indagate sul suo conto prima di decidere, se non mi credete!».
«Non sprecate il fiato, Parvin Khanum! Volete saperne più di Ahmad? Ci ha raccontato tutto di Asghar: si sa che gli uomini prima di prendere moglie ne combinano di tutti i colori, ma dopo il matrimonio e i figli lasciano da parte il resto. Ha giurato di non fare passi falsi quando sarà sposato, e poi non si può trovare niente di meglio per Masum. È giovane e ricco, è la sua prima moglie, ha una bella macelleria, è onorato e rispettato. Cos'altro volete?» Dopo aver ascoltato mia madre la vicina mi guardò con pena infinita, come se fossi una condannata a morte. Il giorno seguente venne a dirmi che aveva supplicato Ahmad di non farlo, ma che lui rifiutava di sentire ragioni, non voleva più tenermi in casa. Mi resi conto che era la prima volta che faceva riferimento con me alla sua relazione con mio fratello. Poi mi disse che dovevo fare qualcosa, che non capivo a che disgrazia stavo andando incontro, che non potevo accettare di diventare la moglie di «quel maiale». Restai indifferente. Facessero ciò che volevano, tanto non mi avrebbe mai avuta. «Nessun uomo a parte Saeid potrà toccare il mio corpo, se non il mio cadavere...» Parvin Khanum cercava di consolarmi dicendomi che anche se nessun uomo poteva prendere il posto di Saeid nel mio cuore, non tutti erano cattivi, e prima o poi sarebbe arrivato un khastegar adatto a me, ma le mie parole la preoccupavano e lo disse a mia madre che raddoppiò la sorveglianza sui miei movimenti. Nascosero tutti i medicinali, non mi lasciavano toccare i coltelli e quando andavo al piano di sopra mandavano subito qualcuno a tenermi d'occhio. Mi facevano ridere per la loro ingenuità, pensavano che mi sarei buttata dalla finestra? Avevo piani migliori...
I preparativi per il matrimonio rallentarono per l'assenza della sorella di Asghar che era sposata, viveva a Kermanshah e non poteva venire a Teheran prima di dieci giorni. Asghar Agha era stato molto chiaro su questo: voleva che anche lei mi vedesse per dare la sua approvazione prima di decidere. «È come una madre per me», ci disse.
Erano le undici del mattino e stavo spazzando in cortile, quando qualcuno cominciò a bussare con grande foga. A me era stato proibito anche di aprire la porta, così chiamai Fati. Khanum Jun mi urlò dalla cucina che potevo aprire io per vedere chi si permetteva di bussare così forte. Non avevo ancora aperto del tutto che Parvin Khanum balzò dentro eccitatissima: mi aveva trovato un altro khastegar, «un fiore». La guardai muta e sorpresa. Mia madre uscì dalla cucina per vedere cosa stava succedendo e la donna glielo disse subito. «Ho una bellissima notizia: ho trovato un pretendente perfetto per Masumeh: gran signore, laureato, educato, di buona famiglia, colto. Posso dirgli di venire oggi stesso...» Mia madre era perplessa, ma lei non mollava.
«È un'ottima famiglia, li conosco da dieci anni: ho cucito un sacco di vestiti per la madre e le figlie. La maggiore è già sposata da tempo con un proprietario terriero di Tabriz e vive lì. Mansureh, la secondogenita, frequentava l'università, poi due anni fa si è sposata e ora ha un bel maschietto. La terza, invece, va ancora scuola... Sono per bene e al passo con i tempi. Il padre è in pensione e mi sembra che abbiano una stamperia. Lui poi è un ragazzo d'oro, ha circa trent'anni, ha frequentato l'università e adesso lavora. L'ho visto di sfuggita una volta a casa loro: ha un bel fisico, è alto, con occhi e capelli scuri e la pelle un po' olivastra.»
«Va bene, ma dove l'hanno vista Masum?»
«Non l'hanno vista, gliene ho parlato io! Ho detto che è una bravissima ragazza, bella, fantastica nei lavori domestici. La madre desidera moltissimo che il figlio prenda moglie e mi aveva già chiesto se conoscevo qualche ragazza adatta... Posso dirgli di venire questo stesso pomeriggio.»
«Non possiamo... abbiamo già preso i nostri accordi con Asghar Agha e sua sorella verrà la prossima settimana da Kermanshah... e poi come la mettiamo con Ahmad? Dio solo sa che inferno potrebbe scatenare, e avrebbe anche ragione, ne va del suo onore: ha stretto un patto, fatto promesse, non può sottrarsi adesso.»
«Non è vero, Khanum Jun: non c'è ancora stato il baleh burun,13 e poi c'è gente che manda tutto all'aria persino il giorno del matrimonio. Datemi retta, potete fare marcia indietro senza nessun disonore. E non preoccupatevi per Ahmad: ci penso io...»
«Ma cosa dite? Vergognatevi!»
«Non pensate male, Khanum Jun: Ahmad tiene molto in considerazione quello che gli dice mio marito Haji. Dirò a lui di convincerlo. Pensate a vostra figlia Masum: il macellaio ha la mano pesante e quando beve non ci vede più, e inoltre ha un'amante... credete che la lascerà solo perché si sposa?»
«Ma se ha un'amante che gli piace perché non sposa lei, perché vuole Masum?»
«Semplice: vuole una moglie che sforni figli, visto che l'altra non può rimanere incinta!»
«E voi come fate a saperlo? Sono cose brutte da dire...»
«Khanum, io certe cose le conosco, ma non dovete pensare male di me. Mio fratello era così, sono cresciuta con questo tipo di persone... Vi prego, non permettete che Masum lasci questa casa per finire in un inferno! Acconsentite a conoscere la famiglia che vi ho proposto e vi renderete conto voi stessa di quanto è diversa.»
«Dovrò comunque prima parlarne con Agha Jun, ma intanto ditemi: visto che sono così perfetti, perché non scelgono una moglie del loro stesso stampo?»
«Questo non lo so, Khanum Jun, ma cosa importa? Forse è la fortuna di Masumeh, il segno che Dio le vuole bene!»
Assistetti a quella conversazione stupita e incredula, soprattutto mi sorprendevano l'entusiasmo e l'insistenza di Parvin Khanum. Non riuscivo veramente a capire quella donna, perché fosse così preoccupata per il mio destino, e pensai che avesse un tornaconto personale che mi sfuggiva...
Mio padre e mia madre passarono l'intera giornata a discutere e ogni tanto anche Mahmud interveniva, poi alla fine cedette e gli disse di fare come volevano, l'importante era che si sbarazzassero di me il prima possibile per ricominciare a vivere in pace.
La reazione più strana però fu quella di Ahmad: quella sera rientrò molto tardi e il mattino dopo, quando Khanum Jun gli spiegò la faccenda, non batté ciglio, si strinse nelle spalle e disse: «Ma che ne so, fate come volete... sono cavoli vostri!». Pensai che Parvin Khanum doveva esercitare un'influenza davvero molto forte su di lui...
Il giorno dopo ancora arrivarono i nuovi khastegar. Ahmad non tornò a casa e Mahmud non osò nemmeno entrare in salotto quando scoprì che si trattava di sole donne di cui la maggior parte senza alcun velo. Mia madre e mio padre le scrutarono con l'occhio del compratore. Parvin Khanum invece si diede un gran daffare. Il pretendente però non era venuto, si erano presentate solo la madre e le tre sorelle, la prima con un chador nero mentre le figlie erano a testa completamente scoperta. C'era una bella differenza fra loro e i precedenti khastegar. Parvin Khanum portava avanti la trattativa con grande abilità e quando entrai con il vassoio del tè fece un commento lusinghiero sulla mia bellezza e precisò che ero dimagrita in seguito a una brutta influenza, ma mi stavo già riprendendo... Io la guardai stizzita, ma la sorella maggiore si affrettò a dire che essere snelle era di moda e la maggior parte delle ragazze faceva di tutto per dimagrire, e poi suo fratello odiava le donne grasse...
Un lampo di gioia attraversò lo sguardo di mia madre e Parvin Khanum sorrise soddisfatta come se quel complimento fosse stato indirizzato a lei. Io, come al solito, avevo l'ordine di stare seduta nella stanza accanto dove avevano già predisposto il servizio del tè in modo che non dovessi andare avanti e indietro. Parlavano velocemente. Raccontarono che il loro ragazzo aveva studiato fino all'ultimo anno di legge, ma non si era ancora laureato e adesso lavorava presso la stamperia che per metà apparteneva al padre, come ci aveva riferito Parvin Khanum. Aveva uno stipendio buono e poteva perfettamente provvedere a moglie e figli, oltre ad avere una casa, non proprio sua, ma della nonna. La nonna stava al piano di sotto e avevano sistemato quello superiore per Hamid, perché - si sapeva - i maschi volevano essere indipendenti, e poi suo padre avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui.
Mio padre chiese esitando dove fosse il giovane e quando avremmo avuto l'onore di fare la sua conoscenza.
«Veramente ha lasciato che sbrigassimo tutto io e le sue sorelle. Ha detto che qualsiasi cosa avessimo deciso sarebbe stata gradita anche a lui, e poi aveva delle faccende da sistemare: è in viaggio per lavoro», rispose la madre, e la sorella più piccola aggiunse che l'avremmo conosciuto al matrimonio...
Mia madre era sorpresa: lo sposo non voleva nemmeno vedere la sposa prima del matrimonio? Poteva farlo, era halal... ma la sorella maggiore le spiegò che Hamid era via, non poteva venire in visita prima. Però avevano portato una sua fotografia per me e, da parte sua, Hamid sarebbe stato d'accordo con loro.
Mia madre ebbe una delle sue uscite infelici su un eventuale «problema serio» che il giovane poteva avere e la madre si indispettì, invitandola a tenere a freno la lingua e a chiedere conferma a Parvin Khanum che Hamid era bello e sano come un pesce.
«È così, è così: l'ho visto e non ha nulla che non vada! È molto affascinante, anzi, visto con gli occhi di una sorella, s'intende...»
La sorella tirò fuori dalla borsa una foto e la porse a Parvin Khanum che a sua volta la mostrò a mia madre. Volevano che la vedessi anch'io e, se ero d'accordo, che si organizzasse tutto entro la settimana successiva.
Agha Jun aveva ancora dei dubbi, non capiva tutta quella fretta e perché non si potesse aspettare l'arrivo dello sposo. Ma anche per quello sembrava esserci una spiegazione: madre e padre dovevano partire per la Mecca e volevano sistemare tutto prima. La donna era preoccupata per Hamid, che aveva poca cura di sé stesso: se avesse avuto una moglie, sarebbe partita molto più tranquilla. «Da sempre si dice che nessuno deve andare alla Mecca lasciandosi alle spalle delle questioni irrisolte. E quando si è parlato di vostra figlia, ho consultato il Corano ed è uscito un buon presagio! Non era mai successo con nessun'altra ragazza. Così mi sono decisa a sistemare tutto prima della partenza, nel caso non dovessi tornare...»
«Ma certo che tornerete, e nel pieno delle vostre forze! Beati voi, chissà che un giorno non possiamo anche noi andare a far visita alla casa di Dio», così Khanum Jun riparò alla scortesia di prima. Poi venne a mostrarmi la foto, dicendomi che non era gente del nostro stampo, ma lei sapeva che io ero diversa e a me sarebbero piaciuti... evidentemente era scritto così nel mio destino.
Scansai la foto con la mano senza nemmeno degnarla di uno sguardo.

9.

Tutto fu detto e deciso molto velocemente. Agha Jun sembrava convinto che lo sposo non avesse nulla che non andava ed erano seriamente intenzionati a mettere in piedi un matrimonio nel giro di una sola settimana. L'unica preoccupazione di Khanum Jun era non riuscire a organizzare i preparativi in così poco tempo, ma Parvin Khanum le venne in soccorso e si offrì di occuparsi di tutto. Avrebbe anche provveduto a cucire i vestiti per me e per lei. Ma restava il problema del mio corredo: mia madre aveva cominciato da tempo ad accantonarlo, ma non era completo e soprattutto era a Qum, dovevamo andarlo a prendere. Ma Parvin Khanum insistette di non preoccuparsi, ci avrebbero pensato dopo; nel frattempo ciò che avevamo sarebbe bastato.
Le parenti dello sposo avevano suggerito di acquistare le fedi il giorno seguente e ci avevano invitato a casa loro per vedere come vivevano e conoscerci meglio. Cominciai ad agitarmi: la faccenda si stava facendo seria e non riuscivo a crederci: come si poteva decidere un matrimonio in così poco tempo? Senza accorgermene invocai Saeid: speravo ancora che venisse a salvarmi... Non sapevo come oppormi a quella follia e provai un feroce odio nei confronti di Parvin Khanum. Era tutta colpa sua.
Quando se ne furono andate esplosero le discussioni: su chi mi avrebbe accompagnato a comprare la fede - si decise per Parvin Khanum -, sulla stoffa per il mio vestito, e ancora sulla strana assenza dello sposo... Mio padre era il più perplesso, ma Parvin gli giurò su Dio che era un'ottima famiglia: poteva verificare lui stesso, adesso che aveva il loro indirizzo.
Mia madre era ancora preoccupata per il mio corredo, voleva che Agha Jun andasse a prenderlo a Qum con i miei fratelli, ma Parvin Khanum insisteva che non ce n'era bisogno, che i genitori dello sposo sapevano che era colpa della loro fretta e che avrebbero comprato ciò che mancava. Mio padre si infastidì. «Io non mando mia figlia nuda a casa del marito: compreremo qualcosa questa settimana e al resto penseremo a tempo debito.»
L'unica persona che non aveva alcun ruolo in quelle discussioni né domande da porre e la cui opinione non veniva richiesta, né sarebbe stata comunque presa in considerazione, ero io...
Rimasi sveglia tutta la notte in preda all'ansia, alla paura e alla sofferenza. Pregavo Dio che mi uccidesse salvandomi da quel matrimonio che non volevo. La mattina dopo mi sentivo male e feci finta di dormire finché tutti furono usciti. Sentivo la voce di Agha Jun: quel giorno non sarebbe andato al lavoro per indagare un po' sulla famiglia dello sposo, comunque aveva lasciato sulla mensola i soldi per l'anello. Poi anche mio padre e Ali se ne andarono: per fortuna, da quando era cominciata l'estate, Agha Jun si portava in negozio Ali, lasciandoci così un po' di pace in casa, altrimenti Dio solo sa cosa avrei dovuto subire! Mia madre venne a svegliarmi: dovevo prepararmi e uscire, ma io mi sedetti sul letto, strinsi con forza le ginocchia al petto e risposi con freddezza che non sarei andata da nessuna parte. Quando gli uomini non erano in casa, diventavo un leone...
«Alzati senza fare storie... questa volta che la fortuna ti ha sorriso non permetterò che tu le dia un calcio!»
«Ma quale fortuna? Non sappiamo veramente chi è questa famiglia, tantomeno l'uomo che dovrei sposare! E che non è disposto a farsi vedere...»
In quel momento Parvin Khanum suonò alla porta: ben truccata e con il suo chador nero, entrò nella stanza dicendo di essere venuta un po' in anticipo per vedere se avevamo bisogno di qualcosa... e poi aveva trovato un modello bellissimo per l'abito da sposa, dovevamo solo comprare la stoffa adatta. Volevamo forse vederlo?
«Parvin Khanum, per fortuna siete arrivata! Questa disgraziata si è rimessa a fare i capricci, convincetela voi ad alzarsi, io non ci riesco.» La vicina mi guardò sorridendo, mi chiamò sposina, mi invitò ad alzarmi e rinfrescarmi prima di far visita ai futuri parenti... Ma io fui presa da un'ondata di rabbia verso di lei: cosa gliene importava e cosa c'entrava lei con tutta quella faccenda? La accusai persino di essersi fatta pagare per sistemare tutto.
Mia madre si schiaffeggiò il viso e mi augurò di soffocare perché non avevo alcun ritegno, poi si scagliò verso di me, ma Parvin Khanum la bloccò. «Non fa niente, è soltanto un po' inquieta. Ci penso io a parlarle, voi andate di là e vedrete che tra mezz'ora sarà pronta.»
Khanum Jun uscì dalla stanza. Parvin chiuse la porta e vi si appoggiò di schiena. Le scivolò il chador a terra. Mi fissava, ma non stava osservando me: aveva lo sguardo perso in qualche luogo lontano. Passò un minuto in completo silenzio. Io la guardavo incuriosita. Quando cominciò a parlare la sua voce mi suonò sconosciuta, non era squillante come quella di sempre, anzi, aveva un tono amaro e strozzato.
«Quando mio padre cacciò di casa mia madre avevo dodici anni e facevo la quinta elementare. All'improvviso mi ritrovai madre di tre sorelle e un fratello più piccoli e tutti si aspettavano che fossi come una madre vera. Dovevo pensare a tutto: cucinavo, lavavo, pulivo, mi occupavo dei bambini, e anche quando mio padre si risposò i miei doveri non si alleggerirono per niente. La moglie di mio padre infatti era come tutte le altre donne: non ci faceva del male ma nemmeno badava a noi, curava solo i suoi figli, e dopotutto forse aveva ragione. Mi hanno sempre detto che sin dalla nascita il mio cordone ombelicale era stato tagliato per mio cugino Amir Hossein. Per questo mio zio mi chiamava "bella sposina"... Sono stata innamorata di Amir Hossein da quando riesco a ricordare. Dopo che non c'era più la mamma, tutta la mia felicità e le mie speranze erano riposte in lui. Amir mi voleva molto bene, si presentava a casa nostra con qualsiasi scusa, si sedeva sul bordo dell'hoz e mi guardava lavorare. Diceva che le mie mani erano ancora troppo piccole per lavare tutti quei panni da sola. E io sbrigavo sempre i lavori più pesanti davanti a lui perché mi piaceva che provasse pena per me e che andasse a raccontare ai suoi genitori tutto quello che ero costretta a passare. Ogni volta che lo zio veniva a casa nostra rimproverava mio padre per quello che mi facevano, perché si approfittavano di una bambina... perché me la facevano pagare per i loro litigi... Un giorno mio padre gli disse che non avrebbe più ripreso in casa quella «donnaccia» e che aveva fatto un setalagheh14 perché non potesse più tornare.
«Al momento dei saluti, la sorella del papà mi stringeva sempre al suo petto - aveva lo stesso odore di mia madre - e a quel gesto non riuscivo a trattenere le lacrime. Poi mio padre prese un'altra moglie che aveva due figli dal matrimonio precedente. Casa nostra divenne come un asilo: sette bambini di tutte le età, di cui io ero la più grande. Non dico che sbrigassi tutte le faccende di casa da sola, in realtà entrambe correvamo dalla mattina alla sera e finivamo sempre per avere del lavoro in arretrato, anche perché la mia matrigna era fissata con l'ordine e la pulizia. E poi non le piacevano affatto i miei zii, li vedeva come i sostenitori di mia madre. Così impedì a mio cugino di venire a casa nostra come prima giustificando così il suo atto a mio padre: "Cosa significa che questo ragazzo ci sta sempre in giro per casa? Tua figlia è cresciuta e dovrebbe cominciare a rispettare le convenienze!".
«L'anno seguente tagliarono ufficialmente i ponti con tutta la famiglia degli zii. Mi mancavano da morire! L'unico modo per vederli era andare a casa loro e supplicare le mie cugine di lasciarmi passare la notte lì... e per non far brontolare la mia matrigna dovevo portarmi dietro le mie sorelle e mio fratello... e un altro anno passò così. Ogni volta che rivedevo Amir Hossein mi sembrava più alto e più bello! Lunghe ciglia scure ombreggiavano i suoi occhi luminosi... Mi scriveva poesie, mi comprava i testi delle sue canzoni preferite e mi chiedeva di cantargliele dicendomi che avevo una voce bellissima. A dire il vero non ero molto brava a leggere, e da quando avevo smesso di andare a scuola avevo dimenticato anche quel poco che sapevo, ma lui mi assicurava che mi avrebbe fatto da insegnante... oh che giorni meravigliosi furono quelli. Ma a poco a poco mia zia si stufò delle nostre invasioni in casa loro e anche mio zio brontolava, finché fummo costretti ad andarli a trovare sempre meno... Il Noruz dell'anno seguente scongiurai mio padre di andare da sua sorella e l'avrei convinto se la moglie non si fosse opposta risolutamente. «Io non ci metto piede in casa di quella strega, nemmeno se mi paghi!» Non ho idea di quello che fosse successo fra la zia e la mia matrigna, ma la frattura era insanabile. L'ultima volta che li vidi fu proprio quel Capodanno a casa di mia zia, che aveva organizzato di far incontrare mio zio e mio padre perché si riappacificassero. Stavano tutti seduti nel salotto al piano di sopra e avevano mandato via i ragazzi. Io e Amir ci sedemmo in una stanza al pianterreno. I bambini giocavano in giardino, le mie cugine preparavano il tè in cucina e noi due eravamo rimasti soli. Amir mi prese la mano con la sua calda e morbida, e il viso e il cuore mi si infiammarono. Mi disse che ne aveva già parlato con suo padre e avevano deciso che appena preso il diploma sarebbe venuto al mio khastegari e ci saremmo sposati. Avrei voluto gettarmi fra le sue braccia e piangere per la felicità. Mi mancava il respiro: se fosse stato promosso sarebbe stato per quell'estate stessa! Mi promise di studiare e impegnarsi solo per me perché non sopportava più di starmi lontano... mi strinse la mano ed era come se mi stesse stringendo il cuore. Ho rivisto quella scena e risentito quelle parole nella testa così tante volte che ormai è come un film di cui conosco ogni immagine e ogni battuta.
«Eravamo persi nei nostri progetti e non ci accorgemmo che avevano cominciato a litigare. Quando raggiungemmo il corridoio, papà e sua moglie stavano scendendo le scale e imprecando... La zia si sporgeva dalle scale e rispondeva per le rime agli insulti della mia matrigna, correndo dietro a mio padre e supplicandolo di smetterla, di deporre l'astio e cogliere l'occasione del nuovo anno per fare finalmente pace. Li pregò sulla tomba dei loro genitori, gli ricordò che erano fratelli e avrebbero dovuto proteggersi l'un l'altro... Ancora una volta mio padre si stava ammorbidendo e si sarebbe lasciato convincere, ma la moglie lo dissuase. "Non senti quello che ci stanno dicendo? Che razza di fratellanza è?" La lite degenerò... Il mio bel sogno non era durato nemmeno un'ora: esplose e svanì nell'aria come una bolla di sapone.
«Dopo quell'episodio la mia matrigna si vendicò di loro a modo suo. Continuava a ripetermi che alla mia età aveva già un figlio e che non sopportava più di avermi in casa come una havù.15 Proprio in quel periodo, per il mio khastegari venne il signor Haji: era un parente alla lontana della moglie di mio padre, già sposato e divorziato due volte perché - diceva - le mogli non gli avevano dato eredi. Voleva prendere una sposa giovane, bella e in salute per assicurarsi di averne. Idiota! Non gli era nemmeno passato per la mente che il problema dipendesse da lui. Gli uomini non possono essere sterili, soprattutto quelli ricchi... All'epoca aveva quarant'anni, cioè venticinque più di me, ma la mia matrigna diceva che aveva un sacco di denaro, un paio di negozi nel bazar e qualche possedimento dalle parti di Ghazvin. A mio padre venne l'acquolina in bocca e per convincerli del tutto - se ce ne fosse stato bisogno - Haji Agha aggiungeva: "Se rimarrà incinta, la farò navigare nell'oro!". Quando mi fecero sedere alla tavola nuziale, stavo molto peggio di te...» Fissava un punto nel vuoto e due lacrime le scivolarono sulle guance.
«Perché non ti sei uccisa in quel momento?»
«Pensi che sia così facile? Non ne avevo il coraggio. E tu non dovresti neanche pensarlo! Ognuno ha il suo destino contro il quale non si può lottare... e il suicidio è un grave peccato. Cosa ne sai dei progetti di Dio? Magari questo è il meglio per te.»
Khanum Jun batté il pugno contro la porta chiamando a gran voce Parvin Khanum: cosa diavolo stavamo facendo? era già tardi, dovevamo sbrigarci...
Parvin si asciugò le lacrime e si affrettò a risponderle di non preoccuparsi: saremmo state pronte in tempo. Poi si sedette accanto a me. «Ti ho raccontato queste cose perché sapessi che capisco come ti senti adesso.»
«Ma allora perché vuoi che mi capiti la stessa cosa?»
«Non capisci che ti faranno sposare comunque, che tu lo voglia o meno? Non hai idea di quello che aveva in serbo per te Ahmad! Ma perché tuo fratello ti odia così tanto?»
«Perché Agha Jun vuole più bene a me che a lui.»
Improvvisamente mi resi conto della verità delle mie parole. Non mi era mai stato così chiaro come in quel momento: mio padre voleva più bene a me che a lui.
La prima immagine che ho del suo amore è legata al giorno della morte di Zari. Agha Jun era tornato dal lavoro ed era rimasto immobile sulla porta. Khanum Jun piangeva, urlava, si disperava, mentre la nonna recitava il Corano. Il medico, che stava uscendo, scosse la testa chiaramente disgustato e apostrofò mio padre con rabbia. «Questa povera ragazza sta morendo da almeno tre giorni e voi mi avete chiamato solo adesso, troppo tardi perché possa fare qualcosa. Ma vi chiedo: se ci fosse stato uno dei vostri maschi al posto di quell'innocente, vi sareste comportati nello stesso modo? Dovreste vergognarvi.»
Agha Jun sbiancò come un lenzuolo e barcollò. Gli corsi incontro e lo afferrai con le mie manine, lui si accasciò a terra e mi strinse forte in un abbraccio, poi affondò la testa nei miei capelli e cominciò a piangere senza ritegno. Ma la nonna gli gridò che doveva alzarsi - era un uomo, non poteva piagnucolare come le donne - e poi Dio dà e lo stesso Dio riprende: non ci si può opporre al suo volere...
Allora lui esplose: «Voi mi avete detto che non era niente di grave, che sarebbe guarita! Non mi avete lasciato chiamare il dottore!».
«Non avrebbe fatto alcuna differenza! Se fosse stato scritto nel suo destino, sarebbe sopravvissuta, ma evidentemente non era così. Si vede che la nostra famiglia non si merita le ragazze...»
«Queste parole sono insensate, è tutta colpa vostra!»
Era la prima volta che vedevo Agha Jun urlare contro sua madre e a dire il vero la cosa mi piacque molto. Da quel momento e per parecchio tempo mio padre spesso mi abbracciava e versava lacrime in silenzio. Capivo che piangeva dal lento sobbalzare delle sue spalle. Così la parte di bene e amore che a Zari era stata negata venne destinata a me: Ahmad non si scordò mai di quell'affronto e non me lo perdonò. Il suo sguardo rabbioso mi insegue sin dall'infanzia: non appena Agha Jun usciva, lui si avventava su di me e mi picchiava. Ora però aveva raggiunto il suo obiettivo: non contavo più niente agli occhi di nostro padre. Avevo tradito la sua fiducia, l'avevo deluso e amareggiato e lui si era deciso a darmi via: era la migliore occasione di Ahmad per rivalersi su di me.
La voce di Parvin Khanum mi riportò alla realtà. «Non hai la minima idea di ciò che ti sarebbe accaduto, non puoi nemmeno immaginare quanto sia sporco e malvagio il pretendente che avevano scelto... e nessuno sarebbe venuto a salvarti! Ho supplicato Ahmad di non farti sposare quel bastardo e alla fine l'ho convinto. Non potevo permetterlo: mi ricordi troppo me stessa vent'anni fa. Loro vogliono solo darti in sposa - non importa a chi - e non ci sono più notizie di quell'ingrato di Saeid, allora mi sono detta che almeno dovresti sposare qualcuno che non ti picchierà, che si comporterà come un essere umano... qualcuno di cui forse un giorno potresti persino innamorarti e con cui vivere serenamente.»
«Come te?» replicai in tono pungente, ma lei mi lanciò uno sguardo di rimprovero.
«Ognuno di noi riesce a prendersi la propria rivincita prima o poi e a rendere la vita in qualche modo sopportabile...»
Comunque quel giorno non andai a comprare la fede. Dissero che mi ero ammalata, Parvin Khanum prese l'anello d'argento che portavo al dito e lo portò via in modo da acquistare la fede della misura giusta e si occupò anche della stoffa per il vestito. Due giorni dopo Agha, Mahmud e Ali si recarono a Qum e tornarono con la macchina carica di oggetti per la mia dote che portarono direttamente nella nuova casa. Khanum Jun voleva che ci andassi anch'io per vedere cosa mancava e come volevo sistemare le mie cose, ma io scossi la testa infastidita. Poteva andarci Parvin Khanum: dopotutto era lei la più impaziente, io non avevo alcuna intenzione di sposarmi. Il giorno seguente, Parvin mi portò l'abito da sposa per la prova, ma non riuscì a convincermi a indossarlo. Tuttavia non si diede per vinta. Aveva le mie misure e altri miei vestiti da prendere a modello, mi disse. Sarebbe venuto bene lo stesso.
Non sapevo cosa fare, ero in preda all'ansia e stavo male. Non riuscivo né a mangiare né a dormire, e anche se riuscivo ad addormentarmi, il mio sonno era tormentato dagli incubi e mi svegliavo più stanca di quando ero andata a letto. Mi sentivo come una moribonda che si avvicina alla sua fine e decisi di parlare con Agha Jun, anche se sapevo che sarebbe stato molto difficile convincerlo. Volevo buttarmi ai suoi piedi, piangere e invocare la sua pietà, ma tutti stavano attenti a non lasciarmi sola con lui nemmeno per un secondo, per paura che si impietosisse come era successo in passato, e anche lui mi sfuggiva. Vivevo nella speranza di un miracolo, di una mano calata dal cielo che mi avrebbe portata via all'ultimo minuto. Ma non accadde nulla di ciò che speravo: tutto si svolse secondo i piani senza alcun intoppo e il giorno tanto temuto arrivò.
10.

La porta della nostra casa era aperta sin dal mattino. Ahmad, Mahmud e Ali continuavano ad andare avanti e indietro. Sistemarono le sedie tutt'intorno al cortile, lavarono la frutta e disposero i dolci in bella vista, anche se il numero degli invitati era ridotto. Khanum Jun aveva fatto richiesta di non avvertire nessuno a Qum, per evitare che qualche parente venisse e si accorgesse delle condizioni in cui versavo. Avevano perfino mentito alla zia dicendole che il matrimonio sarebbe stato celebrato di lì a due settimane; l'unico che non poterono tenere all'oscuro fu lo zio Abbass, e infatti non c'era nessun altro della nostra famiglia all'infuori di lui. Tutti gli altri invitati erano parenti dello sposo e vicini di casa.
Nonostante i ripetuti tentativi non riuscirono a mandarmi dalla parrucchiera, così Parvin Khanum si sobbarcò anche quell'impegno. Fu lei a truccarmi e a farmi l'acconciatura: io piansi per tutto il tempo, ma vidi che anche lei aveva le lacrime agli occhi e se le asciugava di nascosto. Dovevo sposarmi alle cinque del pomeriggio, quando faceva più fresco. Alle quattro arrivarono i parenti dello sposo e, nonostante il caldo non fosse scemato di molto, gli uomini presero posto in giardino, mentre le donne andarono al piano di sopra. Il soffreh aghd era stato allestito nella stanza al pianterreno e io mi trovavo in quella accanto. Khanum Jun entrò tutta trafelata nella stanza e mi disse di sbrigarmi a vestirmi: l'agha - cerimoniere di nozze - sarebbe arrivato entro un'ora.
Io tremavo in tutto il corpo, mi gettai ai suoi piedi e la scongiurai di non farmi una cosa del genere: non volevo sposarmi, non sapevo nemmeno chi fosse il mio futuro marito... Giurai sul Corano che mi sarei uccisa, la pregai di lasciarmi andare a parlare con il mio signor padre e di mandare tutto a monte, non avrei mai detto di sì...
«Che Dio mi porti via! Stai zitta! Ancora con questa storia? Non vuoi proprio lasciarci un briciolo di onore di fronte a tutta questa gente? I tuoi fratelli ti faranno a pezzi... è da stamattina che Ahmad si è messo un coltello in tasca e dice: "Se prova a fare un'altra delle sue cavolate... giuro che la uccido!". Pensa all'onore del tuo povero Agha Jun. Finirà per morire di infarto se ti comporti ancora male!»
«Non voglio! Perché mi costringete?»
«Cuciti quella boccaccia! Non alzare la voce che ti sentono tutti!»
Avanzò verso di me. Scappai e mi raggomitolai sotto il letto nell'angolo più lontano. I bigodini si erano sciolti ed erano in giro per la stanza.
«Vieni fuori, maledetta! Che possa vederti sul letto di morte. Che tu possa bruciare all'inferno! Esci di lì, così finirai per uccidermi...»
Qualcuno stava bussando. Era Agha Jun che da dietro la porta chiedeva cosa stesse succedendo: il cerimoniere stava per arrivare. Mia madre lo rassicurò che era tutto a posto, che mi stavo vestendo, e gli chiese di andare a chiamare Parvin Khanum; intanto mi intimava sottovoce di uscire dal mio nascondiglio, ero una disgraziata, mi avrebbe uccisa con le sue stesse mani...
Khanum Jun non riusciva a infilarsi sotto il letto, allora allungò il braccio, mi prese per i capelli e mi trascinò fuori. Nello stesso istante entrò Parvin Khanum che si disperò nel vedere come mi aveva conciata. Ancora raggomitolata a terra, le guardai con aria di sfida... mia madre aveva in mano un ciuffo dei miei capelli. Li odiavo tutti...
Non mi ricordo affatto di aver pronunciato il baleh - il sì - alla cerimonia. Khanum Jun mi stringeva forte il braccio e continuava a sussurrarmi minacciosa all'orecchio: «Di' baleh! Di' baleh!».
Finalmente qualcuno lo disse e tutti applaudirono. Mahmud e alcuni uomini seduti con lui nella stanza accanto innalzarono preghiere. Sentivo parlare, ma non distinguevo le parole e avevo un velo davanti agli occhi. Le voci erano un unico mormorio incomprensibile e io fissavo un punto imprecisato, come in trance. Non era importante chi fosse o come fosse quell'uomo, ora mio marito, seduto accanto a me... non mi importava più di niente...
Tutto finì e di Saeid nemmeno l'ombra... tutte le mie fantasie e i miei sogni si erano infranti: l'uomo che amavo non era venuto a salvarmi.

Quando tornai in me ero a casa di quell'uomo, lo sconosciuto, nella sua camera da letto. Lui era seduto sul bordo del materasso e mi dava le spalle: stava sciogliendo il nodo della cravatta. Mi misi in un angolo della stanza e strinsi al petto il chador bianco che mi avevano fatto indossare per l'ingresso in casa di mio marito. Tremavo come le foglie al vento d'autunno e il mio cuore non trovava pace. Cercavo di non fare alcun rumore, in modo che lui non si accorgesse della mia presenza nella stanza. Piangevo in silenzio. Dio mio! Che razza di tradizione era mai questa? Prima avrebbero voluto uccidermi per un semplice scambio di parole con un uomo di cui sapevo molte cose, che amavo ed ero pronta a seguire in capo al mondo, e ora volevano che andassi a letto con un perfetto estraneo che mi ispirava solo paura. Al pensiero che la sua mano mi sfiorasse provavo ribrezzo, temevo che mi avrebbe violentata e che nessuno sarebbe accorso in mio aiuto.
La stanza era semibuia. Si girò di scatto verso di me, come se avesse sentito i miei occhi fissi su di lui. Mi lanciò uno sguardo vuoto e disincantato e con voce stanca e sorpresa allo stesso tempo chiese: «Cosa c'è? Hai paura di me?». Poi piegò le labbra in un sorriso di compatimento e proseguì: «Per favore, non guardarmi così! Mi ricordi un agnello alla vista del macellaio...». Avrei voluto rispondergli, ma non riuscivo a parlare.
«Non avere paura, stai tranquilla... non ho intenzione di farti niente: non sono un animale.»
I miei muscoli contratti si rilassarono un po'. Il mio respiro, chissà da quanto prigioniero del mio petto, si liberò, ma appena lui si alzò dal suo posto mi raggomitolai di nuovo nel mio angolo contro il muro.
«Guarda, cara ragazza, che io stasera devo vedere i miei amici e sto proprio per uscire», mi disse ancora prendendo le scarpe, e le infilò per mostrarmi che non mentiva. «Mettiti qualcosa di comodo e dormi un po'. Ti prometto che quando tornerò non verrò a disturbarti: è una promessa da gentiluomo...»
Quando sentii il rumore della porta che si chiudeva, mi piegai su me stessa come una molla e mi sedetti a terra. Ero così stanca che le gambe non reggevano più il peso del mio corpo, sfinita come se avessi trascinato una montagna.
Per un po' restai in quella posizione, almeno finché il respiro non riprese un ritmo naturale. Il mio riflesso nello specchio alto della toilette era distorto. Ero veramente io quella? Mio quel viso pallidissimo nonostante il trucco? Lo stupido velo che mi avevano fatto indossare si era spostato sui miei capelli scompigliati e ora pendeva tristemente da un lato: lo strappai via con rabbia e disprezzo. Non riuscivo ad aprire i bottoni che mi tenevano prigioniera dentro quell'assurdo vestito, allora tirai giù il colletto con tanta forza da strapparli tutti: volevo toglierlo più in fretta possibile e disfarmi di qualsiasi cosa potesse ricordarmi quel matrimonio.
Cercai un vestito comodo. Sul letto era distesa una camicia da notte rosso fuoco piena di pizzi e merletti. "Sicuramente un acquisto di Parvin Khanum", mi dissi. Mi guardai intorno e riconobbi la mia valigia in un angolo della stanza. Era grande e pesante. A fatica riuscii a spostarla e l'aprii. Indossai uno dei miei vestiti da casa e uscii dalla camera. Non sapevo dove fosse il bagno, così accesi tutte le luci e spalancai tutte le porte, finché lo trovai. Misi la testa sotto il getto d'acqua del rubinetto e mi lavai più volte la faccia con il sapone. Accanto al lavabo erano disposti gli oggetti da toilette dello sconosciuto che era diventato mio marito.
Lo sguardo si fermò sul rasoio, l'unica via di scampo. Immaginai la scoperta del mio cadavere sul pavimento del bagno, mio marito che inorridiva per un momento a quella vista, ma non si sarebbe certo disperato per me. Khanum Jun invece sarebbe impazzita: si sarebbe ricordata di avermi afferrato per i capelli e tirato fuori da sotto il letto, di avermi obbligata a sposarmi nonostante le mie suppliche, e avrebbe sofferto terribilmente... Quella fantasia mi riempiva il cuore di uno strano, nuovo piacere... E Agha Jun? Piangendo con la testa fra le mani, si sarebbe ricordato di come desideravo studiare e di quanto gli volevo bene, per poi provare un'infinita pena per me e una grande vergogna per quanto mi aveva costretto a fare... forse si sarebbe persino ammalato per il dolore... Quella visione appagante mi fece sorridere allo specchio.
E gli altri? Cosa avrebbero fatto tutti gli altri?
Ero certa che Ahmad non avrebbe provato tristezza, ma almeno sarebbe rimasto di sasso e si sarebbe vergognato, sì, ma per quanto? Si sarebbe ubriacato dal mattino alla sera per una settimana e poi Parvin Khanum lo avrebbe consolato fra le sue braccia... ma io non lo avrei lasciato in pace, il mio sguardo accusatore lo avrebbe perseguitato tutte le notti, la mia ombra non lo avrebbe più abbandonato! E Mahmud? Lo vedevo già scuotere la testa per me, povera infelice che avevo commesso l'ultimo terribile peccato e stavo bruciando nel fuoco dell'inferno... Nemmeno un briciolo di rimorso o senso di colpa per la mia fine lo avrebbe sfiorato: da buon musulmano lo immaginavo recitare qualche sura per la mia anima dannata e pregare per me il giovedì sera, autocompiacendosi di essere stato un buon fratello, misericordioso, se non addirittura affettuoso! Ali, invece, avrebbe sofferto un po' all'inizio chiudendosi in sé stesso, per poi dimenticare tutto al richiamo dei compagni di gioco. La piccola Fati era l'unica innocente che vedevo versare lacrime sincere per me senza alcuna colpa... si sarebbe sentita come mi ero sentita io alla morte di Zari: sola, senza nessuno a guidarla e confortarla. Parvin Khanum si sarebbe congratulata segretamente con me per aver preferito la morte a una vita infame, pentendosi di non aver avuto il coraggio di fare lo stesso a suo tempo, per non tradire il suo grande amore...
Parvaneh avrebbe saputo della mia morte solo molto più tardi e avrebbe raccolto tutti i ricordi di me, piangendo, senza mai riuscire a liberarsi del tutto di un senso di tristezza e desolazione. Oh, quanto mi mancava Parvaneh! Quanto bisogno avevo di lei in quel momento!
"Saeid, oh Saeid! Cosa farai tu? Urlerai, verserai fiumi di lacrime, ti maledirai per non essere venuto a chiedere la mia mano, per non avermi rapita nel cuore della notte? Vivrai nel rimpianto e nel rimorso fino alla fine dei tuoi giorni... eppure non vorrei causarti tanto dolore, anche se è colpa tua... Perché sei sparito? Perché non mi hai più cercata? Perché?"
L'euforia per la morte svaniva, i sogni di vendetta perdevano consistenza... era ora di agire. Afferrai il rasoio e lo appoggiai sul polso sinistro: non era molto affilato, dovevo premere, ma avevo paura. Allora cercai di ricorrere alla mia rabbia e al mio rancore, mi ricordai delle ferite che Ahmad aveva inflitto a Saeid e trovai il coraggio di tagliare. Sentii un forte bruciore e il sangue cominciò a uscire, adesso dovevo pensare all'altro polso. Ma mentre riaffioravano le mie fantasie, vidi che il sangue aveva già smesso di colare: il taglio non era abbastanza profondo, non ero riuscita a prendere la vena principale. Se almeno ci fosse stato un modo meno doloroso e cruento...
La mia mente cominciò a lottare per difendermi senza che io lo volessi. Mi ricordai delle parole della maestra che commentava il Corano: «Il suicidio è orribile e peccaminoso, Dio non perdona chi si toglie la vita e il suicida è destinato a bruciare all'inferno, fra serpenti che sputano fuoco e creature demoniache che frustano la carne ustionata. Una dannazione eterna in cui l'acqua da bere è sporca e fetida come i corpi in putrefazione e lance ardenti non smettono di trafiggere i dannati...». Dopo tali parole, avevo avuto incubi terribili per una settimana intera. No, non potevo sopportare l'inferno. Ma come vendicarmi sulla mia famiglia, farli soffrire come loro avevano fatto soffrire me, far capire loro quanto mi avevano oppressa? Mi sembrava di impazzire... volevo rovinare loro il resto dell'esistenza facendoli vivere nel tormento per la mia morte, ma non ero più sicura che avrebbero davvero sofferto in eterno per me... Quanto avevano pianto per Zari che non aveva commesso alcun peccato? Nemmeno una settimana dopo la sua scomparsa tutti erano arrivati alla conclusione che era stato il volere di Dio: Allah ci stava mettendo alla prova e nessuno poteva ribellarsi, bisogna accettare che Dio dà e Dio riprende come fa ogni buon musulmano, i comuni mortali sono nelle sue mani e non devono pretendere di capire... Dunque nessuno della famiglia aveva avuto un ruolo nella vicenda, nessuno era colpevole per la morte di Zari!
"Accadrà lo stesso anche per me! Fra qualche settimana si rassegneranno, e fra un paio d'anni mi dimenticheranno, mentre io continuerò a soffrire, a vivere nel supplizio tra le fiamme dell'inferno, e non potrò esserci per ricordare loro il male che mi hanno fatto, mentre chi mi ha voluto veramente bene e ha ancora bisogno del mio appoggio rimarrà solo..." Gettai il rasoio a terra: ormai sapevo che non sarei riuscita a usarlo. Avrei dovuto accettare il mio destino come Parvin Khanum.
L'emorragia si era bloccata, mi fasciai il polso e tornai in camera da letto, poi mi rintanai sotto le lenzuola e piansi disperatamente. Dovevo accettare il fatto di aver perso Saeid o che lui non mi aveva voluta. Dovevo abbandonarlo nell'angolo più remoto del cuore, come si lascia alla terra un proprio caro. Pregai e piansi sulla sua tomba per ore, poi capii che era giunto il momento di separarmene, di lasciare che il tempo facesse il suo corso, portando con sé i ricordi fino a cancellarli... ma sarebbe mai arrivato quel giorno?

11.

Il sole dardeggiava alto nel cielo a indicare che la giornata era iniziata da parecchie ore. Mi svegliai da un sonno pesante e privo di sogni e mi guardai intorno disorientata e smarrita. Mi era tutto estraneo, dove mi trovavo? Passò qualche istante prima che gli ultimi eventi mi tornassero alla memoria: ero nella casa dello sconosciuto che era diventato mio marito. Mi sollevai e mi guardai intorno. La porta della stanza era aperta, ma il silenzio profondo intorno a me mi diceva che ero sola. Mi sentivo calma, pervasa da una strana sensazione di insensibilità e freddezza: l'odio che mi aveva accompagnata per mesi sembrava assopito e non provavo nostalgia per la casa e la famiglia da cui mi ero separata, anche se di certo non appartenevo a quella in cui mi trovavo. Nessuna simpatia per quelle nuove quattro mura, ma nemmeno ribrezzo. Mi sentivo di ghiaccio e pensai che niente avrebbe potuto più scalfirmi e niente rendermi di nuovo felice.
Mi alzai: la stanza era molto più grande di come mi era sembrata la sera precedente, e il letto e l'armadio appena acquistati odoravano di nuovo, dovevano essere quelli di cui aveva parlato Agha Jun. In un angolo della camera scorsi un baule. Al suo interno c'erano lenzuola, trapunte, asciugamani e altra biancheria: evidentemente non avevano avuto il tempo di sistemare ogni cosa. Uscii dalla stanza in un'anticamera quadrata: di fronte c'era uno stanzino che doveva essere il ripostiglio, alla mia sinistra una porta a vetri sul corridoio che conduceva al bagno e alla cucina, a destra il soggiorno con il pavimento coperto da un tappeto rosso e cuscini intonati ai lati. Una libreria stracolma di libri riempiva una parete e alcune mensole sfoggiavano piantine, un busto scolpito e altri libri.
Infilai la testa in cucina. Era piuttosto piccola, con un ripiano di mattoni e cemento su cui poggiavano i fornelli nuovi di zecca e la bombola del gas nascosta sotto. Su un piccolo tavolo di legno troneggiavano i piatti di porcellana gole sorkhi che conoscevo bene: quando ero bambina avevamo fatto un breve viaggio a Teheran e li avevano comprati per me e Zari come parte della nostra dote. In uno scatolone al centro della stanza c'erano pentole di rame di varie misure, un grosso mestolo e una grande bacinella, anch'essa di rame, molto pesante e lucidata da poco. Era chiaro che non avevano trovato posto per sistemare ogni cosa.
Probabilmente tutta la roba nuova era mia, mentre il resto apparteneva allo sconosciuto. Pensai alla dote che avevano cominciato a prepararmi dal giorno in cui ero nata. Vasellame e biancheria: sembrava che lo scopo della mia vita fosse incarnato da quegli oggetti, unica aspettativa riguardo al mio futuro i lavori di casa e i doveri di moglie, in cucina e in camera da letto... ma io non sopportavo l'idea di cucinare in quel locale estraneo, disordinato e triste e tantomeno di adempiere ai miei doveri di moglie. Anzi, ne ero disgustata, anche se non avevo più la forza di ribellarmi.
Continuai l'esplorazione della nuova casa e trovai uno dei tappeti della mia famiglia sul pavimento del corridoio, e i due candelabri e lo specchio che erano sulla tavola nuziale disposti sul takhceh, la tradizionale mensola in muratura. Mi avvicinai al tavolino rettangolare coperto da una tovaglietta scolorita in un angolo del soggiorno: sopra c'era una grande radio marrone con le manopole in avorio che sembravano due occhi intenti a fissarmi e accanto una specie di scatola quadrata. Riconobbi che era un giradischi, lo stesso modello che aveva Parvaneh. Lo aprii e accarezzai con le dita i centri concentrici del disco nero... peccato non sapere come funzionava! Lo sconosciuto ascoltava anche musica straniera... se lo avesse saputo Mahmud... I libri e i dischi costituivano senza dubbio le cose più interessanti di quella casa, magari mi avessero lasciato per sempre in loro compagnia!
Al piano superiore, invece, non trovai niente che solleticasse la mia fantasia. Allora uscii su un balconcino che da una parte conduceva al cortile con una serie di gradini e dall'altra al tetto. Scesi: al centro del cortile lastricato troneggiava un vecchio hoz rotondo di un azzurro spento con l'acqua cambiata da poco e due aiuole lunghe e strette ai lati, entrambe con un albero da frutto: un ciliegio che riconobbi subito e l'altro che scoprii essere un caco solo l'autunno seguente quando si caricò di frutti. Contro il muro una vite vecchia e stanca ghermiva un palo di legno altrettanto frusto. Due cespugli di rose assetate e con le foglie polverose correvano lungo i lati. In fondo al cortile c'era un vecchio bagno simile a quello che avevamo a Qum e di cui avevo sempre avuto paura perché era immerso nel buio. Sul terrazzo del piano inferiore della casa si aprivano ampie finestre, attraverso cui provai a dare una sbirciata alle altre stanze. Tutte avevano tende rigide chiuse, tranne una che potei intravedere: un tappeto rosso, una serie di cuscini, lenzuola piegate in un angolo, un samovar e l'occorrente per il tè accanto alla vecchia porta d'ingresso con la serratura grossa e pesante. Doveva trattarsi dell'appartamento della nonna dello sconosciuto. Riportai alla memoria la vecchina gobba con il chador bianco a fiori che avevo visto alla cerimonia. Dovevano sicuramente averla allontanata per lasciare un po' d'intimità ai novelli sposi... Sorrisi amaramente e proseguii il mio giro. Gettai uno sguardo ai gradini e alla porta chiusa che portavano alla cantina. Le finestre strette sotto il porticato erano le uniche a catturare un po' di luce. Guardai all'interno e mi sembrò tutto molto vecchio e polveroso: nessuno doveva averci messo piede da parecchio tempo. Stavo tornando indietro quando rividi le rose assetate e tristi: provai pena per loro e le innaffiai con l'acqua dell'hoz.

Doveva essere pomeriggio e non avevo ancora mangiato. Andai in cucina e vidi una scatola di dolci del matrimonio. Ne presi uno: era molto secco. Avevo voglia di qualcosa di fresco. Il frigorifero vecchio, basso e tozzo di un bianco ingiallito era in un angolo della cucina. Lo aprii: ci avevano messo un po' di formaggio, burro, frutta e bibite. Presi una bottiglia d'acqua e un frutto. Mi sedetti sul davanzale della finestra e mentre addentavo la pesca mi guardai intorno: la cucina era disordinata e squallida. Mi alzai, presi un libro e mi stesi sul letto ancora sfatto, ma la mia mente non voleva saperne di collaborare. Leggevo senza capire niente; buttai il libro sul pavimento e provai a dormire, ma nemmeno quello mi riuscì. Ero tormentata dal pensiero fisso di dover passare il resto della mia vita con quell'estraneo. E poi dov'era andato nel cuore della notte? Forse a casa dei genitori a lamentarsi perché lo avevo respinto... E se sua madre fosse venuta a chiedermi perché lo avevo mandato via, cosa le avrei risposto? Mi girai e rigirai nel letto persa in quei pensieri, finché arrivò Saeid a spazzarli via. Provai a respingere il suo ricordo, mi rimproverai e mi imposi di non pensare a lui. Non ero riuscita a suicidarmi e dovevo stare attenta a come mi comportavo: Parvin Khanum aveva cominciato proprio in quel modo, e ora tradiva il marito senza farsi troppi problemi. Se non volevo diventare come lei, non dovevo pensare a Saeid. Ma era inutile: lui non voleva lasciare la mia mente.
Decisi di riordinare i farmaci in modo da avere a portata di mano una via rapida e indolore alla morte, nel caso in cui la mia vita fosse diventata insopportabile e io ne avessi perso il controllo. Ero certa che Dio sapeva che mi sarei suicidata piuttosto che commettere peccati peggiori e non mi avrebbe mandata all'inferno.
Avevo la sensazione di aver passato ore in quel letto - dovevo anche aver dormito un po' -, ma quando tornai in soggiorno e guardai il grande orologio sulla parete vidi che erano appena le tre e mezzo. Cosa potevo fare? Mi stavo annoiando a morte e mi chiesi di nuovo dove potesse essere andato lo sconosciuto e cosa avrebbe voluto farsene di me. Magari avessi potuto vivere in quella casa senza avere niente a che fare con lui! C'erano libri, musica, la radio, e soprattutto lì avevo finalmente la pace ed ero libera. Non provavo nessuna voglia di rivedere la mia famiglia. In quella casa io e lo sconosciuto avremmo potuto condurre due vite tranquille e separate l'una dall'altra, se lui lo avesse accettato. Io avrei pensato a tutti i lavori domestici e saremmo andati ognuno per la sua strada. Mi tornò in mente Parvin Khanum. Aveva detto che forse me ne sarei potuta innamorare, oppure avrei potuto proseguire per la mia strada da sola. Tremai a quel ricordo: il senso di quella affermazione mi era perfettamente chiaro... perdersi era la scelta più facile. Sarei diventata una peccatrice come Parvin Khanum? Ma cos'era veramente il peccato? E poi, nei confronti di chi e riguardo a cosa sarei stata colpevole? Andare a letto con un uomo che non conoscevo e non amavo, e che aveva il diritto di toccarmi solo perché qualcun altro aveva pronunciato una formula e io ero stata costretta a dire sì, o continuare ad amare un altro, con il quale avrei voluto passare la vita, ma che non era mio marito? Quale dei due era il vero peccato? I pensieri mi vorticavano nella mente: dovevo fare qualcosa, impegnarmi in qualche modo, se non volevo diventare pazza.
Accesi la radio al massimo volume, avevo bisogno di sentire altri suoni e voci oltre all'eco della mia. Tornai in camera, rifeci rapidamente il letto e piegai la camicia rossa già stropicciata. I vestiti nell'armadio erano scivolati dalle grucce e si erano sparpagliati in disordine sul fondo. Li raccolsi e li riappesi divisi: da una parte i miei, dall'altra quelli di mio marito. Sistemai varie cose nei cassetti della toilette, e ne riordinai il ripiano. Poi trascinai il baule nell'angolo della stanza di fronte e vi riposi ciò che al momento non serviva. Quando calò il buio le due camere erano in perfetto ordine e io conoscevo esattamente la collocazione di ciascun oggetto. Avevo di nuovo fame. Mi lavai le mani e tornai in cucina: lì regnava il caos, ma non avevo più voglia di occuparmene. Feci bollire l'acqua e mi preparai un po' di tè. Non c'era pane e allora spalmai sui dolcetti secchi del formaggio tenero, il partir, e li mangiai con il tè. Poi tornai ai libri: alcuni avevano dei titoli veramente strani di cui mi sfuggiva il significato; altri trattavano di legge e dovevano essere quelli su cui lo sconosciuto aveva studiato. C'erano anche romanzi e raccolte di poesie di Mehdi Akhavan-Sales, Forugh Farrokhzad e altri scrittori che adoravo. Pensai al libricino di poesie che Saeid mi aveva regalato, con la copertina nera e il disegno di un fiore. Dovevo ricordarmi di metterlo in quella libreria. Sfogliai Prigioniera della poetessa Forugh Farrokhzad. Che coraggio aveva quella donna, riusciva a esprimere tutto ciò che provava senza veli né vergogna. Sentivo miei con tutta l'anima alcuni di quei versi come se li avessi scritti io. Segnai un paio di poesie che volevo trascrivere sul mio quaderno e cominciai a leggere ad alta voce: "Penso al momento in cui spiccherò il volo da questa prigione mentre non se ne accorgono, e riderò del mio secondino, e prenderò in mano la mia vita per ricominciarla accanto a te". Mi rimproverai di nuovo per i miei pensieri. Erano già le dieci di sera passate, presi un romanzo e tornai a letto. Il libro s'intitolava Il tafano e descriveva vicende spaventose. Nonostante fossi molto stanca non riuscivo a smettere di leggerlo e mi aiutò a non pensare alla mia solitudine in quella casa estranea.
Non mi resi conto di come e quando mi addormentai. Il librò mi scivolò dalle mani e la luce rimase accesa.
Quando mi svegliai era quasi mezzogiorno e la casa era ancora impregnata di solitudine e silenzio. Mi dissi che vivere da soli non era male: potevo dormire quanto mi pareva senza rendere conto a nessuno. Mi lavai le mani e la faccia, preparai il tè e feci colazione con i dolcetti ormai stantii. Mi ricordai che era sabato e che quindi i negozi erano aperti. Se lo sconosciuto non fosse tornato sarei dovuta andare io stessa a fare un po' di spesa, ma con quali soldi? E poi, cosa avrei dovuto fare se non si fosse più presentato? "Sarà andato a lavorare e tornerà nel pomeriggio, inshallah." Mi venne da ridere: avevo pensato inshallah, come se desiderassi il suo ritorno... Mi ricordai di una delle storie che avevo letto sulle riviste di Parvaneh: una ragazza, obbligata a sposarsi come me, la sera del matrimonio annunciò allo sposo che era innamorata di un altro e non poteva legarsi a lui e lo sposo le giurò che non l'avrebbe nemmeno sfiorata se lei non voleva. Dopo qualche mese la ragazza cominciò a vedere gli aspetti positivi del marito e a innamorarsene, dimenticando a poco a poco il vecchio amore, ma il marito non era disposto a infrangere il suo giuramento e non la toccò mai. Era possibile che anche mio marito avesse fatto un giuramento simile? Magari fosse stato così: dopotutto io non nutrivo sentimenti né buoni né cattivi nei suoi confronti, volevo che tornasse soltanto per liberarmi da quello stato di incertezza, per disporre dei soldi per vivere e perché non avevo la minima intenzione di tornare a casa di mio padre. La verità era che avevo cominciato ad apprezzare il mio nuovo rifugio e quella vita che nessuno veniva a disturbare.
Accesi la radio ad alto volume e cominciai a darmi da fare. Passai gran parte della giornata in cucina. Pulii dentro e fuori tutti gli armadietti con lo sportello di metallo, poi sistemai i piatti sui ripiani puliti, mentre i pentoloni di rame trovarono posto sotto i fornelli. Dalla stoffa trovata nel baule in camera da letto ricavai tovaglie di diversa lunghezza e cucii gli orli a mano. Ne stesi una sul takhceh e le altre sul tavolo e sulle mensole. Sistemai il samovar e le tazze da tè sulla mensola più grande. Lavai i fornelli e il frigorifero e pulii il pavimento finché tutto splendette come nuovo. Poi mi spostai in soggiorno, dove misi altre tovagliette ricamate sulle mensole e sul tavolino sotto la radio e il giradischi. Infine misi in ordine i libri per dimensione e mi guardai intorno soddisfatta: la casa non sembrava più la stessa.
Un rumore proveniente dal cortile mi fece correre alla finestra: sembrava tutto tranquillo, ma vidi che le aiuole erano secche e assetate. Scesi ad annaffiarle e finii per lavare anche il cortile e le scale. Imbruniva già quando rincasai stanca e sudata. Mi ricordai che in casa c'era una doccia, e anche se non ero in grado di accendere la caldaia, dopo aver pulito anche il bagno mi infilai sotto il getto d'acqua ghiacciata. Mi lavai velocemente i capelli e il corpo e mi asciugai. Poi indossai il vestito da casa che Parvin Khanum mi aveva cucito da poco, legai i capelli e mi guardai allo specchio: ero cambiata - non ero più una bambina - mi sembrò d'essere invecchiata di anni in un paio di giorni.
Quando la porta del cortile si aprì sentii un tuffo al cuore. Mi avvicinai cautamente alla finestra e vidi che madre, padre, sorella e nonna dello sconosciuto erano appena entrati. La sorella aiutava la nonna a salire i gradini sorreggendola per il braccio e il padre andò ad aprirle la porta di casa, mentre la madre saliva con foga le scale, impaziente di vederci. Il mio battito cardiaco accelerò notevolmente, mi tremavano mani e gambe, ma trassi un respiro profondo, aprii la porta e salutai mia suocera con garbo.
«Ecco mia nuora, finalmente! Come stai? E dov'è lo sposo?» e prima che potessi risponderle si precipitò in casa e cominciò a chiamare il figlio ad alta voce. Tirai un sospiro di sollievo: anche loro non sapevano che Hamid se n'era andato la sera del matrimonio e non aveva ancora fatto ritorno. «Al momento non è in casa, è andato dai suoi amici», risposi. Scuotendo la testa, cominciò a ispezionare la casa e guardò dappertutto. Non riuscivo a interpretare i suoi gesti: sembrava un'insegnante severa alle prese con i miei compiti. Ero tesa e attendevo il giudizio finale. Passò una mano sulla tovaglietta a fiori che avevo steso sul takhceh e mi chiese se l'avevo cucita io: mentii rispondendole di no... Entrò in camera da letto e spalancò le ante dell'armadio. Io stessa mi compiacqui dell'ordine con cui avevo disposto i vestiti. Scosse di nuovo la testa. In cucina diede un'occhiata alle stoviglie all'interno degli armadietti e osservò i miei piatti di porcellana, poi tornò in soggiorno e si sedette. L'ispezione era terminata. Andai in cucina per tornare con il tè e i soliti dolcetti.
«Vieni figlia mia, vieni qui a sederti! Sei stata bravissima! Sei proprio come ti ha descritta Parvin Khanum: bella, pulita e di buon gusto! Hai sistemato perfettamente questa casa in soli due giorni. Tua madre ci ha chiesto di venirti a trovare e darti una mano con le pulizie, ma credo proprio che non sia necessario: sei già una donna di casa perfetta! Ora sì che mi sento sollevata e tranquilla per il mio Hamid, ma dimmi, tesoro, dov'è andato?»
«Dai suoi amici...»
«Vedi cara, una donna deve avere anche una certa diplomazia, sapersi tenere stretto il marito, saperlo comandare senza che se ne accorga... Stai attenta: Hamid è un fiore ma ha anche le sue spine... e queste spine sono proprio i suoi amici, che non hanno la testa sulle spalle. Devi fare in modo che si stufi di loro: se riuscirai a tenerlo stretto e a fare in modo che si preoccupi solo di te e dei vostri figli, lascerà perdere il resto. È un tuo dovere, mia cara, devi impegnarlo in modo che non abbia più tempo per altri pensieri. Fra nove mesi gli metterai fra le braccia il primo figlio, e dopo altri nove mesi il secondo! Io ho fatto tutto quello che era in mio potere, piangendo, svenendo e riuscendo finalmente a farlo sposare, ora tocca te.»
Finalmente mi si aprirono gli occhi. Oh povero sconosciuto, allora anche lui era stato obbligato a sposarsi, anche lui non desiderava affatto né me né quella vita, forse amava qualcun altro come me. Ma se fosse stato così, allora perché non gli avevano dato in moglie la donna che amava? Una famiglia così premurosa e attenta ai desideri del figlio l'avrebbe fatto, e poi lui non era mai stato nelle mie condizioni, in attesa di un pretendente per il khastegari. Lui poteva scegliere chi voleva, aveva il diritto di esprimere la sua preferenza, e i suoi genitori che desideravano così tanto che si sposasse non avrebbero sicuramente avuto nulla da ridire sulla sua scelta. Doveva esserci un altro motivo: magari era contrario al matrimonio, non voleva assumersi responsabilità. Però aveva già una certa età, avrebbe dovuto essere abbastanza maturo per accettarlo, a meno che non volesse per via dei suoi amici... La voce della madre interruppe le mie riflessioni. «Ho preparato del ghormeh sabzi per noi, oggi. Hamid va matto per il mio stufato e mi dispiaceva non farglielo assaggiare, così ve ne ho portato una pentola. Non credo che tu abbia avuto il tempo di pulire le verdure... ah, e il riso è già in cucina?» Scossi la testa. «Allora lo trovi in cantina: quando suo padre lo compra per noi ne prende anche qualche sacco per Hamid e la nonna. Stasera potresti preparare il kateh: Hamid detesta il riso bollito, lo preferisce cotto per assorbimento. E poi, dovendo partire domani sera abbiamo riportato a casa Bibi, la nonna, altrimenti l'avremmo tenuta con noi qualche altro giorno. Comunque non preoccuparti: è una brava vecchietta, non dà fastidio a nessuno ed è autonoma, ma tu vai a trovarla ogni tanto, e cucina anche per lei qualche volta... le farà piacere.»
In quel momento entrarono Manijeh e il padre. Mi alzai a salutarli. Il padre mi sorrise amorevolmente e mi guardò con calore. «Salam, figlia mia, come stai? Avevi ragione, moglie! È ancora più bella di come la ricordavo al matrimonio.»
«E guarda come ha sistemato questa casa in due soli giorni! Ha pulito e messo ordine dappertutto. Non potrà più trovare scuse, il nostro ragazzo...»
Anche Manijeh si guardò intorno sorpresa. «Ma scusa, quanto tempo hai avuto per sistemare tutto? Ieri avrete sicuramente dormito, e poi dovevate andare al Madarzan Salam... Vero, mamma, che il giorno dopo le nozze bisogna andare a salutare la madre della sposa?»
«Be', sì, non ci siete andati?»
«Veramente non lo sapevamo...»
Risero tutti. «Dovevo immaginarmelo: Hamid non capisce niente di queste tradizioni! E tu come avresti potuto? Ma adesso che lo sapete, dovete sbrigarvi ad andare dai tuoi genitori, vi staranno sicuramente aspettando con ansia.»
«E poi vi faranno un bel regalo. Vero, mamma? Vi ricordate che bella catena avete regalato a Bahman Khan per il Madarzan Salam di Mansureh?»
«Certo che me lo ricordo! Comunque, cara, anch'io voglio farti un regalo: cosa vuoi che ti porti dalla Mecca? Non fare complimenti, puoi chiedermi tutto quello che vuoi.»
Mi schermii ringraziandola. Poi mio suocero disse che era stanco e voleva andare a casa, era certo che Hamid non sarebbe tornato presto e comunque poteva andare a salutarli all'aeroporto l'indomani. Sua madre mi abbracciò e mi baciò commossa, pregandomi di amare Hamid con tutto il cuore e di badare a lui.
Quando se ne furono andati tirai un sospiro di sollievo. Lavai e misi a posto le tazze da tè e scesi in cantina a cercare il riso. Stavo morendo di fame. Bibi mi chiamò e io la salutai. Anche lei mi studiò dalla testa ai piedi prima di dirmi: «Salam a te, viso di luna! Inshallah che tu sia sempre fortunata, cara, e che riesca a sistemare anche il nostro ragazzo». Le chiesi le chiavi della cantina e se voleva un po' di riso, mi rispose che non cenava mai ma le sarebbe servito il pane il giorno dopo, se andavo a comprarlo anche per noi.
"Già, ma come faccio a comprare il pane se lo sconosciuto non torna? Non ho neanche un soldo!" pensai. Poi preparai la cena: morivo di fame, era dal matrimonio che non facevo un pasto decente. Mangiai da sola: dello sconosciuto neanche l'ombra, ed erano le dieci di sera. Lavai i piatti e misi in frigorifero il resto della cena, che sarebbe bastata per altri quattro pasti. Presi il libro e m'incamminai verso la camera da letto. Al contrario della sera precedente, mi addormentai subito.

12.

Mi svegliai alle otto: i miei orari di sonno e risveglio si stavano regolarizzando. Non avevo mai goduto di una pace così completa nella mia vecchia casa affollata e litigiosa! Mi rigirai un po' fra le lenzuola e mi alzai senza fretta, rifacendo il letto prima di uscire dalla stanza. Davanti al salotto mi paralizzai: lo sconosciuto era lì e dormiva profondamente su una coperta. Non mi ero accorta del suo ritorno durante la notte. Mi avvicinai con cautela: il suo corpo non era così grosso come mi era sembrato all'inizio. Un braccio gli copriva gli occhi e la fronte. Lunghi baffi nascondevano il labbro superiore e in parte anche quello inferiore. I capelli folti e ricci ricoprivano il piccolo cuscino. Aveva la pelle olivastra e sembrava alto. Che situazione buffa: stavo osservando mio marito e se lo avessi incrociato per strada non lo avrei nemmeno riconosciuto... Attenta a non fare rumore, mi lavai il viso e le mani, accesi il samovar, e pensai a come fare per comprare il pane. Mi venne un'idea: indossai il chador e uscii. Bibi stava riempiendo l'innaffiatoio con l'acqua dell'hoz. La salutai.
«Salam Arous Khanum!16  Quel pigrone di Hamid Khan non si è ancora svegliato?»
«No, sto uscendo a comprare il pane. Non avete già fatto colazione, vero?»
«No, mia cara, non ho fretta.»
«Dov'è la panetteria?»
«Vai a destra quando esci dal cancello e a sinistra in fondo alla strada e arrivi proprio davanti al negozio.»
Esitai. «Scusate... avete per caso qualche spicciolo? Non voglio svegliare Hamid, e ho paura che il panettiere non abbia il resto.»
«Certo cara, li trovi sulla mensola dell'ingresso, prendili pure.»
Quando tornai Hamid stava ancora dormendo, entrai in cucina, preparai il tè, e mentre stavo prendendo il panir in frigorifero lo vidi in piedi sulla soglia. Mi spaventai e senza pensarci esclamai: «Oh mamma! Vay!».
Lui alzò le mani in segno di resa. «No, ti prego, non impaurirti ogni volta che mi vedi! Non sono mica il demonio... Certo che mi butti giù il morale, non pensavo di essere così spaventoso!» Vedendomi scoppiare a ridere si rilassò e appoggiò le mani sugli stipiti della porta. «Bene, sembra che tu stia meglio, oggi.»
«Sì, grazie. Fra qualche minuto la colazione sarà pronta», risposi sorridendo.
«Ah, la colazione! E tutto pulito in giro! Mamma aveva proprio ragione quando diceva che se c'è una donna in casa, tutto è al suo posto. Spero solo di riuscire a ritrovare le mie cose. Non sono abituato all'ordine.» S'incamminò verso il bagno, per tornare dopo pochi minuti a chiedermi dove avessi messo gli asciugamani... e poi: «Perdonami, ma... come ti chiami?». Rimasi di sasso: non sapeva nemmeno il mio nome, eppure alla cerimonia l'avevano pronunciato anche troppe volte. Doveva proprio essergli indifferente, oppure era così assorto nei suoi pensieri da non averlo sentito o forse l'aveva già dimenticato! Gli risposi con freddezza.
«Ah, già! Masumeh o Masum?»
«Non fa differenza; comunque tutti mi chiamano Masum.» Mi guardò più attentamente il viso e commentò che quel nome mi si addiceva alla perfezione... Sentii una stretta al cuore. Anche lui aveva detto la stessa cosa, ma non si potevano certo paragonare l'amore e la gentilezza dell'uno con l'indifferenza dell'altro. Lui si ripeteva il mio nome nella mente mille volte al giorno... Gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Portai l'occorrente per la colazione in soggiorno e stesi il soffreh. Lo sconosciuto arrivò con i capelli ricci bagnati sistemandosi l'asciugamano sulle spalle. I suoi occhi neri erano dolci, buoni e sorridenti. La mia paura di lui era svanita.
«Caspita, che colazione! Abbiamo anche il pane fresco... Un altro degli aspetti positivi di avere una moglie!» Capii che stava dicendo quelle cose per gentilezza, per farsi perdonare di non essersi ricordato il mio nome. Gli porsi una tazza di tè. Si sedette a gambe incrociate e mentre spalmava il panir sul pane mi chiese di raccontargli perché avevo avuto tanta paura di lui. Risposi che non era colpa sua: avrei avuto la stessa paura di qualsiasi altro uomo... tranne che di Saeid, ma tenni per me l'ultimo pensiero.
«Perché allora mi hai sposato?»
«Veramente mi hanno costretta, perché secondo la mia famiglia era giunto il momento di sposarmi. Io non ero d'accordo, avrei voluto continuare a studiare.»
«Allora perché non hai proseguito gli studi? Sei ancora così giovane...»
«Dicevano che per una ragazza il diploma di sesta elementare è più che sufficiente, e poi negli ultimi anni sono riuscita a studiare solo perché ho lottato e supplicato!»
«Mi stai dicendo che ti hanno costretta a sederti al tavolo nuziale e non ti hanno lasciato frequentare la scuola anche se era un tuo diritto? Perché non ti sei ribellata? Perché non hai disobbedito? Perché non ti sei sottratta a un matrimonio che non volevi?» Il suo colorito si era lievemente acceso. «Dovevi combattere per ottenere ciò cui avevi diritto anche a costo di soffrire. Se non ci si arrendesse alla prepotenza, i prepotenti non esisterebbero... e invece il mondo ne è pieno! Sono proprio l'arrendevolezza e la debolezza a rafforzare le fondamenta dell'oppressione!»
Lo guardai stupefatta: era lontano dalla verità, non poteva sapere cosa avevo subito prima di arrendermi... Replicai che a quanto mi risultava anche lui si era arreso alla prepotenza. Lo dissi con un sorriso beffardo e in tono di sfida. Rimase di stucco e si zittì, non capiva come facessi a sapere che si era lasciato convincere a sposarsi.
«Be', non sembravate impaziente di arrivare al matrimonio...» dissi. «Povera vostra madre che ha dovuto faticare e disperarsi prima che voi prendeste moglie!»
«Ah, ecco da chi l'hai saputo. In effetti è la verità, hai ragione, anch'io sono stato costretto. La prepotenza non consiste sempre in tormento e botte. A volte si serve dell'amore e della gentilezza, e ti lega mani e piedi, ma quando ho deciso di accettare di prendere moglie per la felicità di mamma, non pensavo certo che una ragazza mi avrebbe sposato perché era obbligata a farlo.»
Per un po' mangiammo in silenzio. Poi Hamid prese la tazza di tè, si appoggiò a un cuscino e rise. «La presenza di spirito non ti manca: al momento giusto mi hai messo a tacere! Brava, hai fatto bene.»
Risi anch'io. Allora mi spiegò la sua posizione.
«Sai perché non volevo sposarmi? Perché una persona sposata non ha vita propria, si ritrova impegnata e legata e non può più pensare ai suoi ideali. Si dice che quando un uomo prende moglie si ferma, quando nasce il primo figlio cade in ginocchio, con il secondo si piega e con il terzo sparisce. Questo è ciò che avviene nei matrimoni tradizionali. Sarebbe diverso solo sposando un'amica che nutre le tue stesse convinzioni. Ammetto che non mi dispiace affatto trovare la colazione pronta la mattina, la casa pulita e in ordine e i panni lavati, ma questo deriva dall'egoismo degli uomini e dall'educazione sbagliata fondata sul maschilismo. Io sono convinto che non bisogna pensare alla donna in questi termini. Secondo me le donne sono fra gli esseri umani più sfruttati della storia. I primi a essere soggiogati da altri esseri umani, considerati alla stregua di oggetti... e purtroppo è ancora così.»
Nonostante fosse la prima volta che sentivo qualcuno parlare in modo così complesso e alcune parole non mi fossero del tutto chiare, il tono del suo discorso mi piacque molto e la frase sullo sfruttamento delle donne mi rimase scolpita in testa. Gli chiesi perché non avesse sposato una donna che la pensava come lui, che aveva i suoi stessi gusti e le medesime opinioni: volevo sapere se anche lui era innamorato di un'altra...
«Le ragazze del nostro gruppo non si sposano facilmente, anche loro sono impegnate a inseguire i loro ideali, e poi mia madre odia tutti i membri del gruppo. Ha persino minacciato di uccidersi se avessi sposato una di loro! Ma non devi pensare che fossi innamorato di una ragazza e che mia madre non abbia acconsentito, solo avrei preferito sposare una di noi in modo che il matrimonio non fosse d'ostacolo al nostro lavoro. Ma mia madre deve avermi letto nel pensiero!»
Gli chiesi cosa significava «una di noi» e cos'era quel «gruppo» di cui parlava con tanto entusiasmo.
«Non è un gruppo particolare, non ha un nome che lo identifichi, si tratta solo di persone che si riuniscono per discutere di cose importanti, che agiscono per il bene comune. Tutti noi abbiamo idee e obiettivi durante la nostra vita e cerchiamo di perseguirli. Anche tu avrai una direzione nella quale vorresti muoverti. Non penso che tu voglia passare il resto dei tuoi giorni a far risplendere questa casa... Prima mi hai detto che volevi studiare; allora fallo, ricomincia i tuoi studi, non venire meno a te stessa!»
«Ma chi si sposa non viene più ammesso a scuola!»
«Vuoi dirmi che non sai che ci sono altri modi per studiare? Potresti seguire dei corsi serali, studiare a casa e poi dare gli esami. Non è necessario frequentare.»
«Lo so. Ma per voi non ci sarebbe nessun problema se io ricominciassi a studiare?»
«E perché mai? Anzi, sarebbe fantastico: preferisco di gran lunga condividere la mia vita con una persona colta e istruita, e poi è un tuo diritto. Chi sono io per proibirtelo? Sono tuo marito, non il tuo secondino!»
Rimasi di stucco... non riuscivo a credere alle mie orecchie! Chi era veramente Hamid? Era talmente diverso da tutti gli uomini che avevo conosciuto fino a quel momento. Una luce della stessa intensità del sole si era accesa nella mia vita. Con il filo di voce che mi era rimasto gli chiesi se ne era sicuro, se non stava scherzando, se stava dicendo la verità. Non aveva idea di ciò che significava per me poter riprendere a studiare.
La mia reazione lo fece sorridere, ma mi ripeté pazientemente che ne era assolutamente certo e non sarebbe mai venuto meno alle sue promesse. E poi era un mio diritto, non dovevo nemmeno ringraziarlo... Per lui ogni persona doveva avere la possibilità di fare ciò che desiderava e che credeva giusto fare. Sposarsi non significava soffocare le aspirazioni di chi ci stava accanto, ma aiutarlo e sostenerlo, non ero d'accordo?
Assentii con tutta me stessa: non potevo che dargli ragione e poi avevo capito benissimo ciò che intendeva dire: anch'io non dovevo essere d'intralcio alle sue aspirazioni. Da quel momento il tacito accordo appena concluso divenne la legge non scritta della nostra vita. Una legge che mi concedeva i diritti che a lungo mi erano stati negati, anche se non era di certo solo nel mio interesse.
Quel giorno non andò al lavoro e naturalmente non gliene chiesi il motivo. Per pranzo ci recammo a casa dei suoi genitori, che quella sera stessa sarebbero partiti. Per vestirmi rimasi a lungo in camera da letto perché non sapevo cosa mettermi. Infine decisi per il rusari, ma quando uscii dalla camera, Hamid mi lanciò un'occhiataccia. «E quello cos'è?» mi chiese. Gli dissi che mio padre mi aveva dato il permesso di portarlo, ma se a lui non piaceva potevo indossare il chador... «Oh no! È fin troppo anche quello. Devi vestirti come sei più comoda, l'importante è che tu ti senta a tuo agio: anche questo è un tuo diritto!»
Mi sentii felice per la prima volta dopo tanto tempo: avevo la certezza di un appoggio sicuro, l'impagabile sensazione di poter inseguire i sogni che fino a poche ore prima mi erano sembrati irrealizzabili.
Passeggiavamo l'una accanto all'altro e mi sentivo leggera. Chiacchieravamo, soprattutto lui. A volte le sue parole erano difficili e i suoi ragionamenti filosofici, a volte sembrava un insegnante alle prese con l'ultimo della classe, ma io non mi offendevo, anzi, per me era un piacere ascoltarlo. Era davvero colto e io non potevo competere con lui né per esperienza né per istruzione. Lo ascoltavo rapita e godevo del nostro rapporto.
A casa dei suoi fummo circondati da tutti. Era venuta da Tabriz anche la sorella maggiore, Monir Khanum, con i suoi due maschietti che sembravano un po' spaesati e per la maggior parte del tempo parlarono fra loro in turco. La stessa Monir Khanum era diversa dalle altre due sorelle. Sembrava molto più vecchia e secondo me assomigliava più alle zie che alle sue stesse sorelle. Vedere me e Hamid stare bene insieme e parlare con complicità li rendeva tutti molto felici.
Lui scherzava con le sorelle e la madre, faceva battute e le baciava addirittura! La cosa mi faceva sorridere e mi scioccava allo stesso tempo. A casa nostra gli uomini non parlavano molto con le donne della famiglia, figuriamoci ridere e scherzare o scambiarsi effusioni. Mi piacque molto l'ambiente caldo e l'atmosfera serena della loro casa. Ardeshir, il figlio di Mansureh che ancora gattonava, era molto tenero e si gettava fra le mie braccia senza esitazioni né imbarazzo: per me era una sensazione molto dolce e ridevo di cuore. Sua madre fu felice di vedermi allegra, fino a quell'occasione non avevo mai nemmeno sorriso davanti a loro. E Mansureh mi disse che ero ancora più bella quando ridevo con le fossette sulle guance: se fosse stata in me avrebbe riso sempre, lo giurava su Dio!
Arrossii e abbassai la testa, ma Mansureh continuò: «Allora fratello, sei soddisfatto? Hai visto che bella ragazza ti abbiamo trovato? Dovresti ringraziarci!».
Hamid ringraziò ripetutamente, divertendosi e Manijeh, la sorellina più piccola, si imbronciò e uscì dalla stanza. La madre mi disse di non farci caso: era gelosa perché era sempre stata una principessina per il fratello maggiore e adesso si sentiva detronizzata... ma lei era molto felice, e ora che ci vedeva stare bene insieme poteva mettersi finalmente l'animo in pace e partire tranquilla per adempiere al suo voto nella casa del Signore.
In quel momento arrivò il padre e ci alzammo tutti per salutarlo. Lui baciò me e Hamid sulla fronte e io arrossii. Con dolcezza e benevolenza mi chiese come stavo. «Allora, ti ha dato fastidio il mio ragazzo? Ricordati che se mai un giorno dovesse accadere, dovrai correre subito da me, gli tirerò le orecchie così forte da fargli passare la voglia di farti arrabbiare!» e con fare scherzoso compì quanto annunciato.
Hamid rise. «Non fatelo più papà: ce le avete tirate così tanto quando eravamo piccoli che sono lunghe come quelle degli asini!»
Al momento dei saluti la madre mi prese da parte e abbassando il tono della voce mi raccomandò di impormi con il figlio al più presto; senza litigare, con il buonumore e la pazienza. Ero una donna attraente, avrei trovato il modo giusto per legarlo a me... per impedirgli di tornare a casa nel cuore della notte e mandarlo a lavorare puntuale. Dovevo fare in modo che dimenticasse gli amici, che li tagliasse fuori dalla nostra vita. Inshallah, dovevo restare incinta presto e avere tanti bambini: i figli lo avrebbero tenuto occupato e avrebbe smesso di frequentare quella gente e di pensare a tutte quelle stupidaggini. Dovevo mettere in campo tutta la mia abilità...
Al ritorno Hamid mi chiese cosa mi aveva detto sua madre. Ero imbarazzata: gli riferii che mi aveva solo chiesto di prendermi cura di lui, ma intuì subito che c'era dell'altro.
«Già, prenderti cura di me in modo da non farmi più frequentare i miei amici, immagino... E tu cosa le hai risposto?»
Gli dissi che non avevo dato risposte, mi ero limitata ad ascoltarla.
«Avresti dovuto ribatterle che non sei il mio secondino, che non mi hai sposato per rendermi la vita insopportabile!»
«E secondo voi avrei potuto rispondere così a mia suocera alla nostra prima conversazione?»
«Queste donne all'antica sono solo un danno per il matrimonio. Non riescono a comprenderne il vero significato, vedono la donna come una catena per legare i piedi e le mani del marito, mentre il matrimonio dovrebbe significare appoggio reciproco, un cammino insieme, comprensione dei desideri dell'altro e parità di diritti! Non sopporto quelle donne stupide che continuano a chiedere al marito: "Dov'eri? Con chi eri? Perché sei arrivato tardi?". L'uomo e la donna devono avere ruoli paritari e nessuno ha il diritto di mettere alle strette l'altro facendogli fare cose che non vuole fare o nelle quali non crede! Non sembra anche a te?»
Aveva ragione e io feci tesoro di quelle parole e della loro saggezza. Allo stesso tempo recepii perfettamente il messaggio che Hamid mi aveva trasmesso. Non avrei mai dovuto fargli domande. Ma dopotutto in quel momento non me ne importava granché, che differenza avrebbe fatto per me? E poi lui era il più vecchio, saggio ed esperto fra noi: era naturale che sapesse meglio di me come si doveva vivere. Il fatto che attribuisse alle donne diritti pari a quelli degli uomini, che le rispettasse e che mi permettesse di studiare e fare ciò che mi piaceva era una grande, inaspettata conquista per me: cos'altro potevo volere?
Arrivammo a casa tardi. Senza parlare Hamid prese il cuscino e la coperta e cominciò a prepararsi per andare a dormire. Ero a disagio, non sapevo cosa fare, non mi sembrava giusto dormire sul letto e far dormire per terra lui che si era dimostrato così buono e rispettoso nei miei confronti. Alla fine mi decisi a dirgli che avrei dormito io sulla coperta e gli avrei lasciato il suo letto, ma non volle accettare.
Andai in camera da letto immersa nei miei pensieri. Per quanto tempo avrei potuto vivere in quel modo? Dal punto di vista sentimentale ero confusa e disorientata. Non provavo attrazione amorosa o desiderio nei confronti di Hamid, ma mi sentivo in debito verso di lui. Mi aveva sottratto a una casa dove era diventato un tormento vivere e voleva rendermi felice lasciandomi continuare i miei studi. Era un grande dono per me, e poi la repulsione che avevo provato la sera del matrimonio al solo pensiero che le sue mani mi toccassero era svanita.
Tornai in salotto, lo guardai negli occhi e gli dissi che doveva dormire al suo posto, nel suo letto. Il suo sguardo penetrante e curioso si soffermò su di me per qualche istante, poi mio marito mi tese la mano con un mezzo sorriso perché lo aiutassi ad alzarsi e venne a prendere il posto che gli spettava accanto a me. Dopo che fummo stati insieme, quella notte, lui sprofondò in un sonno profondo, mentre io piansi per ore in giro per la casa. Non capivo cosa mi stava succedendo, non riuscivo a pensare con lucidità. Provavo solo una strana, acuta nostalgia.

Qualche giorno dopo venne a trovarmi Parvin Khanum. Era emozionata. Mi aveva aspettata, ma non riusciva più a resistere senza sapere come stavo, come si comportava mio marito, cos'era successo la prima notte di nozze... Le raccontai tutto.
«Sapevo che era un bravo ragazzo e di buona famiglia, ma da quello che mi dici mi sembra una persona splendida... sia ringraziato Dio, non hai idea di quanto sia stata in pensiero. Se fossi diventata la moglie di Asghar il macellaio, Dio solo sa quello che ti avrebbe fatto!»
«Sì, ti sono debitrice, mi sto rendendo conto soltanto ora dell'enorme favore che mi hai fatto...»
Parvin si schermì. Il merito era mio che ero piaciuta alla famiglia di Hamid, ed era stata la mia più grande fortuna, lei non aveva mai avuto un'occasione d'oro come quella.
Mi stupii, pensavo che anche suo marito Haj Agha l'avesse sempre trattata bene.
«Be', tu lo vedi adesso, adesso che è invecchiato, ha perso tutti i capelli e sta male. Non hai idea del lupo che è stato... non puoi nemmeno immaginare come mi ha aggredita la prima notte di nozze, mentre io tremavo e piangevo... non sai quante botte mi ha dato. Allora era ricco, potente, aveva un sacco di amici e pensava di non dover rendere conto nemmeno a Dio delle sue azioni. Era convinto che fosse colpa delle sue donne se non aveva ancora avuto un erede. Mi ha fatto delle cose che non oso nemmeno dire. Quando sentivo la porta che si apriva e capivo che stava rientrando cominciavo a tremare dalla testa ai piedi: ero ancora una bambina e mi spaventava a morte... ma quando alla fine si ritrovò sul lastrico e perse amici e potere e i medici gli dissero che il problema era suo e non avrebbe mai potuto avere figli, scoppiò come un pallone troppo gonfio e crollò. All'improvviso sembrò invecchiato di vent'anni e tutti lo abbandonarono, mentre io ero cresciuta e diventata più forte. Riuscivo a tenergli testa, a rispondergli per le rime, non avevo più paura di lui. Lui sì che ne aveva, invece, e ne ha ancora: paura di perdermi... ecco perché non mi tormenta più e mi lascia in pace. Adesso è arrivato il mio momento, ma nessuno mi può restituire la salute e la giovinezza che mio marito mi ha portato via.»
Cadde il silenzio. Scosse la testa come per allontanare gli spettri del passato e ricominciò a parlare di me. Perché non ero più andata a trovare i miei genitori? Erano in ansia, mi stavano aspettando. Ma io non volevo nemmeno sentirli nominare: mi avevano fatto del male, cacciato da casa, obbligato a sposarmi... non sarei andata da loro, non avrei più rimesso piede in quella casa!

13.

Passarono più di tre settimane, poi una mattina suonarono alla porta. Non aspettavo nessuno, del resto nessuno veniva mai a trovarmi... Aprii la porta: Khanum Jun e Parvin Khanum erano in piedi di fronte a me. Rimasi di sasso, ma mi ricomposi subito e accennai un freddo salam Khanum.
Per prima parlò Parvin Khanum. Mi rimproverò di non essermi più fatta vedere e disse che mia madre era così triste che aveva deciso di accompagnarla da me.
«Dov'eri finita figlia mia? Stavo morendo per la preoccupazione! Sono tre settimane che ti aspettiamo, che non abbiamo tue notizie. Ti sei dimenticata di avere un padre e una madre? E poi ci sono delle regole da rispettare...»
Ero sul piede di guerra, ma le feci entrare. Mentre saliva le scale Khanum Jun continuò a borbottare: «Il giorno dopo il matrimonio siamo rimasti svegli fino a tardi aspettando che nostro genero venisse a trovarci e di lui neanche l'ombra! Mi sono detta: "Forse verranno domani, forse questo venerdì, o magari il prossimo o quello dopo ancora...", ma ogni settimana passava senza vostre notizie. Avevo paura che ti fosse successo qualcosa! Come si può andarsene dalla casa del padre e non guardarsi più indietro? Si hanno dei doveri nei confronti dei genitori».
A quelle parole non riuscii più a trattenermi e riversai su mia madre la rabbia e il rancore covati per tanto tempo. «Quali doveri? Per cosa dovrei esservi grata? Per avermi messa al mondo? Non ve l'ho chiesto io. L'avete fatto solo per il vostro piacere... e quando avete saputo che ero una femmina ve ne siete pentiti. Cos'avete fatto per me? Vi ho supplicato di farmi studiare, di non mandarmi via, di non farmi sposare e voi come avete risposto alle mie suppliche?
Mi avete picchiata a sangue e tenuta prigioniera per mesi e ho rischiato di morire!»
Khanum Jun piangeva scossa dai singhiozzi. Parvin Khanum mi guardava terrorizzata e con la mano mi faceva segno di tacere, ma non riuscivo più a fermarmi.
«Mi avete sempre detto che una ragazza è degli altri ed eravate così decisi a sbarazzarvi di me che addirittura non vi importava a chi mi avreste data... Proprio voi, madre, mi avete trascinato per i capelli per cacciarmi dalla vostra casa. Proprio voi continuavate a dire che dovevo sbrigarmi ad andarmene in modo che Mahmud potesse portare a casa sua moglie. Bene, vi ho accontentato, me ne sono andata, sono diventata di un altro e ora vi aspettate che venga a riverirvi? Avete una bella faccia tosta!»
«Smettila Masum, vergognati! Ma cosa stai dicendo? Hai visto come soffre questa povera donna? Sono i tuoi genitori... hanno faticato per farti crescere. Pensi di essere arrivata da sola a quello che sei oggi? Non ti vuole forse un gran bene il tuo Agha Jun? Non voleva il meglio e non ha sofferto per te? Sono testimone che quando eri malata tua madre ha vegliato accanto a te giorno e notte, versando fiumi di lacrime e facendo voti per la tua guarigione. Tutti i genitori, anche i peggiori, meritano la riconoscenza dei figli. E poi loro ti vogliono veramente molto bene. Quando io mi sono sposata e me ne sono andata, nessuno si sarebbe preoccupato per me nemmeno se non mi fossi fatta vedere per cent'anni... Dio punisce chi non rispetta i genitori!»
Mi sentii improvvisamente di nuovo calma, come se mi fossi alleggerita di un peso che mi aveva oppresso per tanto tempo: avevo sfogato l'odio e la rabbia rimasti a lungo chiusi dentro di me ad alimentare il mio dolore e ora le lacrime di Khanum Jun lenivano finalmente la mia ferita.
«Terrò conto dei miei doveri di figlia al momento opportuno, state tranquilli», dissi quietamente, «e se avrete bisogno di me vi aiuterò, ma non chiedetemi di dimenticare ciò che mi avete fatto.»
Il pianto di Khanum Jun si fece più forte. Mi disse che si sarebbe tagliata la mano che mi aveva trascinata per i capelli, che cento volte al giorno si pentiva di avermi picchiata, ma l'aveva fatto per me, perché i miei fratelli minacciavano di farmi a pezzi se non mi fossi presentata al matrimonio. E Agha Jun soffriva di cuore per me e il giorno del matrimonio era in piedi solo grazie alle pillole... non mi ero accorta di quant'era pallido e angosciato? Anche lei aveva il cuore a pezzi ma non aveva potuto fare nient'altro. Non che non volesse farmi sposare, anzi... pregava Dio senza sosta perché una brava persona mi prendesse per mano e mi salvasse da quella casa. Era preoccupata per me che deperivo giorno dopo giorno in quella prigione e vedermi in quello stato le straziava il cuore...
Sentii il calore sincero delle sue parole, l'amore che le dettava, e il ghiaccio che mi avvolgeva il cuore cominciò a sciogliersi... Le dissi di non piangere più e cambiammo discorso per non commuoverci tutte. Parvin Khanum mi fece i complimenti per l'ordine e la pulizia della mia nuova casa e io la ringraziai per il letto e l'armadio che aveva scelto e per tutto quello che aveva fatto per me. Mia madre aggiunse che anche loro le erano riconoscenti perché si era data un gran daffare per la nostra famiglia.
Parvin Khanum si schermì. «Vi prego non dite così, mi fate arrossire! Ma quale gran daffare, Khanum Jun? Mi sono divertita, è stato un piacere per me... e poi Agha Jun non diceva mai di no: ogni cosa che sceglievo andava bene, avrebbe accettato anche di comprare il servizio dello scià per la sua Masum. È chiaro che il tuo Agha ti vuole un mondo di bene! Ahmad mi riprendeva continuamente perché gli stavo facendo spendere troppi soldi, ma tuo padre voleva il meglio per te e mi diceva: "Voglio che sia onorata e che possa entrare nella casa del marito a testa alta, con una dote degna di lei".»
Khanum Jun stava singhiozzando di nuovo. Io sospirai e le chiesi notizie di mio padre. Si asciugò gli occhi con i lembi del rusari e mi disse che purtroppo non stava bene. Era triste, a casa non parlava più con nessuno e aveva ricominciato a fumare una sigaretta dietro l'altra anche se non la smetteva di tossire... Lei aveva paura che gli succedesse qualcosa. Mi pregò di andarlo a trovare prima che fosse troppo tardi: non mi sarei mai perdonata di non averlo fatto in tempo. La rassicurai che le avrei fatto visita quella settimana stessa, appena Hamid avesse avuto un po' di tempo, e se lui non avesse potuto ci sarei andata da sola.

Hamid mi fece chiaramente intendere di non avere né il tempo né la voglia di accompagnarmi dai miei genitori e mi incoraggiò con insistenza a crearmi una vita sociale indipendente da lui. Mi scrisse i numeri di linea degli autobus e i loro tragitti e mi insegnò come prendere il taxi. Fu così che qualche giorno dopo, in un pomeriggio caldo e afoso di fine Mordad, il quinto mese del calendario iraniano, sapendo che Hamid la sera non sarebbe tornato, mi vestii e andai a casa dei miei. Era strano: quella casa era presto diventata la loro casa e non era più la mia... anche le altre ragazze si estraniavano così in fretta dall'abitazione paterna? Era la prima volta che uscivo da sola e facevo una strada relativamente lunga in autobus. Anche se ero un po' spaventata, mi piaceva quella nuova libertà, quel nuovo senso d'indipendenza. Mi sentivo grande e di carattere. Quando giunsi nel nostro quartiere, dentro di me si agitavano sentimenti contrastanti. Il ricordo di Saeid mi strinse il cuore e passando davanti alla casa di Parvaneh mi pervase la nostalgia. Affrettai il passo per paura di essere sopraffatta dalle lacrime, ma mentre mi avvicinavo a casa mi sentii oppressa: temevo quell'incontro e non avevo affatto voglia di vedere la gente del quartiere.
Il benvenuto caloroso di Fati che mi saltò al collo piangendo a dirotto mi fece spuntare le lacrime agli occhi: mi supplicò di tornare a casa o di portare anche lei con me. Ali non si mosse dal suo posto, ma urlò a Fati che smettesse di piangere e gli andasse a prendere i calzini... Ahmad tornò al tramonto, già ubriaco, mi guardò disorientato e se ne andò. Mahmud bofonchiò una risposta al mio saluto e salì le scale scuro in volto.
«Visto, Khanum Jun, che non dovevo venire? Anche se venissi solo una volta all'anno i miei fratelli se ne avrebbero a male.» Ma mia madre mi disse che Mahmud aveva il volto scuro per ben altri motivi ed era una settimana che non rivolgeva la parola a nessuno. Voleva chiedere Mahbubeh in sposa, avevano comprato dolci e fiori ed erano andati a Qum a casa della zia, ma c'era appena stato il baleh burun di Mahbubeh e loro non li avevano nemmeno avvisati per vendicarsi di non essere stati invitati al mio matrimonio. A mia madre non importava, era sempre stata contraria a quell'unione... ma Mahmud era avvilito e disperato.
Un sentimento di gioia e di rivalsa mi inondò il cuore: che bella soddisfazione prendersi una rivincita! Mi rimproverai subito per i pensieri cattivi, ma non potevo fare a meno di dirmi che era giusto così, doveva stare male come ero stata io... Mia madre non si accorse di ciò che mi passava per la mente perché era tutta presa dallo sfogo contro i parenti di Qum. «Dovevi sentire come si vantava del genero tua zia! Continuava a ripetere che è figlio di un ayatollah, ma ha anche frequentato l'università ed è un uomo all'avanguardia, al passo con i tempi, ricco, pieno di possedimenti e di servi... Povero il mio Mahmud, è diventato paonazzo e ho temuto che si sentisse male, e come se non bastasse ci hanno detto che per il matrimonio di Mahbubeh faranno una festa lunga sette giorni e sette notti perché "I genitori devono dare in sposa la propria figlia con orgoglio e mostrandolo al mondo intero, non di nascosto..." e altre cattiverie come questa.»
Quando Agha Jun rientrò ero nel soggiorno. Mi alzai e mi misi contro il muro per non farmi subito vedere, lui appoggiò una mano alla porta e accavallando una gamba sul ginocchio dell'altra si slacciò le scarpe. Con voce quieta dissi salam. Si girò di scatto in cerca della mia voce, io avanzai alla luce e per qualche istante rimase immobile a guardarmi con un sorriso pieno di amore e meraviglia, poi tornò in sé, e a voce alta mi apostrofò: «Finalmente ti sei ricordata di noi!». Gli risposi che pensavo spesso a lui, ma scosse la testa con uno sguardo di rimprovero e di risentimento. «Non credevo che fossi così irriconoscente.» Sentii un nodo in gola. A cena però mi riempì di domande, non la smetteva di parlare in tono concitato: non l'avevo mai visto così loquace! Voleva sapere tutto della mia nuova vita, anche cosa davo da mangiare a mio marito per pranzo e cena e faceva lo spiritoso: «Ho sentito che vuole denunciarti per come cucini...». Risposi ridendo: «Ma chi, Hamid? Quel poveretto non si lamenta mai del cibo... mangia qualsiasi cosa gli metto davanti. E spesso mi dice che non dovrei sprecare il mio tempo ai fornelli!».
«E cosa dovresti fare allora?»
«Dice che dovrei continuare i miei studi...»
Calò il silenzio, tutti mi guardarono con gli occhi fuori dalle orbite. Quelli di Agha Jun si illuminarono per un attimo... Mia madre bofonchiò qualcosa sugli impegni di casa. Allora continuai: «Con le faccende domestiche me la cavo, posso provvedere tranquillamente a tutto. E poi Hamid dice che non gli importa granché di pranzi e cene o delle condizioni della casa, è convinto che io debba fare quello che più mi piace e soprattutto studiare, che secondo lui è la cosa più urgente e importante...». Ero in attesa dei loro commenti.
Mahmud per fortuna non era sceso per la cena. Ali intervenne subito: «Tanto non ti riammetteranno a scuola».
Ma io ero preparata a quell'obiezione. «Invece sì, sono già andata a informarmi: frequenterò le classi serali e darò gli esami studiando da privatista. Forse per la fine di Shahrivar riuscirò a recuperare tutto, anzi, ricordatemi di portare via i miei libri, per favore.»
Agha Jun era felice: «Sia ringraziato Dio», commentò, poi mi confidò che aveva raccolto lui tutti i miei libri in una sacca e li aveva messi in cantina, e ordinò ad Ali di andarmeli a prendere. Khanum Jun lo guardò stupita. Ali rispose rabbiosamente che anch'io avevo le gambe per andarci e Agha Jun reagì con una veemenza che non conoscevo. «Zitto! Non voglio più sentirti rivolgere a tua sorella in questo modo. Se ti azzardi a farlo ancora, ti giro la faccia con uno schiaffo come non ne hai mai presi.»
Lo fissammo ammutoliti mentre Ali, sconfitto e offeso, si avviava verso la porta. Fati si strinse a me e rise di nascosto, soddisfatta. Al momento dei saluti Agha Jun mi accompagnò alla porta e mi chiese sottovoce di tornare presto.

14.

Per quell'anno era troppo tardi per frequentare i corsi serali e dare gli esami arretrati, perciò mi iscrissi ai corsi che sarebbero cominciati in autunno e ne aspettai l'inizio con impazienza ed entusiasmo.
Durante l'attesa dedicai la maggior parte del tempo libero alla lettura: la casa era piena di libri di vari generi e io li affrontai tutti... cominciai dai romanzi, passai alle raccolte di poesia, poi agli impegnativi tomi di filosofia e infine lessi persino i libri universitari di Hamid, perché non avevo nient'altro da fare. Leggere era piacevole e mi teneva impegnata, ma non bastava a riempire la mia vita solitaria, perché Hamid tornava sempre tardi la sera e a volte spariva per giorni interi.
I primi tempi preparavo la cena e rimanevo ad aspettarlo. Mi capitò più volte di addormentarmi accanto al soffreh, ma nonostante ciò perseveravo perché odiavo mangiare da sola.
Una volta, rientrando verso mezzanotte, Hamid mi sorprese addormentata accanto al soffreh, mi svegliò e mi apostrofò infastidito: «Non hai niente di meglio da fare che perdere il tuo tempo a cucinare?».
Spaventata da quel brusco risveglio e amareggiata dalle sue parole, mi misi a letto e soffocai il pianto nel cuscino prima di riaddormentarmi.
La mattina dopo mi affrontò come se si rivolgesse a un pubblico ignorante e arretrato e criticò per l'ennesima volta il ruolo della donna che io incarnavo, dicendomi con rabbia di non pensare di poterlo controllare e far prigioniero con i metodi subdoli e i ricatti affettivi delle donne tradizionali analfabete e sfruttate.
Ero affranta per quelle accuse ingiuste. «Non avevo alcuna intenzione del genere», mi difesi, «è solo che mi sono stufata dei pomeriggi passati da sola, vorrei almeno cenare in compagnia... E poi, visto che mangi fuori anche a pranzo, pensavo di farti un favore facendoti trovare un piatto caldo e gustoso la sera! Dopotutto siamo marito e moglie, e anche se non siamo innamorati l'uno dell'altra, possiamo essere amici. Mi piacerebbe passare del tempo con te, sentire un'altra voce oltre alla mia in casa di tanto in tanto, e tu potresti insegnarmi delle cose... Poi, che tu mangiassi almeno un pasto decente al giorno era una delle richieste di tua madre che era tanto preoccupata per te...»
«A-ha, ti sei tradita! Ci avrei scommesso che c'era lo zampino di mamma in tutta questa faccenda. Lo so, non è colpa tua, è opera di mia madre, tu hai acconsentito sin dal primo giorno a non essermi d'intralcio e a non ostacolare in alcun modo la mia vita e i miei obiettivi. Quindi riferisci da parte mia alla mamma che non deve preoccuparsi tanto per la mia alimentazione! Le sere in cui ci riuniamo in assemblea, qualcuno dei compagni pensa a cucinare. E devo dire che non se la cavano poi tanto male.»
Dopo quella volta non rimasi più ad aspettarlo la sera. Lui condivideva la sua vita con quei «compagni» invisibili anziché con me, amici che io non conoscevo e di cui non sapevo che aspetto avessero, cosa pensassero e quali fossero gli «ideali» tanto sbandierati. Avevo soltanto capito che la loro influenza su Hamid era ben più forte della mia o di quella della sua stessa famiglia.
Con l'inizio dei corsi, la mia vita trovò un nuovo equilibrio. Passavo la maggior parte del tempo studiando ma soffrivo ancora per la solitudine e il vuoto della mia vita, specialmente nel buio precoce delle lunghe e fredde notti d'autunno, al quale si aggiungeva il silenzio che ormai mi faceva impazzire. La nostra vita coniugale andava avanti nel modo più piatto possibile: niente litigi, nessuna discussione, solo qualche sporadico scambio di idee quando Hamid si degnava di tornare a casa a un'ora decente. L'unica distrazione era di venerdì, giorno in cui Hamid faceva il possibile per andare a trovare i genitori. Io mi accontentavo anche di quei momenti per stare un po' insieme a lui e fare qualcosa di diverso, e in quelle occasioni mi ero resa conto che il mio rusari non gli piaceva affatto, anzi, gli dava fastidio che gli camminassi accanto con la testa coperta. Allora non lo indossai più, nella speranza che mi portasse fuori più spesso, ma i suoi compagni assorbivano tutto il suo tempo e io non avevo il coraggio di chiedergli di loro a causa di quella sua strana reticenza anche solo a menzionarli.
La mia unica compagnia era Bibi, la nonna, di cui dovevo prendermi cura. Era una donna dolce e tranquilla, ma ancora più sorda di quanto mi era parso all'inizio: quando volevo raccontarle qualcosa, dovevo urlare così forte che a volte rinunciavo. Ogni mattina mi chiedeva se Hamid era tornato presto e io le rispondevo di sì. Lei si sorprendeva, ma ci credeva e sembrava non stupirsi di non vedere mai il nipote. Oltre a non sentire, aveva problemi agli occhi e dovevo raccontarle tutto ciò che accadeva intorno a lei, facendo l'impossibile per farmi udire. Quando però era di buonumore, mi raccontava del suo passato e di suo marito Haj Agha, un brav'uomo che aveva lasciato un grande vuoto nella sua vita - «Da quando se n'è andato, anche d'estate sento freddo al cuore...» -, dei suoi figli che la venivano a trovare poco perché avevano vite troppo impegnate e delle birbonate del padre di Hamid da piccolo, il maggiore e preferito dei suoi figli. Mi parlava anche di persone che non conoscevo e che erano per lo più morte da tempo. Dava l'impressione di essere stata molto felice da giovane, mentre ormai, benché non fosse così vecchia, sembrava esserle rimasta solo l'attesa della morte, e la cosa più strana era che anche i suoi figli non aspettavano altro per lei... Non ne parlavano e non mostravano indifferenza nei suoi confronti, ma c'era un non so che nel loro modo di fare che lo lasciava intuire.
La solitudine fu il pretesto per riprendere la mia vecchia abitudine di parlarmi allo specchio. Passavo ore a parlare con il mio riflesso: da piccola adoravo farlo e i miei fratelli mi prendevano in giro additandomi come pazza. Così avevo finito per smettere, ma in quel momento, in cui non avevo nessuno con cui parlare e non dovevo nascondermi, il mio riflesso si presentò di nuovo come la migliore compagnia. Le chiacchierate con me stessa mi permettevano di riordinare i pensieri. A volte mi perdevo nei ricordi e guardavo le lacrime scendere sul volto allo specchio, come quando raccontavo della mia amica Parvaneh, di come sentivo la sua mancanza e di quante cose avremmo avuto da dirci se fossi riuscita a ritrovarla.
Un giorno decisi di rintracciarla, ma non sapevo come fare. Mi risolsi a chiedere aiuto ancora una volta a Parvin Khanum e una mattina, andando da mia madre, passai a salutare la vicina e le chiesi il favore di domandare in giro per il quartiere se qualcuno conosceva il nuovo indirizzo della famiglia Ahmadi. Io mi vergognavo di parlare con la gente del mio quartiere: ero convinta che tutti conoscessero la mia storia e mi giudicassero. Parvin mantenne la promessa, ma nessuno sembrava sapere o voler rendere noto l'indirizzo nuovo degli Ahmadi proprio a Parvin Khanum, che tutti sapevano avere una relazione con Ahmad. Uno di loro infatti le aveva chiesto: «Perché? Vogliono mandare qualcuno ad accoltellarli?».
Cercai notizie anche nella nostra vecchia scuola, ma l'intero fascicolo di Parvaneh era stato ritirato. La professoressa di lettere fu contenta di rivedermi e quando le dissi che nonostante tutto stavo continuando i miei studi, mi incoraggiò moltissimo.
In uno di quei freddi e bui pomeriggi d'inizio inverno nei quali mi annoiavo a morte, per qualche motivo Hamid tornò a casa prima del solito concedendomi l'onore di cenare in sua compagnia. Ne fui felicissima e mi misi subito a cucinare. Per fortuna Khanum Jun era passata a trovarmi quella mattina e mi aveva portato del pesce comprato dal mio Agha Jun. Non avevo voglia di cucinarlo per me sola, ma quando seppi che ci sarebbe stato anche Hamid, mi rimboccai le maniche e preparai una cena deliziosa. L'odore di pesce fritto gli fece venire l'acquolina in bocca e cominciò a girarmi intorno in cucina cercando di assaggiare di nascosto, mentre io lo sgridavo ridendo.
Prima diedi a Hamid la cena da portare a Bibi, poi stesi il soffreh e lo imbandii con tutte le leccornie che trovai in frigorifero. Il mio cuore era in festa e volevo che anche la cena fosse una festa. Com'era facile farmi contenta, eppure nessuno se ne curava... Hamid si lavò bene le mani: «Il sabzi polo va mangiato con le mani, quindi non andare a dire in giro che tuo marito è un maleducato!», poi tolse le lische dal pesce anche per me. Mi venne spontaneo rivelargli che bella serata era quella per me e che senza di lui sarei stata tristemente sola e in preda alla noia. Rimase in silenzio per un po', poi mi disse che non dovevo soffrire perché lui non c'era, ma approfittare del tempo che avevo a disposizione per studiare e leggere. C'erano molti libri in casa, potevo prendere quelli che volevo: lui stesso avrebbe tanto desiderato avere il tempo per fermarsi a leggere...
«Non mi sono rimasti più libri: li ho letti tutti... certi anche più di una volta.»
«Stai scherzando! Quali avresti letto?»
«Tutti, te l'ho detto, anche i tuoi libri dell'università.»
«È incredibile... e sei riuscita a capirci qualcosa?»
«Be', a dire il vero ci sono alcune cose che mi sfuggono e avrei delle domande da farti... Appena avrai un po' di tempo te ne parlerò.»
«Interessante... Va bene! Dei romanzi invece, cosa mi dici?»
«Oh, quelli sono fantastici, ogni volta che li leggo mi commuovo: sono così tristi, e quanti dolori e disavventure devono affrontare i personaggi!»
«Già, mia cara, questa è la realtà del mondo! I governi hanno sempre approfittato della povera gente per ottenere potere e ricchezza, intascando i frutti del suo lavoro. Disuguaglianza, sofferenza e miseria sono il risultato di questo tipo di società.»
«Ma questo è male! E quando potranno finire queste sofferenze? Cosa bisognerebbe fare?»
«Combattere! Chi è in grado di capire ha il dovere di opporre resistenza alle prepotenze. Se ogni essere umano libero combattesse contro i soprusi, il sistema si rovescerebbe e finalmente gli sfruttati avrebbero la possibilità di riunirsi cancellando ingiustizie e crimini. Noi dobbiamo agire per aprire la strada alla rivoluzione. Questa è la legge della storia...»
Ero rapita dal suo discorso: ci sapeva proprio fare con le parole! Certo, parlava come un libro e seguirlo mi era un po' difficile, ma lo trovavo lo stesso molto interessante.
Senza pensarci recitai:

«Se tu ti alzassi e io mi alzassi,
tutti si alzerebbero.
Se tu ti sedessi e io mi sedessi,
Chi rimarrebbe in piedi?
Chi dovrebbe affrontare il nemico e lottare contro di lui?».17

«Oh! Sembra proprio che anche tu ci capisca qualcosa... a volte dici cose che non si addicono a una ragazza della tua età e della tua educazione. Forse potresti entrare anche tu nella nostra squadra...»
Non sapevo se prendere le sue parole per un complimento o un'offesa, ma non volevo che alcuna ombra oscurasse quella bella serata e feci finta di niente.
Dopo cena si appoggiò a un pouf e commentò: «Era tutto squisito! Era da un sacco di tempo che non mangiavo così bene. Poveri gli altri ragazzi del gruppo, chissà cosa gli sarà capitato stasera per cena... di sicuro il solito pane e panir».
Approfittando di quel piccolo accenno e del suo buonumore, gli chiesi perché non invitava i suoi amici a cena una sera. Mi guardò pensieroso. Stava sicuramente valutando con attenzione quella eventualità, ma perlomeno non sembrava infastidito dalla mia proposta. Allora presi coraggio e continuai: «Non mi hai detto tu stesso che ogni sera qualcuno si incarica di preparare la cena? Una volta ci potrei pensare io, no? Lascia che anche i tuoi poveri amici si godano un pasto decente!».
«Adesso che mi ci fai pensare, anche Shahrzad qualche tempo fa diceva di volerti conoscere.»
«E chi sarebbe Shahrzad?»
«Una delle nostre migliori compagne! Intelligente, colta, coraggiosa, devota... sa sbrogliare molte questioni meglio di tutti noi.»
«È una ragazza?»
«Certo! Ti sembra forse un nome da maschi, Shahrzad?!»
«Veramente intendevo... volevo chiederti se è nubile o sposata.»
«Ah, voi e il vostro modo di parlare! Sì, si è sposata, ma è stata costretta a farlo per liberarsi dalla morsa della sua famiglia e poter impiegare tutte le sue energie e il suo tempo nella nostra missione. Purtroppo in questo paese, qualsiasi ruolo ricoprano, le donne non riescono mai a liberarsi degli stereotipi imposti dalla società!»
«Ma a suo marito non dispiace che stia sempre con voi?»
«A Mehdi? Macché, anche lui è uno dei nostri! Il loro matrimonio è stata una scelta del gruppo, perché da molti punti di vista era un bene sia per la missione sia per tutti noi.»
Ero cosciente del fatto che la più piccola reazione fuori luogo da parte mia avrebbe potuto farlo ricadere nel suo mutismo. Dovevo limitarmi ad ascoltare e non mostrare stupore nemmeno di fronte a questioni che mi erano del tutto estranee: era la prima volta che Hamid mi parlava dei suoi compagni, non dovevo sprecare l'occasione.
«Anche a me farebbe piacere conoscere Shahrzad... deve essere una persona davvero interessante. Ti prego, invitali a casa una volta!»
«Non posso risponderti adesso: ci devo pensare e parlarne con gli altri prima di decidere.»
Finalmente ottenni quello per cui avevo tanto insistito. Si decise che un sabato festivo tutti gli amici di Hamid sarebbero venuti a pranzo a casa nostra. Fui impegnata tutta la settimana nelle pulizie di casa e nella disposizione dei mobili, ma non avevamo un tavolo da pranzo... Hamid si sorprese che mi preoccupassi. «Ma cosa se ne fanno di un tavolo? Se stendi un soffreh a terra è molto meglio, così tutti avranno posto e staranno più comodi.»
Aveva invitato soltanto gli amici più stretti ed erano dodici! Non sapevo cosa cucinare, ero preoccupata ed emozionata, ma ogni volta che chiedevo consiglio a Hamid, lui rispondeva: «Non ha importanza» e io mi innervosivo. Certo che aveva importanza! Volevo preparare qualcosa che piacesse a tutti... e solo lui conosceva i loro gusti.
«Ma che ne so... a ognuno piace qualcosa... non puoi cucinare cinquanta cose diverse!»
«Hai ragione, ma per esempio a Shahrzad cosa piace?»
«Il ghormeh sabzi, ma Mehdi va matto per il gheimeh e Akbar ha in testa soltanto quel tuo sabzi polo di cui gli ho parlato. E di pomeriggio, quando fa freddo, a tutti viene voglia di una zuppa come l'aash-e reshteh... quindi, come vedi, va bene tutto: non farti troppi problemi.»
Cominciai a fare la spesa da martedì. Era arrivato il freddo vero e cadeva una neve sottile. Facevo molta attenzione a non scivolare per non mandare all'aria quel ricevimento tanto sognato. Comprai così tanto cibo e portai su per le scale una tale quantità di pacchi pesanti che se ne sorprese anche Bibi.
«La gente non compra così tanto nemmeno per un ricevimento reale!»
Giovedì preparai parte delle prime portate. Venerdì tornammo con anticipo dalla casa dei genitori di Hamid e mi rimisi ai fornelli. Fortunatamente faceva molto freddo e potei sistemare le pietanze sul balcone perché in frigorifero non c'era più posto. Nel pomeriggio Hamid uscì dicendomi di non aspettarlo: sarebbe tornato il giorno dopo con gli amici. Sabato mattina mi svegliai presto. Mi era rimasto da preparare soltanto il riso. Poi spolverai dappertutto e quando ebbi finito corsi a farmi una doccia. La sera prima mi ero già lavata i capelli e mi ero fatta la messa in piega. Indossai il vestito giallo, che era il più bello che avessi, stesi un velo di rossetto sulle labbra e spazzolai i capelli che avevano preso onde eleganti. Volevo essere perfetta per non dare alcun motivo d'imbarazzo a Hamid e dimostrarmi una donna completa perché non mi trattasse più come una bambina da tenere nascosta in casa. Volevo fare in modo che i suoi amici mi accettassero e mi considerassero una di loro.
Intorno a mezzogiorno squillò il campanello e il mio cuore ebbe un sussulto: era un segnale per me, perché Hamid aveva la chiave. Mi liberai in fretta del grembiule da cucina e corsi ad accoglierli all'ingresso. Tirava un vento gelido, ma non me ne preoccupai. Hamid mi presentò i suoi amici: quattro di loro erano donne e gli altri uomini, tutti più o meno della stessa età. Appena dentro presi i cappotti e guardai incuriosita le donne: non erano molto diverse dagli uomini. Tutte indossavano pantaloni e vecchi maglioni senza forma i cui colori non s'intonavano con il resto dell'abbigliamento. Nessuna sembrava curarsi dell'acconciatura e alcune portavano i capelli così corti che, viste da dietro, sembravano maschi. Altre li tenevano legati con un elastico. Sulle loro facce non c'era ombra di trucco. A parte Shahrzad nessuno mi prestò particolare attenzione, anche se davano l'impressione di essere persone educate. Shahrzad fu l'unica a baciarmi e dandomi un'occhiata disse a Hamid: «Che bella moglie hai! Non mi avevi detto che era così graziosa ed elegante!». Si voltarono tutti e questa volta mi studiarono con maggiore attenzione. Vidi dei sorrisetti mal celati, e c'era qualcosa nel loro atteggiamento che mi mise in imbarazzo e mi fece arrossire. Anche Hamid sembrava piuttosto teso e cercò di cambiare discorso. «Basta con i convenevoli, andate in soggiorno che adesso porto il tè. Masum, porta molti posacenere per favore.» Alcuni presero posto sulle poltrone, altri per terra. Almeno la metà di loro fumava. Corsi in cucina, Hamid mi raggiunse e sbottò seccato: «Ma si può sapere come ti sei conciata? Con quel vestito sembri una bambolina! Vatti a mettere qualcosa di semplice, pantaloni o gonna con un maglione e lavati la faccia, e vedi anche di legarti i capelli!».
«Ma io non sono truccata, mi sono soltanto messa un velo di rossetto.»
«Non so cosa tu ti sia fatta, ma cerca di non essere più così appariscente!»
«Cosa dovrei fare, strofinarmi del carbone in faccia?»
«E strofinatelo, se è necessario...»
Gli occhi mi si riempirono di lacrime, non riuscivo proprio a capire in cosa avessi sbagliato. Improvvisamente mi sentii esausta, come se le fatiche di quella settimana mi fossero piombate addosso tutte insieme. Il raffreddore che avvertivo da qualche giorno, ma avevo ignorato, d'un tratto si fece sentire fastidiosamente e mi girò la testa. Udii una voce domandare: «E allora, arriva questo tè?». Tornai in me e riempii le tazze. Hamid le portò in soggiorno e io andai in camera. Mi tolsi il vestito e rimasi seduta per un po' sul letto. Non avevo nessun pensiero preciso, ero solo triste.
Poi indossai la gonna che di solito mettevo in casa e la prima maglia che trovai. Raccolsi i capelli con un mollettone. Con un batuffolo di cotone tolsi quel poco di rossetto che mi era rimasto e provai a inghiottire il magone che mi soffocava. Avevo paura che se i miei occhi avessero incrociato il loro riflesso nello specchio sarei scoppiata a piangere. Cercai di sgombrare la mente, poi mi ricordai che non avevo condito il riso. Uscii dalla camera e mi trovai di fronte una delle ragazze, uscita dal soggiorno, che mi chiese subito: «Ehi! Perché ti sei cambiata?». Tutti misero fuori la testa per guardarmi. Io arrossii, mentre Hamid rispondeva con falsa noncuranza: «Così è più comoda».
Rimasi tutto il tempo in cucina, e nessuno sembrò curarsene. Erano le due quando finalmente potei stendere il soffreh in sala da pranzo e servire le portate. Nonostante avessi chiuso la porta del soggiorno, sentivo le loro voci alte e sonore, ma la metà delle loro parole mi era incomprensibile, come se stessero parlando in un'altra lingua. «Dialettica», «sommossa» e «popolo» erano i termini più ricorrenti. Non capivo perché non dicessero semplicemente «la gente». Dopo aver controllato il soffreh Hamid chiamò gli ospiti a mangiare. Rimasero tutti stupiti della varietà di colori e profumi dei cibi e senza farselo ripetere si gettarono con appetito sulle pietanze, continuando a elogiare la mia cucina e consigliandosi a vicenda i piatti migliori.
Shahrzad, rendendosi conto di quanto avevo lavorato, si dispiacque e mi disse: «Ti sei data troppo disturbo, guarda che noi ci saremmo saziati anche con pane e panir... non era necessario che ti stancassi tanto!».
Ma uno degli uomini non era d'accordo. «E dài, che quella roba la mangiamo tutti i giorni... per una volta che siamo venuti a casa del figlio di un borghese, lasciaci mangiare come loro!»
Tutti risero, ma mi sembrò che Hamid non apprezzasse la battuta. Dopo pranzo tornarono in soggiorno, Hamid portò una serie di piatti in cucina e si lamentò di nuovo: «Dovevi proprio cucinare così tanto? Adesso dovrò sorbirmi un sacco di battutine idiote...».
Hamid servì il tè una o due volte ancora, io raccolsi il soffreh, lavai i piatti, sistemai quello che era avanzato e rimisi in ordine la cucina. Erano le quattro passate. Mi faceva male la schiena e mi sentivo la febbre. Nessuno venne a cercarmi: ero stata completamente dimenticata. Capivo benissimo che non facevo per loro. Mi sentivo come uno scolaro a una festa d'insegnanti: non avevo la loro età né la loro esperienza e cultura, non potevo partecipare alle loro discussioni e non osavo nemmeno interromperli per chiedere se avevano bisogno di qualcos'altro. Versai ancora del tè e lo portai in soggiorno su un vassoio insieme ai pasticcini. Mi ringraziarono e Shahrzad ripeté che mi ero stancata troppo e si scusò a nome di tutti per non avermi aiutata. Io mi schermii, ma lei ammise che non avrebbero saputo fare niente di quello che avevo preparato io e mi invitò a sedermi con loro. Risposi contenta che li avrei raggiunti dopo aver recitato le preghiere.
Tutti spalancarono gli occhi e mi fissarono stupiti. Hamid corrugò la fronte. Non capivo cosa avessi detto di sbagliato o di strano. Akbar, che prima aveva dato del borghese a Hamid, e con il quale sentivo che c'era del contrasto, disse: «Bene, bene... esistono ancora persone che pregano. Che notizia: sono sconvolto! Signora, voi che avete mantenuto le tradizioni dei vostri avi, potreste gentilmente dirmi perché pregate?».
Impacciata e irritata risposi: «Perché? Perché sono musulmana. E recitare preghiere è dovere di ogni musulmano, è un ordine divino!».
«E come ve lo avrebbe dato, Dio, quest'ordine?»
«Non l'ha dato solo a me, ma a tutti, e per tutti, attraverso il suo prescelto e il Corano che gli ha consegnato.»
«Quindi ci sarebbe qualcuno seduto lassù che manda ordini per mezzo di qualche profetucolo?»
Cominciai a innervosirmi e chiesi aiuto a Hamid con lo sguardo, ma nel suo si leggeva solo fastidio e nemmeno l'ombra di comprensione nei miei confronti.
Una delle ragazze chiese: «E se tu non pregassi adesso cosa succederebbe?».
«Be', peccherei...»
«E cosa succede a chi pecca? Per esempio, a noi che non preghiamo e che quindi secondo te pecchiamo?»
Digrignai i denti e risposi: «Dopo la morte... sì, dopo la morte finirete all'inferno».
«Ah, l'inferno. E che tipo di posto sarebbe l'inferno?»
Tremavo per l'agitazione e la rabbia: si stavano prendendo gioco di me e di tutto ciò in cui credevo. Balbettando risposi: «L'inferno è avvolto dalle fiamme».
«Immagino che ci siano anche serpenti e scorpioni, no?»
Scoppiarono tutti a ridere, mentre io guardavo implorante Hamid: avevo bisogno del suo sostegno, ma lui continuava a tenere la testa bassa e, anche se non rideva con gli altri, non disse nulla per venirmi in aiuto. Fu a quel punto che Akbar si girò verso di lui e gli lanciò l'ennesima frecciata: «Tu che non sei ancora riuscito a istruire tua moglie, come puoi pretendere di salvare la gente dall'ignoranza?».
Mi aveva offesa e mi arrabbiai. «Io non sono ignorante!»
«Certo tesoro che lo sei! E non è nemmeno colpa tua... ti hanno inculcato così bene queste scemenze nella testa, che ci credi. L'ignoranza è fatta proprio delle cose che stai farneticando e per le quali stai sprecando il tuo tempo. Cose che non sono di alcun vantaggio per il popolo. Cose che ti rendono dipendente da qualcun altro. Balle inventate per spaventarti e per farti accontentare del poco che hai, per non farti desiderare ciò che non hai e che meriteresti davvero, nell'insulsa speranza che sarai ricompensata dopo la morte. Tu credi in cose che sono state costruite a tavolino per il tuo sfruttamento. L'ignoranza sta proprio nel legarsi a queste illusioni.»
Avevo la nausea e mi girava la testa. Con rabbia risposi: «Non siate blasfemo!».
«Vedete, ragazzi, come fanno il lavaggio del cervello alla gente? Non è colpa loro... queste leggende da quattro soldi gliele ficcano in testa sin dall'infanzia. Vi rendete conto della lunga strada che ci aspetta per combattere le piaghe del popolo? Ecco perché dico di mettere la lotta alla religione in primo piano nel nostro lavoro!»
Non sentivo più le loro parole. Tutta la stanza mi girava intorno. Ero sicura che se fossi rimasta lì anche solo un altro istante avrei finito per vomitare davanti a tutti. Corsi in fretta in direzione del bagno. La nausea mi mordeva lo stomaco e un dolore sconosciuto si diffondeva dai reni al basso ventre. Sentii le gambe bagnate e guardai in basso: il pavimento del bagno era sporco di sangue.
Faceva sempre più caldo, troppo, stavo bruciando avvolta da lingue di fuoco... provai a fuggire, ma non riuscivo a muovere un passo. Demoni orrendi affondavano gli artigli nel mio ventre e mi trascinavano nel fuoco. Intorno, serpenti dalle teste umane ridevano divertiti a quello spettacolo pietoso finché una creatura mostruosa si avventò su di me e cominciò a farmi ingoiare con la forza dell'acqua torbida.
Tenendo un bambino stretto fra le braccia, ero caduta in una prigione con le pareti divorate dalle fiamme. Correvo verso le infinite porte della stanza, ma tutte erano circondate da lingue di fuoco. Guardai il mio bambino: stava affogando nel sangue.

15.

Aprii gli occhi in una stanza bianca e sconosciuta. Un freddo pungente mi percorse il corpo. Richiusi gli occhi, mi raggomitolai e cominciai a tremare, qualcuno mi rimboccò una coperta e delle mani calde mi sfiorarono la fronte. «Il peggio è passato, la febbre è scesa e l'emorragia si è bloccata, ma è molto debole... deve essere curata.» La voce di Khanum Jun disse: «Avete sentito, Hamid Khan? Lasciate che resti da noi almeno una settimana, in modo da riprendersi un poco».
Passai cinque giorni a letto a casa dei miei genitori. Fati mi girava intorno come una farfalla. Agha Jun continuava a comprare cose strane, «toccasana» per me, a detta sua. Ogni volta che aprivo gli occhi Khanum Jun mi faceva ingoiare qualche intruglio medicinale. Parvin Khanum stava seduta accanto a me dalla mattina alla sera e mi parlava, ma io non avevo proprio voglia di risponderle, così mi giravo su un fianco, fingendo di dormire. Hamid passava tutti i pomeriggi a trovarmi. Il suo viso sembrava triste e rammaricato. Si sentiva in colpa, ma io non volevo vederlo. Parlare con chi mi stava intorno era di nuovo difficile.
Sentivo un vuoto profondo e doloroso dentro di me. Khanum Jun ripeteva: «Tesoro, perché non mi hai detto che eri incinta? Perché ti sei affaticata così tanto invece di chiamarmi ad aiutarti? I primi mesi sono delicati, non bisogna stancarsi troppo, ma non è successo niente di grave, non devi soffrire per un bambino mai venuto al mondo! Lo sai quanti aborti ho avuto? Anche questo è un volere di Dio, e succede quando i bambini hanno qualcosa che non va: un bambino sano non morirebbe così facilmente. Ringrazia Dio, e vedrai che i tuoi prossimi figli saranno sani e belli!».
Al momento del ritorno a casa, Hamid venne a prendermi con la macchina di Mansureh. Agha Jun mi mise al collo una catenina d'oro: non conosceva altro modo per esternare il suo affetto. Lo capivo benissimo, ma non avevo voglia né di parlare né di ringraziare: mi limitai ad asciugarmi le lacrime. Hamid rimase due giorni a casa per prendersi cura di me. Sapevo che per lui era un enorme sacrificio, ma non provavo alcun sentimento di riconoscenza nei suoi confronti. Sua madre e le sue sorelle vennero a trovarmi. Sua madre mi disse: «Anch'io ho abortito il mio secondo figlio dopo Monir Khanum, ma poi ho partorito tre figli belli e sani! Non rattristarti troppo. Avete tempo, siete entrambi ancora giovani».

La verità era che io stessa non sapevo da dove venisse quella depressione profonda. Non era solo per il bambino perso, perché, nonostante avessi avvertito i cambiamenti dentro di me per qualche settimana, e un angolo del mio cervello sapesse quello che stava succedendo, non avevo trovato il coraggio di confessarmi che stavo per diventare madre. Non riuscivo a immaginarmi con un figlio in braccio e soprattutto a chiamarlo mio figlio... Mi consideravo ancora una ragazza, il cui primo dovere era studiare. Il mio malessere si fondeva con un senso doloroso di peccato. Le fondamenta della mia fede avevano tremato sotto i colpi inferti alle mie convinzioni. Ero terrorizzata dai dubbi che mi avevano instillato e ritenevo di meritare un'orribile punizione. E infatti ero stata punita con la perdita del mio bambino.
«Perché non mi hai detto di essere incinta?» mi chiese Hamid.
«Io stessa non ne ero certa, e non pensavo che saresti stato felice della notizia.»
«Ma è così importante per te avere un figlio?»
«Non lo so nemmeno io.»
«Secondo me il tuo problema non è soltanto il bambino. Ci sono altre cose che ti hanno turbata. Si capiva dai tuoi deliri. lo, Shahrzad e Mehdi ne abbiamo parlato a lungo: quel giorno ti sei agitata ed eri sotto pressione per diversi motivi, sia psicologicamente sia fisicamente. E le parole dei ragazzi ti hanno dato il colpo di grazia.»
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. «E tu non hai detto nemmeno una parola per difendermi. Si sono presi gioco di me, mi hanno riso in faccia, mi hanno trattata come una stupida. E tu stavi dalla loro parte!»
«No, nessuno voleva schernirti! Non sai quanto da quel giorno Shahrzad abbia litigato con gli altri, soprattutto con Akbar. Ed è così che si è deciso che il nostro lavoro deve essere svolto ponendo grande attenzione ai modi della propaganda e dell'illuminazione del popolo. Shahrzad ha rimproverato i ragazzi: "Con il vostro atteggiamento fate scappare le persone, invece di convincerle!". E poi quel giorno è stata accanto a te in ospedale insieme a me e continuava a ripetere che era colpa nostra. Sono veramente tutti preoccupati per te e Akbar vuole venire a chiederti scusa.»
L'indomani, Shahrzad e Mehdi vennero a trovarmi con una scatola di dolci. Shahrzad si sedette sul bordo del letto e disse: «Sono molto felice che tu stia meglio, ci hai davvero fatto prendere un bello spavento!».
«Mi dispiace...»
«Non dire così, siamo noi che ti dobbiamo delle scuse. È stata tutta colpa nostra. Noi discutiamo con tale veemenza e siamo così presi dai nostri ideali che non ci accorgiamo che gli altri non sono abituati a questo atteggiamento e quindi possono offendersi o spaventarsi. Akbar, poi, parla senza usare il cervello, ma non aveva cattive intenzioni. Ci è rimasto malissimo e voleva venire anche lui a trovarti, ma gli ho detto che non era il caso di mostrarti la sua brutta faccia e farti stare male di nuovo!»
«No, in realtà non è stata colpa sua. Il problema è mio, perché sono insicura: perdo ogni fiducia in me stessa alla più piccola insinuazione e non riesco più a rispondere a tono.»
«Sì, ma tu sei giustificata perché sei ancora molto giovane. Io alla tua età non avevo nemmeno il coraggio di discutere con mio padre! Crescendo e facendo nuove esperienze i tuoi ideali e tutto ciò in cui credi troveranno solide fondamenta su cui ergersi. Fondamenta fatte solo di conoscenza ed esperienza e non di quello che altri vorrebbero farti ripetere a pappagallo. Ma lascia che ti confessi una cosa: non dare troppo peso alle parole di quegli illuminati, non le prendere troppo sul serio, anche loro hanno un barlume di fede in fondo al cuore e nel momento del bisogno chiedono aiuto a Dio.»
Hamid, che stava in piedi sulla porta con un vassoio di tè in mano, sorrise. Shahrzad si girò a guardarlo.
«Dico male, Hamid? Detto fra noi, sei riuscito veramente a mettere da parte la tua fede religiosa? Ad allontanare Dio dai tuoi pensieri, non nominandolo più in nessuna occasione?»
«No, e non credo ce ne sia motivo. Questo era proprio l'argomento del nostro dibattito il giorno prima del pranzo a casa nostra... Non capisco perché alcuni di noi continuino a insistere sulla lotta alla religione. Secondo me le persone che credono sono anche quelle più moderate e fiduciose perché si sentono meno sole.»
«Quindi non prendi in giro le mie preghiere? E non le ritieni inutili?» azzardai.
«No. Anzi, quando ti vedo pregare con tutta quella serenità e dedizione, spesso finisco per invidiarti.»
Shahrzad annuì con un sorriso. «Ricordati soltanto di pregare anche per noi!»
Senza pensarci l'abbracciai e la baciai.

I miei incontri con i compagni di Hamid continuarono a essere sporadici. Il nostro rapporto aveva limiti precisi: mi rispettavano, ma non mi ritenevano una di loro. In mia presenza facevano del loro meglio per non parlare di religione e di Dio. E anch'io non avevo più alcuna voglia o curiosità di stare con loro. Soltanto Shahrzad e Mehdi passavano a trovarci di tanto in tanto in veste di amici, ma io mi sentivo in imbarazzo anche con loro. I miei sentimenti nei confronti di Shahrzad erano un misto di rispetto, affetto e desiderio di essere come lei. Era una donna completa che tutti, inclusi gli uomini, ammiravano. Colta, saggia e ottima oratrice, non temeva nessuno. Non aveva bisogno di qualcuno cui appoggiarsi e rappresentava la colonna portante dell'intero gruppo, ma la cosa più sorprendente era che, nonostante la sua forza, aveva un animo sensibile e delicato, e non nascondeva le lacrime dei suoi grandi occhi neri di fronte alle disgrazie umane. Il suo rapporto con Mehdi era un mistero per me: anche se Hamid mi aveva spiegato che si erano sposati per cause di forza maggiore, percepivo qualcosa di ben più profondo e puro fra loro di un matrimonio combinato.
Mehdi era un uomo molto intelligente e di poche parole. Si intrometteva raramente nelle discussioni, ma quando lo faceva dava sfoggio di cultura e sapienza. Come un insegnante che interroga i suoi alunni, soppesava e prendeva in esame con la massima attenzione le parole degli altri, restando però per lo più in silenzio. Capii ben presto che Shahrzad rivestiva anche il ruolo di sua portavoce. Durante i discorsi lo guardava spesso: i suoi cenni di assenso la imitavano a procedere, se invece Mehdi corrugava la fronte, Shahrzad si fermava a riflettere. Era impossibile che tali simbiosi e armonia fra loro si fossero sviluppate senza la presenza di un sentimento forte come l'amore.
Sapevo che la moglie ideale di Hamid non ero certamente io, ma una donna come lei, eppure non provavo invidia nei suoi confronti: l'avevo messa su un piedistallo e sentivo solo il desiderio ardente di assomigliarle.

16.

Agli inizi di primavera e in concomitanza con gli esami della decima classe, sentendomi continuamente debole, assonnata e in preda a nausee, capii di essere incinta. Passai comunque bene gli esami e questa volta mi rilassai in attesa della nascita del mio bambino con una nuova consapevolezza e grande entusiasmo. Mio figlio mi avrebbe finalmente liberata dalla solitudine senza fine in cui vivevo.
La famiglia di Hamid fu molto felice alla notizia della mia gravidanza. Per loro era la prova che il figlio aveva preso coscienza delle sue responsabilità e del suo ruolo e io lasciai che lo credessero, perché se avessi denunciato le sue continue assenze lo avrei tradito. E poi mi avrebbero ritenuto incapace di trattenerlo e quindi in parte responsabile. Sua madre, infatti, non perdeva occasione per ricordarmi che una donna deve far sì che il marito si occupi della propria famiglia e portava a esempio sé stessa, raccontando come aveva strappato il suo alle grinfie dei tudehia.18
L'estate di quello stesso anno, Mahmud si sposò con nostra cugina Ehteramsadat. Io non avevo alcuna voglia di partecipare ai preparativi e per fortuna la gravidanza fu una buona scusa perché nessuno s'azzardasse a pretendere il mio aiuto. La verità era che non mi piaceva nessuno di loro. Mia madre, invece, era emozionatissima, elencava in continuazione tutti i pregi della nuora rispetto a quell'ingrata di Mahbubeh e si dedicava con impegno ai preparativi per le nozze insieme a mia zia. Mahmud aveva la solita espressione severa e imbronciata, fissava il pavimento e non parlava con nessuno: sembrava che dovesse partecipare a una cerimonia funebre... Dopo il matrimonio non rimase nemmeno un giorno di più nella nostra casa: ne prese in affitto una vicino al bazar e la notte stessa delle nozze la sposa fu portata lì.
La festa fu fatta a casa di Parvin Khanum, dove si riunirono le donne, e di Agha Jun, dove si raccolsero gli uomini. Appesero qualche fila di lampade colorate sulla porta e fra gli alberi del giardino. Cucinarono nel cortile di Parvin Khanum che era più grande, ma non ci fu nemmeno l'ombra di musica o canto: Mahmud e il padre di Ehteramsadat erano d'accordo che si trattava di usanze stupide e deplorevoli...
Io stavo seduta insieme alle altre donne nel giardino di Parvin Khanum e mi facevo aria con un ventaglio colorato. Tutte chiacchieravano concitate mangiando frutta e dolci. Mi chiesi cosa stessero facendo gli uomini: dal loro cortile non proveniva nessun suono. Parvin Khanum brontolava in continuazione: «Che razza di matrimonio è questo? Sembra l'anniversario della morte di mio padre!». Ma le occhiatacce di mia zia e le sue esclamazioni indignate la zittirono. Per mia zia, tutte le persone sulla faccia della terra erano sporchi peccatori, tranne ovviamente lei. Parvin Khanum in particolare non le piaceva affatto e continuava a chiedere a mia madre che cosa ci facesse lì quella donnaccia. Era chiaro che se non fossimo state nella casa della stessa Parvin Khanum, l'avrebbe cacciata dal matrimonio. Quella sera Ahmad non si fece nemmeno vivo. Khanum Jun continuava a chiamare Ali per chiedergli se Ahmad era arrivato e poi si disperava. «Lo vedi? È come se non ci fosse il matrimonio di suo fratello questa sera! Povero Agha, è rimasto solo. Ahmad pensa soltanto a quegli sciagurati dei suoi amici. Non può fare a meno di uscire nemmeno una sera.» Parvin Khanum mi sussurrò all'orecchio che era vero, Ahmad era peggiorato da quando me n'ero andata e frequentava gente strana e pericolosa. Era preoccupata per lui.
«Gli sta bene. Una persona stupida e cattiva come mio fratello non merita altro che disgrazie.»
«No, ti prego Masum, non dirlo! Ti piacerebbe che finisse male? Lasceresti che gli accadesse una disgrazia? Forse se vi foste presi cura di lui un po' di più, non si sarebbe ridotto così...»
«Cosa avremmo dovuto fare, secondo te?»
«Non lo so. Ma non è giusto che lo abbandoniate al suo destino. Il tuo Agha non vuole più nemmeno guardarlo in faccia.»
Quella sera la zia si presentò da sola. Khanum Jun, che aveva continuato a ripetere che era ingrata e maleducata e non si sarebbe degnata di venire, al vederla serrò le labbra in una smorfia, sibilando: «Oh, è arrivata...». E fece in modo di dare l'impressione di non essersene accorta. La zia si sedette accanto a me lamentandosi per il viaggio: la macchina aveva avuto un guasto ed era rimasta bloccata due ore. Avremmo dovuto celebrare il matrimonio a Qum, dove del resto c'erano tutti i nostri parenti...
«Non dovevate disturbarvi a venire, zia: il viaggio è troppo faticoso.»
«Ma quale disturbo! Non succede tutti i giorni che il primogenito del proprio fratello si sposi. Salam Khanum! Hai visto che sono arrivata? Non mi hai nemmeno salutata...»
Per cambiare argomento le chiesi come stava Mahbubeh. «Mi manca molto... magari fosse venuta anche lei!» Khanum Jun mi fulminò con lo sguardo. La zia rispose che mia cugina si scusava di non poterci essere: era appena partita con il marito per un viaggio in Siria e a Beirut. E aggiunse che aveva un marito meraviglioso che avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei... Mahbubeh voleva visitare una meta di pellegrinaggio prima di avere il bambino, e suo marito l'aveva subito accontentata proponendole quella di santa Zeinab, vista l'impossibilità di partecipare al prossimo viaggio alla Mecca perché avrebbe avuto il neonato da accudire.
Khanum Jun commentò subito acida: «Veramente, per quanto ne so, bisognerebbe essersi sistemati e aver fatto ordine nella propria vita prima di andare alla Mecca...».
«Ti sbagli, Tayebeh Khanum, queste sono le scuse che accampano quelli che non possono andarci: il suocero di Mahbubeh, che è un buon fedele, ha detto che non appena si è nelle condizioni economiche adeguate si deve andare a fare il pellegrinaggio.»
Khanum Jun era avvampata per la rabbia. Conoscevo bene quella reazione: le capitava ogni volta che non riusciva a controbattere... Finalmente trovò una risposta: «No, mia cara. Lo zio della sposa, che è molto preparato, dice che ci sono diverse regole da seguire per andare alla Mecca, non è così semplice. Sette famiglie del quartiere oltre alla propria devono stare bene economicamente, e non è certo il vostro caso visto che vostro figlio è ancora disoccupato!».
«Disoccupato? Chi ve lo ha detto? Suo padre gli avrebbe aperto un negozietto, ma lui non ha voluto: non gli piace il commercio, preferisce studiare e diventare medico. Il marito di Mahbubeh, che è laureato, afferma che è un ragazzo di grandi capacità, e ci ha chiesto di lasciarlo libero finché non darà l'esame di ammissione all'università.»
Khanum Jun aprì la bocca per replicare, ma io mi intromisi prontamente cambiando discorso per sedare gli animi. Temevo che se quel battibecco fosse continuato, il matrimonio si sarebbe ben presto trasformato in un terreno di guerra.
«Di quanti mesi è Mahbubeh? Soffre di nausee?»
«No, tesoro, ha sofferto soltanto i primi due mesi, ora sta benissimo, non ha più alcun fastidio. Per questo il dottore le ha dato il permesso di partire.»
«A me il dottore ha consigliato di non camminare troppo e mi ha proibito di piegarmi.»
«E tu devi ascoltarlo, Masum. I primi mesi devi stare molto attenta. E poi sembri debole: forse non ti assistono come dovrebbero. Io agli inizi sono stata molto vicina a Mahbubeh. Soddisfacevo ogni suo desiderio mandandole a casa tutti i giorni dei manicaretti: fa parte dei doveri di una madre!»
La zia non voleva proprio cessare il fuoco e continuava a provocare mia madre. In fretta risposi: «Sì zia, mi mandano sempre pietanze fresche, ma non mi riesce di mandare giù quasi niente. Non ho proprio appetito».
«Non è possibile cara, Mahbubeh mangiava così volentieri... Probabilmente cucinano senza cura. Ci penso io a prepararti un viarune da farti leccare le dita!»
Khanum Jun era paonazza. Stava per rispondere, ma per fortuna Parvin Khanum la chiamò perché bisognava servire la cena agli uomini. Quando se ne andò, tirai un sospiro di sollievo e la zia si placò, come un vulcano che ha esaurito la sua spinta. Poi si guardò intorno e salutò con cenni del capo le persone che conosceva, prima di rivolgersi di nuovo a me: «Mashallah! Sei diventata molto bella: sarà sicuramente un maschio. Ma dimmi, sei soddisfatta di tuo marito? Noi questo principe non l'abbiamo ancora visto, ti hanno fatta sposare così in fretta...».
«Be', zia, non posso lamentarmi. E vi assicuro che non ci sono segreti: i suoi genitori dovevano recarsi alla Mecca e volevano sistemare tutte le loro faccende prima di partire, ecco perché ci siamo sposati così di corsa.»
«Ma senza nessun incontro precedente? Insomma, ho sentito che hai visto lo sposo soltanto il giorno del matrimonio...»
«È vero, ma avevo visto la sua fotografia.»
«Per l'amor del cielo, Masum, non si sposa una fotografia! Ti è bastata una foto per capire che è l'uomo della tua vita? Le ragazze non si sposano più così nemmeno a Qum... Il suocero di Mahbubeh è un sant'uomo molto educato e religioso, ma quando si è presentato per il khastegari ha detto che i due ragazzi dovevano vedersi e parlarsi per capire se veramente si desideravano a vicenda, prima di dare una qualsiasi risposta. Mahbubeh ha incontrato Mohsen Khan almeno cinque volte da sola. Ci hanno invitato a cena da loro e noi abbiamo fatto altrettanto. E nonostante tutta Qum li conoscesse e non ci fosse bisogno di alcuna indagine, ci siamo comunque dati da fare... Non si può dare la propria figlia al primo che capita così!»
«Non lo so zia, la verità è che i miei fratelli avevano molta fretta...»
«E hanno sbagliato di grosso. Che fastidio gli davi restando ancora in casa? L'ho sempre detto che tua madre li ha viziati troppo i suoi maschi. Mahmud prega sempre e si crede il più puro di tutti, per non parlare di Ahmad, che non si sa nemmeno dove sia il giorno del matrimonio di suo fratello...»
«Credetemi, zia, ora sono soddisfatta. Il mio destino era questo. Hamid è un brav'uomo e la sua famiglia è onorata e gentile. Sono molto attenti a me...»
«Ed economicamente com'è messo?»
«Non male, e non mi fa mancare nulla. Suo padre ha una stamperia e lui lavora lì.»
« Ma ti ama? Siete felici insieme? Insomma capisci quello che intendo dire?»
Cominciai a rifletterci: non mi ero mai chiesta se lo amassi o se lui amasse me, però non potevo dire di provare indifferenza nei suoi confronti. Mi piacevano il suo aspetto e il fatto che fosse buono e gentile; perfino Agha Jun, che l'aveva visto pochissimo, gli si era affezionato. Ma il sentimento profondo che avevo nutrito per Saeid non aveva niente a che vedere con il nostro rapporto. E anche fare l'amore era più l'adempimento di un dovere coniugale e la soddisfazione di un bisogno fisico che lo specchio di una vera passione.
«Allora tesoro, perché sei così pensierosa? Lo ami sì o no?»
«Non lo so zia: è un brav'uomo, mi sprona a studiare, mi lascia fare quello che desidero: posso andare al cinema, ai ricevimenti, a spasso, e lui non ha mai niente da obiettare... e poi non pretende pranzi e cene perfette, si accontenterebbe anche di pane e panir senza lamentarsi.»
«Senza lamentarsi? Ma cosa stai dicendo? Così mi preoccupi! Vedi, cara ragazza, Dio non ha creato uomini capaci di non lamentarsi, quindi o quest'uomo ha dei segreti e ti vuole tenere impegnata in modo che non lo disturbi, oppure è così innamorato di te che non riesce a dirti di no, anche se questo mi sembra improbabile... e anche se fosse, durerebbe poco. Prima o poi avrai qualche sorpresa.»
Non sapevo cosa dire. Ma la zia non aveva ancora finito.
«Conosco bene gli uomini, mia cara! Il marito della nostra Mahbubeh è credente, ma anche colto e di idee moderne. È innamoratissimo e non le toglie gli occhi di dosso nemmeno per un attimo; da quando ha saputo che è incinta la cura come se fosse una bambina, però la tiene d'occhio, sta attento a dove va, a chi frequenta e, che rimanga fra noi, ogni tanto fa anche il geloso... del resto che amore sarebbe senza un pizzico di gelosia? Scommetto che anche tuo marito ha le sue piccole gelosie per te...»
Hamid geloso? Geloso di me? Ero sicura che quel tipo di sentimento non facesse assolutamente parte di lui. Forse se fossi andata a dirgli che l'avrei lasciato ne sarebbe stato persino felice, perché per lui la vita matrimoniale era una prigione. Eppure non aveva motivi per sentirsi in trappola: la mia presenza non gli impediva di vivere nella più completa libertà e di andare e tornare quando voleva. Non avevo nemmeno avuto il coraggio di lamentarmi della solitudine in cui mi lasciava di notte e di giorno, anche se continuava a parlare dei vincoli della famiglia... Forse io e il nostro bambino occupavamo un angolo del suo cervello e, se non fossimo esistiti, anche quel piccolo spazio sarebbe stato a disposizione dei suoi nobili ideali.
«No, Hamid non fa mai il geloso con me», risposi infine a mia zia. Mentre quei pensieri mi attraversavano la mente alla velocità della luce, vidi Fati poco distante da me e la chiamai. Le chiesi di raccogliere i piatti dal tavolo e di dire a Khanum Jun che le avrei subito portato le salse per l'insalata, ma era solo un pretesto per congedarmi da Ammeh Jan che, con le sue domande, aveva messo la mia vita di fronte a uno specchio impietoso. Mi sentii improvvisamente molto triste.

Con l'inizio dell'autunno cominciai a stare meglio: la pancia cresceva lentamente e non avevo più la nausea. Mi iscrissi all'undicesima classe della scuola serale. Il pomeriggio facevo una bella passeggiata fino alla scuola. La mattina aprivo le tende e mi sedevo a studiare al sole che illuminava il soggiorno, con le gambe allungate e mangiando i lavashak19 di Ammeh Jan. Sapevo che dopo il parto non avrei più avuto molto tempo da dedicare allo studio.
Un giorno Hamid si presentò a casa alle dieci del mattino dopo due giorni che non rientrava. Mi sorpresi molto: sicuramente non era preoccupato per me, forse non si sentiva bene? Vedendo la mia espressione, si mise a ridere.
«Se ti do fastidio, vado via di nuovo...»
«Certo che no, solo... sei sicuro di stare bene?»
«Benissimo! Mi hanno detto che oggi verranno a collegarci il telefono e dovevo avvertirti, e poi sapevo che non hai soldi in casa, quindi eccomi qui!»
«Il telefono? Fantastico! Non mi avevi detto niente, abbiamo così poche occasioni di parlarci... Comunque sono davvero contenta, potrò parlare con qualcuno e mi sentirò meno sola.»
«Eh no, cara Masum, il telefono è per le comunicazioni importanti o urgenti, non per spettegolare. Io ne ho bisogno per alcuni contatti importanti, quindi deve rimanere libero il più possibile. Riceveremo chiamate più che farne! E ricordati di non dare il nostro numero a nessuno...»
«Cosa significa? Vorresti dire che non devono saperlo nemmeno i miei genitori? E io che pensavo che fossi preoccupato per me e avessi deciso di comprare il telefono per sapere come sto quando sei via e perché possa chiamare qualcuno quando mi verranno le doglie!»
«Non te la prendere, certo che potrai telefonare in caso d'emergenza! Intendevo solo dire che non devi stare attaccata al telefono tutto il giorno...»
«Che discorso assurdo: chi potrei chiamare dopotutto? Amiche non ne ho, i miei non hanno il telefono e dovrebbero chiamarmi dalla casa di Parvin Khanum, restano soltanto tua madre e le tue sorelle...»
«Non ti azzardare a dar loro il numero per nessun motivo! Mi spierebbero ventiquattrore su ventiquattro.»
Comunque il telefono fu attivato e i miei contatti con il mondo esterno, ormai quasi nulli un po' per la gravidanza, un po' per il freddo dell'inverno, ripresero. Parlavo tutti i giorni con Parvin Khanum, che spesso andava a chiamare anche Khanum Jun, e se per caso lei non poteva, veniva Fati a chiacchierare con me.
La madre di Hamid alla fine venne a sapere che avevamo il telefono e si fece dare il nostro numero, molto risentita. Pensava che fossi io a non volerglielo dare, non si immaginava nemmeno che me l'avesse ordinato proprio suo figlio. Da quel momento cominciò a chiamarci almeno due volte al giorno. Alla fine memorizzai gli orari delle sue telefonate e quando ero certa che fosse lei non rispondevo più, perché mi ero inventata così tante scuse sull'assenza di Hamid - sta dormendo, è sotto la doccia... al lavoro... a fare la spesa - che mi vergognavo di doverle mentire ancora.

17.

Le prime doglie vennero a farmi visita nel cuore di una freddissima notte invernale. Fui presa dall'ansia e dalla paura: come avrei fatto ad avvertire Hamid? Dovevo controllarmi e cercare di ricordare le parole del dottore, dovevo segnare il tempo fra una doglia e l'altra... ma come avrei fatto a trovare Hamid? Avevo solo il numero dell'ufficio, ma a quell'ora di notte non poteva esserci nessuno. Ci provai lo stesso, invano. Non avevo il numero di nessuno dei suoi amici. Del resto lui faceva grande attenzione a non lasciare in giro né numeri né indirizzi e faceva affidamento soltanto sulla sua memoria: diceva che cosi si sentiva più tranquillo... Non avevo altra scelta che chiamare a casa di Parvin Khanum. Ero in imbarazzo perché li avrei svegliati nel cuore della notte, ma il dolore delle doglie mi fece mettere da parte le buone maniere e composi il numero. Il telefono dall'altra parte squillava, ma nessuno rispondeva. Sapevo che suo marito aveva le orecchie dure e il sonno pesante. Riagganciai. Erano le due del mattino. Continuavo a tenere il tempo delle doglie che venivano con una cadenza diversa da come mi ero immaginata. La paura mi invadeva sempre di più. Mi venne in mente di chiamare la madre di Hamid, ma come avrei fatto a dirle che il figlio non era in casa dopo averle mentito poche ore prima, inventandomi che c'era ma era andato a far visita a Bibi? Se adesso l'avessi chiamata per dirle che se n'era andato e non era più tornato sarebbe impazzita! Se la sarebbe presa con me, e poi lo avrebbe cercato in tutti gli ospedali della città. La sua apprensione quasi morbosa per il figlio non aveva certo bisogno di essere ulteriormente alimentata...
Pensieri assurdi cominciarono ad affollarmi la testa; percorrevo in lungo e in largo la stanza, tenendo le mani sotto la pancia, e l'ansia mi provocava una forte nausea. Quando il dolore riprendeva mi immobilizzavo ovunque mi trovassi. All'inizio facevo attenzione a non fare rumore, ma dopo un po' mi resi conto che anche se avessi urlato nessuno mi avrebbe sentita. Bibi dormiva un sonno profondo cullata dalla sua sordità, e anche se si fosse svegliata non avrebbe potuto fare nulla per me. Mi ricordai della zia che raccontava di come il marito di Mahbubeh si fosse preoccupato quando le erano cominciate le doglie. Aveva continuato a starle intorno e a pregare per lei. Un moto d'invidia e di rabbia mi trafisse il cuore: la vita o la morte del nostro bambino e mia non sembravano avere nessuna importanza per Hamid.
Guardai l'orologio: erano le tre e mezzo. Richiamai un'altra volta a casa di Parvin Khanum. Lasciai squillare il telefono a lungo, ma inutilmente. Pensai di vestirmi e di trascinarmi fino alla strada principale. In qualche modo sarei riuscita a trovare una macchina che mi avrebbe portata all'ospedale. Tirai fuori la valigia che avevo preparato dieci giorni prima e cercai disperatamente il biglietto di istruzioni e raccomandazioni scritte per me dal dottore di Mansureh. Le doglie ricominciarono, ma questa volta più lievi. Mi stesi sul letto e pensai che forse mi stavo sbagliando, non era ancora il momento giusto. Quando all'improvviso sobbalzai sul letto per il dolore, erano le sei e mezzo: ero riuscita a dormire un paio d'ore. Fui ripresa dall'ansia e feci ancora un tentativo a casa di Parvin. Avevo deciso che sarei rimasta in attesa finché qualcuno avesse alzato la cornetta dall'altra parte. Dopo almeno dodici squilli sentii la voce impastata di sonno di Parvin Khanum e scoppiai in lacrime. «Vieni a salvarmi, ti prego, il bambino sta nascendo!»
«Oddio! Corri all'ospedale, arriviamo subito anche noi!»
«Non posso, Hamid non c'è... È tutta la notte che ti sto chiamando, è un miracolo che il bambino non sia ancora nato!»
«Vestiti che in un attimo siamo da te!»
Dopo averle parlato riuscii a calmarmi un po', anche se le contrazioni si erano fatte più intense. In ospedale, nonostante le doglie, il dottore disse che era ancora presto. Anche Khanum Jun era arrivata e mi teneva le mani dicendo che Dio esaudiva qualsiasi preghiera di una donna che sta per partorire. Avrei potuto chiedergli di perdonare i miei peccati.
I miei peccati? Quali peccati avevo mai commesso? Il mio unico peccato era stato quello di amare un uomo, ma era anche il miglior ricordo della mia vita. Non volevo assolutamente che qualcuno lo cancellasse.
A mezzogiorno il bambino ancora non si decideva a nascere. Mi diedero medicine, mi fecero un'iniezione, ma fu tutto inutile. Parvin Khanum mi guardava spaventata ogni volta che entrava nella stanza e solo per rompere il silenzio mi chiedeva per l'ennesima volta dov'era Hamid. Voleva chiamare sua madre, ma io con il respiro sempre più affannoso le ripetevo di non farlo. Khanum Jun ribolliva di rabbia. «Ma cosa significa? Non dovrebbe venire almeno la madre a vedere come stanno sua nuora e suo nipote? Non importa di nulla a questa gente?» E invece di calmarmi, con il suo borbottare continuo mi innervosiva sempre di più.
Alle quattro del pomeriggio, la preoccupazione si leggeva ormai chiaramente sul volto di mia madre e sentivo la voce di Agha Jun dietro la porta chiedere perché il dottore non fosse lì ad assistermi, mentre lei pregava le levatrici di fare qualcosa. Spesso perdevo i sensi per un attimo a causa del dolore, finché non ebbi più nemmeno la forza di lamentarmi. Parvin Khanum mi asciugava il sudore sulla fronte e cercava di consolarmi, dicendomi che era normale che il primo parto fosse così doloroso. Ma mia madre si ricordò di sua sorella, che dopo avere sofferto a lungo era morta: le sembrava di rivederla guardando me... Nonostante il dolore mi togliesse il respiro ero perfettamente lucida, sentivo tutte le voci intorno a me e pensai che forse anch'io stavo per andarmene come la zia.
Erano le cinque passate, quando finalmente Hamid arrivò. Nel vederlo ritrovai forza e sicurezza. È davvero strano come il marito, anche il peggiore, possa rappresentare un appoggio importante per una donna nei momenti difficili. Poi arrivarono anche sua madre e le sue sorelle. Sentii la voce di mia suocera che urlava a un'infermiera: «Ma allora il medico dov'è? La ragazza sta molto male!». Sapevo che era preoccupata soprattutto per il bambino, ma mi fece comunque piacere. Mentre mi visitava, l'infermiera commentò: «Ma quante storie fanno! La dottoressa verrà quando sarà il momento».
Erano le undici di sera e non avevo più nemmeno la forza di respirare. Mi portarono in un'altra stanza. Dai loro discorsi capii che c'era una complicazione con la respirazione del bambino. La dottoressa s'infilò i guanti in fretta e urlò all'infermiera che non riusciva a trovare la vena, e io non capii più nulla...
Mi svegliai in una stanza pulita e luminosa. Khanum Jun stava seduta accanto a me e sonnecchiava. Non sentivo più dolore, ma ero esausta. «Il bambino è morto?» chiesi con un filo di voce.
«Ma cosa dici! È un maschietto bello come un fiore. Non hai idea della gioia che ho provato quando ho saputo che era un maschio. Ero così fiera e orgogliosa di fronte a tua suocera...»
«È sano?»
«Certo che è sano!»
Quando riaprii gli occhi, Hamid era entrato nella stanza. Sorrise e disse: «Congratulazioni! È stata dura, vero?».
Senza rendermene conto, cominciai a piangere. «La solitudine lo è stata di più», risposi.
Si sedette accanto a me e mi accarezzò i capelli, spazzando via tutta la mia amarezza.
«Mia madre ha detto che il bambino è sano, lo hai visto anche tu? E gli hai contato le dita? E se è sano, perché non me lo portano? Voglio vederlo!»
Hamid rise fragorosamente.
«È sanissimo e ha tutte le dita, solo che è piccolo - pesa due chili e settecento grammi - e lo tengono nell'incubatrice. E poi è stato un parto difficile e devono aspettare che gli si regolarizzi il respiro, ma si vede già che è un diavolaccio. Da lì dentro continua a scalciare e a urlare come un matto!»
Il giorno seguente stavo molto meglio e finalmente mi portarono il bambino. Povero piccolo, aveva la faccia piena di graffi: mi dissero che erano i segni del forcipe. Ringraziai Dio che fosse sano, però non smetteva di piangere, si rifiutava di attaccarsi al mio seno e io ero troppo stanca per fare qualsiasi cosa.
Il pomeriggio la mia stanza si riempì di gente. Ognuno vedeva nel bambino una somiglianza diversa: la madre di Hamid diceva che era tutto suo papà, mentre Khanum Jun era fermamente convinta che assomigliasse ai miei fratelli.
Poi Khanum Jun chiese a Hamid come avevamo deciso di chiamarlo.
«Ma è ovvio, lo chiameremo Siamak», e guardò il padre che rise scuotendo la testa. Io rimasi di stucco: non avevamo mai parlato del nome del bambino, ma io avevo stilato una lunga lista di possibili nomi e quello non solo non ne faceva parte, ma era forse l'unico che non mi era mai passato per la testa.
«Siamak? Perché proprio Siamak? Ho trovato un sacco di nomi che mi piacciono di più», ribattei e Khanum Jun mi diede manforte: «Che nome è Siamak? Bisognerebbe mettere i nomi degli Aemme Athar ai propri figli, in modo che siano di buon auspicio!».
Agha Jun le fece cenno di stare zitta e di non intromettersi. Ma Hamid era fermo sulla sua decisione e rispose in tono perentorio: «No, deve essere Siamak».
«Con quel nome finirà che a scuola lo chiameranno Sia - nero - anche se il mio bambino è così bianco...»
Il suo sguardo e il suo tono furono quelli del saggio che replica allo stolto: «Bisogna scegliere nomi importanti per i propri figli».
Khanum Jun mi guardò in cerca di una risposta, ma io alzai le spalle: era inutile. Tempo dopo scoprii che anche i figli dei suoi compagni avevano nomi di militanti morti per la causa, «nomi da veri comunisti», come li definivano loro.

Dopo l'ospedale andai a casa dei miei e vi rimasi per dieci giorni, finché non imparai ad accudire il bambino, poi tornai a casa mia.
Il mio maschietto era sano, ma piangeva in continuazione. Lo tenevo spesso in braccio e di notte camminavo per la casa per calmarlo. La mattina dormiva a singhiozzo e io avevo mille altre cose di cui occuparmi. Per fortuna Parvin Khanum veniva a trovarmi quasi tutti i giorni, e a volte anche Khanum Jun. Parvin mi fu di grande aiuto. Era lei che sbrigava tutte le mie commissioni e mi faceva la spesa, perché io non potevo uscire e Hamid non sentiva il minimo senso di responsabilità. L'unico cambiamento delle sue abitudini fu dormire in soggiorno, e aveva anche la faccia tosta di lamentarsi che il pianto del piccolo gli disturbava il sonno e che in quella casa non c'era più pace!
Portai il bambino dal pediatra un paio di volte insieme a Parvin Khanum. Il dottore diceva che i bambini che nascono con il forcipe dopo parti difficili di solito sono più nervosi, ma non hanno problemi di salute particolari: non dovevo preoccuparmi di nulla perché il mio bimbo era perfettamente sano.
Un altro medico mi disse che il pianto poteva dipendere dalla fame, forse il mio latte non era abbastanza nutriente, e prescrisse quello in polvere.
La stanchezza, la mancanza di sonno, il pianto continuo di mio figlio e soprattutto la solitudine mi rendevano sempre più depressa giorno dopo giorno. Non avevo nessuno con cui confidarmi, mi ero convinta che fosse colpa mia se Hamid non tornava mai a casa e ormai mi davano fastidio tutti... La tristezza e le vecchie sconfitte mi opprimevano e mi sembrava che la mia vita fosse finita: non mi sarei mai più liberata da quel fardello di responsabilità che gravava solo sulle mie spalle.
Ormai quando il bambino piangeva piangevo anch'io, mentre Hamid sembrava non badare affatto né a me né a suo figlio. Continuava tranquillamente a fare ciò che voleva di giorno e di notte mentre io non uscivo di casa da quattro mesi, se non per portare il bambino dal pediatra. Khanum Jun commentava che tutte le donne avevano figli, ma nessuna se ne occupava esageratamente come me che me ne stavo sempre chiusa in casa.
Con l'arrivo della primavera, le giornate più lunghe e l'aria più tiepida cominciai a sentirmi meglio: il bambino era cresciuto, e io non ne potevo più della mia passività e della mia depressione. Così, un giorno incantevole del mese di Ordibhesht, decisi che dovevo riscuotermi e riprendere a vivere. Pensai a me stessa e alle mie responsabilità di madre: era necessario che fossi forte, capace di camminare sulle mie gambe e di creare un ambiente sereno per il mio bambino.
Con quella decisione tutto cambiò. La voglia di vivere riprese a scorrermi nelle vene. Perfino Siamak sembrava essersi accorto del mio cambiamento: piangeva meno e spesso mi sorrideva e allungava le piccole braccia verso di me. In quei momenti dimenticavo tutte le mie tristezze e anche se di notte mi teneva ancora sveglia ci avevo fatto l'abitudine e mi pesava meno. A volte mi sedevo e rimanevo a osservarlo a lungo: ogni suo movimento aveva un significato particolare ed era come esplorare un nuovo mondo.
Giorno dopo giorno diventavo più forte e gli volevo più bene, come se l'amore materno stesse lentamente diffondendosi in ogni mia cellula. Ogni giorno mi sembrava di amarlo più del giorno precedente e che non potesse esistere sentimento più grande.
Non avevo più bisogno di parlare a me stessa per non sentire la solitudine. Adesso parlavo al mio bambino e gli cantavo filastrocche, mentre lui mi faceva capire con l'espressione vivace dei suoi grandi occhi quale era la sua preferita e batteva le mani alle canzoncine più movimentate. Tutti i pomeriggi lo portavo a spasso con il passeggino per le viuzze e i viali intorno a casa in mezzo ad alberi antichissimi e lui andava matto per quelle passeggiate.
Fati cominciò a venire a casa nostra con qualsiasi pretesto: le piaceva tenere in braccio Siamak e coccolarlo. Dopo la chiusura della scuola capitava spesso che rimanesse anche a dormire e la sua presenza mi era veramente di grande aiuto.
Tornarono anche i pranzi del venerdì a casa dei genitori di Hamid. Anche se Siamak era un brontolone e non si faceva abbracciare facilmente, la famiglia di Hamid lo adorava e non accettava per nessun motivo che si annullassero quegli incontri. Ma il più bello di tutti era il rapporto silenzioso tra Siamak e Agha Jun, che adesso passava a trovarci almeno due volte la settimana dopo la chiusura del negozio. All'inizio si inventava le scuse più svariate per giustificare le sue visite, ma presto non ne sentì più il bisogno: veniva semplicemente per giocare un po' con il nipotino e poi se ne andava.
E così Siamak era riuscito a dare nuovo colore e profumo alla mia esistenza: con la sua presenza soffrivo meno l'assenza di Hamid. Le mie giornate seguivano i suoi ritmi: gli davo la pappa, lo lavavo, gli parlavo e cantavo filastrocche. Anche lui richiedeva costantemente la mia attenzione e le mie cure e non mi perdeva mai di vista. Così, dovetti mettere da parte lo studio e gli esami. Intanto, un nuovo passatempo ci occupava per ore: la televisione che il padre di Hamid aveva regalato a Siamak.
All'inizio dell'estate andammo in vacanza con i miei suoceri. Fu una settimana indimenticabile! Hamid si era inventato mille scuse per evitare quel viaggio, ma sua madre aveva avuto la meglio. Era la prima volta che andavo al mare ed ero emozionata ed eccitata come una bambina. Alla vista di quella bellezza e dei suoi colori cangianti rimasi totalmente senza fiato. Sarei potuta rimanere ore seduta sulla spiaggia a godermi una tale meraviglia. Anche Siamak sembrava entusiasta del mare e della famiglia riunita. Continuava a buttarsi fra le braccia di Hamid e dalle sue braccia non era disposto a tornare nemmeno da me, se non quando era affamato e voleva il latte. E anche in quelle piccole pause non smetteva di tenere stretta la mano di Hamid nella sua, piccola e paffuta. I genitori di Hamid si commuovevano a vedere l'attaccamento del nipote per il loro amato figlio. Una volta sua madre mi sussurrò all'orecchio: «Hai visto? Hamid non riuscirà tanto facilmente ad abbandonarlo per i suoi amici quando fa così con lui... Devi mettergli in braccio il secondo quanto prima!».
Mio marito aveva comprato un cappello di paglia per proteggere la pelle candida di Siamak dai raggi dannosi del sole. Io, invece, mi ero abbronzata ed ero diventata di un bel colore ambrato. Un giorno mi accorsi che mia suocera gli stava sussurrando qualcosa all'orecchio, mentre mio marito si girava a guardarmi. Ormai avevo completamente dimenticato chador e rusari, anche se continuavo a rispettare certe regole nel vestire. Quel giorno indossavo un abito a maniche corte dall'ampio scollo, molto più coprente dei costumi da bagno delle altre signore, ma quando mi osservai mi sembrò di essere troppo svestita e pensai che avevo perso ogni pudore...
Quando Hamid mi si sedette accanto gli chiesi preoccupata cosa gli aveva detto la madre, avevo capito che stava parlando di me. Lui disse: «Niente», ma io insistetti, volevo sapere che cosa non le piaceva di me o del mio aspetto. Hamid si infastidì. «Certo che questa faccenda della rivalità fra suocera e nuora ve l'hanno proprio inculcata nella testa! Non mi stava dicendo niente di negativo, anzi... se proprio vuoi saperlo mi ha detto che abbronzata sei ancora più bella.»
Colsi al volo l'occasione per chiedergli cosa ne pensasse lui e Hamid mi squadrò dalla testa ai piedi sorridendo pieno di ammirazione e rispose: «Ha ragione: sei davvero bella, e lo diventi di più ogni giorno che passa!».
Una sensazione di felicità e appagamento mi riempì il cuore e sorrisi anch'io senza accorgermene. Mi era piaciuto molto ricevere i suoi complimenti: era la prima volta che lo faceva in modo così diretto. Però mi schermii con modestia attribuendo ogni merito al sole e ricordandogli com'ero pallida prima, soprattutto l'anno passato quando sembravo addirittura malata. Ma lui insistette: «Malata no, piuttosto sembravi una bambina fragile, ora invece sei più adulta e più piena, la tua carnagione è splendida, i tuoi occhi e i tuoi capelli sono più brillanti. Insomma ti stai trasformando in una donna completa e stupenda!».
Quella settimana fu tra le più belle della mia vita e il ricordo di quei giorni caldi e luminosi rese più sopportabili tante notti fredde passate in solitudine.

18.

Il mio Siamak era un bambino sveglio, vivace e meraviglioso. Hamid mi ripeteva ridendo un detto straniero: «Esiste un solo bambino meraviglioso sulla terra ed è quello di ogni madre».
Cominciò a camminare molto presto e riusciva a comunicare i bisogni con parole di sua invenzione che io sapevo decifrare. Da quando aveva cominciato a muovere i primi passi, non stava più un solo istante fermo e tranquillo. Prendeva con la forza tutto quello che voleva e se non riusciva a ottenerlo si metteva a urlare. Io ero a sua disposizione tutto il giorno e cercavo di soddisfare ogni suo desiderio.
La previsione della madre di Hamid si rivelò sbagliata: l'amore e le necessità di suo figlio non riuscirono a legare Hamid alla vita familiare. Dopo un anno mi tornarono alla mente i miei vecchi progetti, ma dovendomi occupare da sola di Siamak riprendere a studiare era impossibile. Aveva due anni quando finalmente riuscii a dare l'esame dell'undicesima classe e a quel punto mi mancava solo un anno al diploma e al compimento del mio sogno di sempre, ma dovetti nuovamente accantonarlo perché pochi mesi dopo scoprii di essere di nuovo incinta.
Sapevo che Hamid non sarebbe stato felice di quella notizia, ma non mi aspettavo una reazione così pesante e piena di rancore. Cominciammo a litigare, si arrabbiò e mi urlò contro, chiedendomi perché non avessi preso la pillola correttamente. Per quanto gli dicessi che non l'avevo fatto perché mi faceva stare male, continuava a sbraitare che era colpa mia e del mio stupido modo di pensare: tutte prendevano la pillola ormai, chissà perché dava disturbi solo a me... La verità era che mi piaceva sfornare bambini e che, qualsiasi possibilità venisse offerta a quelle come me, avremmo comunque scelto la maternità come unico scopo della nostra vita... Pensavo forse che rimanendo incinta avrei potuto tenerlo legato al punto di fargli abbandonare la sua lotta?
Era falso e ingiusto e mi ribellai. «Ma se non hai fatto nemmeno un sacrificio per tuo figlio! Hai paura di essere costretto a perdere un po' del tuo prezioso tempo con l'arrivo del secondo? Se non ti sei mai occupato di tua moglie e di tuo figlio finora, perché mai l'arrivo di un'altra creatura dovrebbe preoccuparti?»
«La vostra semplice esistenza mi è d'intralcio, mi state soffocando, e non ho proprio voglia dei piagnistei di un altro bambino! Devi prendere una decisione finché sei in tempo.»
«Quale decisione?»
«Devi abortire. Conosco un medico...»
«Dovrei uccidere mio figlio? Un bambino come Siamak?»
«Smettila con le tue sciocchezze! Ma quale bambino? Sono solo un paio di cellule, un puntino invisibile... Urli "mio figlio" come se già esistesse e stesse gattonando per casa.»
«Certo che esiste, è un essere umano, e ha già un'anima.»
«E chi te le ha insegnate queste cretinate, le comari di Qum?»
«Io mio figlio non lo uccido, e ti ricordo che è anche tuo figlio! Come puoi avere il coraggio di fare una cosa simile?»
«Hai ragione, è colpa mia... non avrei mai dovuto toccarti, anche se mi avvicinassi a te una volta all'anno rimarresti incinta lo stesso! Non farò più questo errore, lo giuro. E tu decidi come vuoi, ma non azzardarti a pretendere qualcosa da me.»
«Quali pretese ho avuto? Cosa hai mai fatto per me? Quali responsabilità ti sei assunto, per voler dire basta adesso? Puoi continuare a comportarti come se io e tuo figlio non esistessimo, come hai fatto finora...»
La seconda volta ero preparata e avevo pensato a tutto quello di cui avrei avuto bisogno. Adesso anche Khanum Jun aveva il telefono, in modo che potessi mettermi in contatto con lei più facilmente, e perché non mi facessi prendere dal panico come la prima volta. Fortunatamente avrei partorito d'estate, quando le scuole erano chiuse. Eravamo d'accordo che le ultime due settimane Fati sarebbe stata a casa con me, così se fossi dovuta andare all'ospedale all'improvviso Siamak non sarebbe rimasto solo. Avevo preparato anche le poche cose che servivano per il bambino e mi sentivo più tranquilla, ma Khanum Jun mi chiedeva continuamente perché mi preoccupassi tanto: non c'era Hamid con me? Io rispondevo che non potevo fare affidamento su di lui perché era molto preso dal lavoro, a volte doveva restare in tipografia anche la sera e altre far fronte a imprevisti o partire all'improvviso.
Tutto andò nel migliore dei modi. Sapendo di dover contare sulle mie sole forze, organizzai e programmai ogni cosa per liberarmi dall'ansia e dalla paura. Come avevo previsto, Hamid non solo non fu presente al travaglio, ma non ne seppe nulla fino a due giorni dopo il parto.
Khanum Jun era arrabbiatissima.
«Anche noi non avevamo nostro marito accanto durante il parto, ma poi passava a trovarci, ad accarezzare sua moglie e suo figlio... Tuo marito è proprio strano, si crede chissà chi!»
«Smettetela Khanum Jun, lasciate perdere! Per me è molto meglio non averlo qui.»
Quanto ero più forte ed esperta della volta precedente! Sì, il dolore e il travaglio furono comunque duri, ma al momento della nascita del bambino ero cosciente e sentii subito il suo pianto, provando una sensazione nuova: non avevo più bisogno di tempo per sentirmi madre. L'amore materno esisteva già in tutto il mio essere. Il dottore disse: «Congratulazioni, è un bel maschietto cicciottello».
Al contrario della prima volta, niente riguardo al bambino mi sembrò strano e mi colse impreparata. I suoi pianti non mi gettavano più nel panico e non mi spaventavo sentendolo starnutire o tossire. Le notti in bianco mi pesavano meno e lui era molto più calmo e tranquillo di Siamak. Il carattere dei miei bambini rispecchiava perfettamente il mio stato d'animo al momento della loro nascita.
Questa volta, dopo l'ospedale andai direttamente a casa nostra. Per i bambini era meglio così. E sin dall'inizio cominciai a occuparmi delle faccende domestiche oltre ad accudire i miei piccoli. Sapevo che non potevo riporre alcuna speranza in Hamid. Lui era riuscito a ottenere l'alibi che cercava da anni: con me nel ruolo del colpevole, si era finalmente liberato di ogni residua responsabilità e mi aveva scaricato addosso anche i suoi piccoli compiti. E per di più si comportava come se gli si dovesse qualcosa. Tornava a casa sempre più di rado la notte. Si era preso una stanza tutta per sé e sembrava non avere più niente a che fare con noi tre. Il mio orgoglio non mi permetteva di chiedergli niente, o forse inconsciamente sapevo che sarebbe stato inutile.
In quel periodo il mio problema maggiore era Siamak: non mi avrebbe facilmente perdonata di aver portato un intruso in casa. Quando tornai dall'ospedale con il suo fratellino in braccio, si comportò come se avessi commesso il peggiore dei crimini nei suoi confronti: non solo non si avvicinò nemmeno alla mia gonna, ma scappò via e si nascose sotto il letto. Diedi il neonato a Fati e andai a cercarlo. Riuscii a convincerlo a uscire dal suo nascondiglio blandendolo con molte parole dolci, lo presi in braccio, lo baciai e gli dissi quanto bene gli volevo. Poi gli porsi la macchinina che avevo già comprato per lui prima del parto e gli assicurai che era un regalo da parte del fratellino.
La guardò incredulo e, se pur riluttante, si decise a venire a vedere il nuovo arrivato, ma ogni altro tentativo fu inutile e lui divenne sempre più capriccioso e imbronciato. Il suo linguaggio peggiorò, storpiava le parole e le inseriva male nella frase, nonostante già dai due anni parlasse bene e riuscisse a esprimere le sue necessità senza problemi. Ricominciò anche a farsi la pipì addosso, tanto che dovetti di nuovo fasciarlo. Era così triste che a guardarlo mi sentivo stringere il cuore. Le sue piccole spalle sembravano ancora più fragili sotto il peso della malinconia. Non sapevo cosa fare. Il dottore mi aveva consigliato di non prendere in braccio l'altro bambino di fronte a lui e di coinvolgerlo nelle cure del fratellino. Ma come? Non c'era qualcuno che potesse distrarre Siamak al momento dell'allattamento e lui si avvicinava al fratello solo per infastidirlo, figuriamoci se poteva sentirsi partecipe delle sue cure! Mi sembrava che stesse deperendo, ma io non potevo riempire da sola il vuoto che si era creato nella sua vita: ciò di cui aveva bisogno in quel momento era un padre.
Passò un mese, e non avevamo ancora preso in considerazione nessun nome per il bambino. Quando Khanum Jun venne a trovarmi insieme a Parvin Khanum e lo seppe, sbottò: «Questo padre sconsiderato non vuole dare nemmeno un nome a suo figlio? Perché non vi decidete? È peccato! Gli altri per la scelta del nome del proprio figlio fanno feste e cerimonie... e voi ve ne disinteressate completamente! Ha già quaranta giorni, dovrai pur chiamarlo in qualche modo, non puoi certo chiamarlo per sempre nini...».
«Non lo chiamo affatto nini!»
«E allora come lo chiami?»
Senza accorgermene, mi uscì: «Saeid».
Parvin Khanum mi rivolse uno sguardo preoccupato e gli occhi le si velarono di lacrime. Khanum Jun, che ignorava quel nome, disse che non era affatto male, anzi, stava bene vicino a Siamak. Un'ora dopo, mentre ero impegnata ad allattare il bambino, Parvin Khanum mi si sedette accanto e mi disse di non farlo.
«Non fare cosa?»
«Non chiamare tuo figlio Saeid.»
«E perché? Non sembra anche a te un bel nome?»
«Non fare la finta tonta, sai bene a cosa mi riferisco! Perché ti aggrappi a una cosa del genere? Perché vuoi far rivivere i ricordi amari?»
«Non lo so, forse voglio soltanto chiamare un nome familiare in questa casa gelida... Non hai idea di quanto sia sola e di quanto abbia bisogno di amore. Se ci fosse stato solo un briciolo di amore in questa casa, forse avrei dimenticato quel nome.»
«Ma così, ogni volta che chiamerai tuo figlio ti ricorderai di lui, e la tua vita sarà ancora più difficile di quanto non sia adesso!»
«Lo so...»
«Allora dagli un altro nome!»
Qualche giorno dopo approfittai del fatto che Hamid fosse a casa e gli dissi: «Non ti sembra arrivato il momento di compilare il certificato di nascita di tuo figlio? Prima o poi dovremo dargli un nome... ci hai pensato?».
«Certo e ho anche già deciso: si chiamerà Ruzbeh.»
Quella volta conoscevo il personaggio. E non ero disposta per niente al mondo a dare al bambino un nome impostomi con la forza. Non doveva portare il nome di un eroe militante della sinistra, ma uno che avesse un significato per me e si addicesse a lui.
«Assolutamente no! Questa volta non ti permetterò di affibbiare a mio figlio il nome di uno dei tuoi idoli. Desidero che abbia un nome piacevole, non uno che richiama alla mente un eroe morto ogni volta che lo si pronuncia! Io non voglio che mio figlio diventi un eroe per gli altri, voglio che abbia una vita tranquilla, semplice e felice.»
«Sei proprio una donnetta ignorante che non capisce il valore della rivoluzione e degli eroi che ci porteranno alla libertà... Pensi soltanto a te stessa e al tuo orticello.»
«Ma smettila! Non posso più sopportare le tue prediche. Sì, hai ragione, sono ignorante ed egoista, penso soltanto a me e ai miei figli perché nessun altro sembra curarsi di noi, e poi tu stesso sei stato molto chiaro nel non accettare nessuna responsabilità riguardo a questo bambino, non puoi ricordarti di essere padre solo per dargli il nome che più ti aggrada. Questa volta scelgo io: il suo nome sarà Masuud.»

19.

Siamak aveva tre anni e mezzo e Masuud otto mesi quando Hamid sparì. All'inizio non pensavo che la sua partenza avrebbe implicato questo: mi disse che lui e gli altri avevano in programma di andare a Rezaieh per un paio di settimane, ma non voleva che i genitori e i parenti di Tabriz lo sapessero e non sarebbe andato a trovare nessuno. Gli feci notare che suo padre sarebbe venuto sicuramente a saperlo da qualcuno della tipografia, ma lui ci aveva già pensato e aveva trovato un motivo di lavoro per la sua assenza: un cliente che aveva dei libri antichi da ristampare... Probabilmente una decina di giorni gli sarebbero bastati.
«Quindi non sei certo della durata del tuo viaggio?»
«No, e non cominciare a farla lunga! Se avremo successo, resteremo di più, altrimenti potremmo anche tornare fra una settimana.»
E alle mie domande su cosa andava a fare e con chi mi rispose di non impicciarmi.
«Scusami! Non hai certo l'obbligo di dirmi dove vai, figurati, in fondo chi sono io per pretendere di sapere quello che fai...»
«Non offenderti, per favore! Ti chiedo solo di non fare troppe storie, di rispondere a tutti che sono in viaggio per lavoro, e soprattutto di comportarti in modo da non fare preoccupare inutilmente mia mamma...»
Le prime due o tre settimane passarono tranquille. Noi, che eravamo già abituati da molto tempo all'assenza di Hamid, non avevamo problemi. Ci aveva lasciato i soldi per un mese intero e io avevo anche qualche risparmio da parte. Dopo un mese i suoi genitori cominciarono a preoccuparsi, ma io ogni volta li tranquillizzavo dicendogli che mi chiamava regolarmente per darmi sue notizie, che stava bene, ma aveva ancora del lavoro da sbrigare via e altre menzogne del genere.
Agli inizi del mese di Khordad cominciò a fare caldo improvvisamente. Tra i bambini era scoppiata un'epidemia, dicevano che si trattava di colera, e nonostante le mie cure e attenzioni non riuscii a impedire che anche i miei figli si ammalassero.
Appena mi accorsi della febbre e dei disturbi intestinali di Masuud, portai entrambi dal pediatra, comprai le medicine e tornai a casa, ma la sera stessa cominciarono a peggiorare. Vomitavano qualsiasi medicina dessi loro e la febbre continuava a salire. Masuud era quello messo peggio: ansimava come un passerotto, con il pancino che andava su e giù. Siamak aveva le guance rosse per la febbre e voleva continuamente che lo portassi in bagno. Non sapevo più cosa fare, gli bagnavo le gambe e le braccia, gli mettevo un panno freddo sulla fronte, ma non vedevo miglioramenti. Masuud aveva le labbra bianche e secche, e mi ricordai dell'ultima cosa che mi aveva detto il medico: «I bambini si disidratano rapidamente, e questo è molto pericoloso, può portarli alla morte». Il mio istinto mi disse che se avessi aspettato a intervenire li avrei persi, ma non riuscivo a ragionare lucidamente.
Guardai l'orologio: erano quasi le due e mezzo di notte, piangevo e non sapevo cosa fare. Poi mi venne in mente che c'era un ospedale pediatrico in via Takhte Jamshid, ma dovevo sbrigarmi. Li vestii in fretta, infilai nella borsa tutti i soldi che mi erano rimasti e uscii con Masuud in braccio e Siamak per mano. Non c'era anima viva. Il povero Siamak aveva solo tre anni e mezzo e con quella febbre faceva fatica a camminare, ma io non riuscivo a tenere in braccio tutti e due. Loro non avevano più neppure la forza di piangere e di lamentarsi.
Il percorso da casa alla strada principale sembrava allungarsi... continuavo a camminare, ma non ci arrivavo. Siamak stava perdendo i sensi: lo stavo letteralmente trascinando, e mi sentivo il cervello scoppiare. Avevo un unico pensiero fisso: se fosse successo qualcosa ai miei figli, mi sarei tolta la vita.
Un'auto privata mi si fermò accanto. Aprii la portiera senza esitare e salii con i bambini, dicendo subito: «All'ospedale infantile di Takhte Jamshid, la prego faccia in fretta!».
L'uomo alla guida sembrava gentile e educato. Mi guardò dallo specchietto retrovisore e mi chiese cosa fosse successo. Gli spiegai che erano improvvisamente peggiorati e avevano la febbre altissima e lo pregai di fare più in fretta che poteva.
Avevo il cuore che batteva all'impazzata. La macchina si muoveva rapidamente tra le strade deserte della notte. L'uomo mi chiese ancora dove fosse il padre, non potevo certo ricoverare due bambini da sola... ma io risposi che ero abituata a fare da sola, non avevo altra scelta se non volevo perderli.
«Vuol dire che non hanno un padre?»
«No, non ce l'hanno!» risposi con rabbia e mi girai dall'altra parte.
Appena arrivati, l'uomo saltò giù dall'auto, lui prese in braccio Siamak e io Masuud ed entrammo nell'ospedale. Il medico del pronto soccorso, nel vedere le condizioni dei bambini, corrugò la fronte e disse: «Perché siete venuti così tardi?» poi mi prese dalle braccia Masuud che aveva perso i sensi. Lo implorai di salvarli.
«Faremo tutto quello che è in nostro potere, voi andate all'accettazione, al resto penserà Dio.»
Lo sconosciuto mi guardava impietosito, mentre io non riuscivo più a trattenere le lacrime. Mi sedetti con la testa fra le mani e lo sguardo mi cadde sui piedi: ero in ciabatte...
C'era bisogno di più denaro per il ricovero dei bambini e l'uomo mi disse che me l'avrebbe dato lui, ma io non accettai, diedi tutto quello che avevo in borsa e assicurai che avrei portato il resto la mattina seguente. Il responsabile assonnato dell'accettazione brontolò un po', ma accettò. Dissi allo sconosciuto che poteva andare e tornai al pronto soccorso. I bambini mi sembravano ancora più piccoli e deboli su quel letto d'ospedale.
A Siamak era stata attaccata una flebo, ma non riuscivano a trovare la vena al povero Masuud, che subiva tutto senza un lamento. Tenevo le mani sulla bocca per soffocare il pianto che avrebbe disturbato medici e infermieri. Quando il dottore si accorse di me, con un cenno della testa all'infermiera le fece capire di farmi uscire. Lei mi posò una mano sulla spalla e mi accompagnò fuori dalla stanza. Pensai che Masuud stesse morendo, ma mi rassicurò. In quel momento il problema principale era trovargli una vena per poter mettere la flebo, cosa assolutamente necessaria per salvarlo. Mi esortò a pregare per lui.
Possibile che tutti quei medici e infermieri non riuscissero a trovare una vena? Mi spiegò che le vene dei bambini sono piccole e delicate e avendo lui perso così tanti liquidi era ancora più difficile.
Per tutto quel tempo avevo continuato a ripetermi Khodaya, Dio mio, ma non ero riuscita a pronunciare nessuna preghiera. Avevo bisogno d'aria fresca e di vedere il cielo: non riuscivo a rivolgermi a Dio senza alzare gli occhi al cielo, come se fosse l'unico modo per trovarmi faccia a faccia con Lui. Uscii. Il soffio leggero dell'aria mattutina mi accarezzò il viso. Guardai il cielo ancora buio e le stelle che non si decidevano a spegnersi. Fissando l'orizzonte, mi appoggiai al muro con le gambe che tremavano sotto il peso del mio corpo afflitto e stanco e mi rivolsi a Dio. Non sapevo per quale motivo mi avesse fatta nascere, ma avevo sempre cercato di adeguarmi al suo volere. Se però avesse deciso di portarsi via i miei figli, non l'avrei accettato e non mi sarebbe rimasto nulla di cui ringraziarlo. Non volevo essere blasfema, ma sarebbe stata un'ingiustizia troppo grande. "Ti prego non portarmeli via, lasciali a me", pensai, con un'intensità tale, che fui sicura che mi avesse sentito.
Tornai nella sala d'attesa mentre aprivano la porta della stanza. La flebo era attaccata al piede di Masuud che ora era bloccato per impedirgli di muoverlo. Erano riusciti a mettergli la flebo, ma era presto per sciogliere la prognosi. Bisognava aspettare ancora...
Passavo da un letto all'altro: il lamento silenzioso di Siamak e il movimento della testa di Masuud mi rendevano stranamente fiduciosa. Alle otto del mattino portarono i bambini in reparto: il dottore mi disse che erano fuori pericolo, ma bisognava controllare sempre che la flebo non si staccasse dal braccio di Siamak e dal piede di Masuud.
Khanum Jun, Parvin Khanum e Fati entrarono improvvisamente nella stanza e nel vedere i bambini Khanum Jun scoppiò in lacrime. Siamak piagnucolava e qualcuno doveva continuare a stringergli la mano, mentre Masuud era ancora intontito.
Un'ora dopo arrivò anche Agha Jun che fissò Siamak con occhi tanto addolorati da farmi stringere il cuore. Appena lo vide, Siamak allungò le braccia verso di lui e diede sfogo al pianto, ma Agha Jun riuscì a calmarlo e lo coccolò fino a farlo addormentare.
Poi arrivarono anche il padre e la madre di Hamid seguiti da Mansureh. Khanum Jun li salutò con uno sguardo furente, ma io le feci subito capire che non doveva certo prendersela con loro, che erano dispiaciuti quanto lei e non c'entravano niente. Tutte le donne si offrirono di rimanere con me, ma io rifiutai e chiesi a Parvin Khanum di restare. Fati era ancora troppo piccola e Mansureh aveva i suoi bambini cui pensare. Io e Parvin rimanemmo sveglie tutta la notte. Lei stringeva la mano di Siamak, mentre io mi ero sdraiata accanto a Masuud e non staccavo gli occhi dalla flebo, perché dal pomeriggio anche lui aveva cominciato a essere irrequieto.
Dopo tre giorni io e i piccoli tornammo a casa sfiniti, avevamo perso gran parte del nostro peso. Erano quattro notti che non dormivo, avevo occhiaie profonde e le guance infossate. Parvin Khanum diceva che sembravo una drogata. Lei e Fati rimasero con me per aiutarmi. Feci il bagno ai bambini e io stessa rimasi per un po' sotto il getto caldo e rigenerante della doccia. Speravo che l'acqua lavasse via anche tutto il dolore degli ultimi giorni, ma sapevo che quell'incubo sarebbe rimasto per sempre impresso nella mia mente e che mai avrei perdonato Hamid per la sua assenza in un momento così difficile. Dopo due settimane le cose tornarono alla normalità: Siamak riprese le sue solite birichinate, musi lunghi e bronci. Aveva accettato l'esistenza di Masuud, mi veniva in braccio, ma sentivo che nel profondo del cuore ce l'aveva ancora con me.
Masuud invece era sempre sorridente e di buonumore e si gettava fra le braccia di tutti. Diventava ogni giorno più dolce e più buono. Mi buttava le braccine al collo, mi baciava e mi mordicchiava il viso con i suoi pochi dentini. Era come se mi volesse mangiare per amore e le sue manifestazioni d'affetto erano meravigliose per me: non riuscivo a ricordare una sola volta in cui Siamak fosse riuscito a esprimermi il suo amore nello stesso modo, nemmeno quando era piccolissimo. Continuavo a chiedermi come due fratelli potessero essere così diversi...
Erano passati due mesi dalla partenza di Hamid e non avevamo ancora ricevuto alcuna notizia da parte sua, ma conoscendolo non me ne preoccupai. Il problema erano i suoi genitori, con i quali ero stata costretta a mentire ripetutamente, finché sua madre chiese al marito di informarsi alla tipografia e rintracciare il figlio.
Un giorno chiamò uno sconosciuto e mi chiese se avessi notizie di Shahrzad e Mehdi. Gli domandai chi era e lui mi rispose di essere il fratello di Shahrzad. Lui e gli altri parenti erano molto preoccupati perché i due sposi erano partiti per una vacanza di due settimane e non erano più tornati. Non avevano nemmeno dato loro notizie: erano spariti nel nulla e la madre non riusciva più a dormire...
Mi meravigliai che la meta della «vacanza» fosse Mashaad. Io pensavo fossero a Rezaieh, ma mi pentii subito di averlo detto e cercai di fare marcia indietro. Gli chiesi da chi avesse avuto il mio numero di telefono. Era stata Shahrzad e aveva aggiunto che, in caso di urgenza, quello era l'unico numero al quale qualcuno gli avrebbe risposto. Anche lui non capiva perché: non era la casa di Hamid Soltani? Glielo confermai, aggiungendo che anch'io non ne sapevo nulla e non potevo aiutarli.
A quel punto però cominciai a essere in pena: dov'erano finiti? Come mai non potevano fare nemmeno una telefonata per rassicurare le loro famiglie? Forse Hamid non si preoccupava per noi, ma mi sembrava strano che Shahrzad potesse essere così irresponsabile e noncurante. Forse era successo qualcosa.
Oltretutto non avevo più soldi: avevo speso tutto per l'ospedale dei bambini, ma non volevo farne parola con il padre di Hamid per non dargli altre preoccupazioni. Avevo già chiesto un prestito ad Agha Jun e uno a Parvin Khanum, ma ormai avevo speso anche quelli. Possibile che Hamid non si chiedesse come saremmo riusciti ad andare avanti? Forse gli era successo veramente qualcosa...
Passò anche il terzo mese. Non si riusciva più a calmare sua madre, e non me la sentivo di dire altre bugie, perché anch'io avevo cominciato ad angosciarmi. Lei piangeva di continuo e diceva che era certa che gli fosse successo qualcosa di grave perché altrimenti il figlio l'avrebbe sicuramente chiamata per rassicurarla. Evitava di dire cose che potessero offendermi, ma sapevo che mi considerava in qualche modo corresponsabile di quella situazione. Nessuno aveva il coraggio di ipotizzare una loro cattura. Manijeh propose di chiamare la polizia, ma io e suo padre avevamo paura di peggiorare le cose, mentre mia suocera continuava a insultare e maledire quei «delinquenti» dei suoi compagni.
Suo padre mi chiese se avessi qualche indirizzo o numero telefonico dei suoi amici, ma Hamid non me li aveva mai dati, e poi era molto probabile che fossero partiti tutti insieme. Gli raccontai che qualche tempo prima mi aveva chiamato il fratello di Shahrzad, anche lui preoccupato e in cerca di notizie, secondo il quale Shahrzad e Mehdi erano andati a Mashaad per una vacanza, mentre Hamid mi aveva detto che la meta era Rezaieh. Forse erano in posti diversi perché avevano compiti diversi?
Sentendo la parola «compiti» suo padre si allarmò, mi prese in disparte e mi ordinò di non parlare dell'assenza di Hamid. Tutti sapevano che era in viaggio, e io non dovevo far parola con nessuno della sua scomparsa. Dovevo sostenere che era ancora via per lavoro e che lo sentivo quotidianamente, in modo da non attirare l'attenzione. Nel frattempo lui sarebbe andato a Rezaieh per scoprire cosa stesse succedendo veramente. Poi mi chiese se avevo abbastanza soldi. Abbassai la testa e risposi che avevo speso tutto quello che mi era rimasto per l'ospedale.
«Ma perché non ci hai detto niente?»
«Non volevo che vi preoccupaste... ho chiesto dei prestiti.»
«Non dovevi farlo, dovevi venirli a chiedere a me!»
Tirò fuori dalla tasca un mazzo di banconote e mi disse di regolare tutti i debiti spiegando che me li aveva mandati Hamid. Dopo una settimana, suo padre tornò dal viaggio stanco e più preoccupato di prima perché non aveva scoperto niente. Aveva passato al setaccio tutto l'Azerbaijan fino al confine insieme al marito di Monir Khanum, ma di Hamid nessuna traccia. Mi preoccupai seriamente: non avrei mai pensato che un giorno sarei stata così in pensiero proprio per lui che aveva voluto che conducessimo due esistenze separate.

20.

Durante una notte agli inizi del mese di Shahrivar mi svegliai di soprassalto per un rumore che non riuscii a identificare. Faceva ancora caldo e le finestre erano aperte. Ascoltai con più attenzione. I rumori venivano dal nostro giardino e pensai con orrore che doveva per forza trattarsi di un ladro; era impossibile che Bibi uscisse in cortile nel cuore della notte.
Guardai l'orologio: erano le tre e dieci. Respirai profondamente, mi feci coraggio e mi avvicinai alla finestra in silenzio e con cautela. Nel chiarore lunare distinsi le ombre di una macchina e di tre uomini che stavano spostando velocemente della roba che non riuscivo a vedere. Volevo urlare, ma non mi uscì alcun suono dalla bocca e rimasi a fissare la scena paralizzata. Mi resi conto che non stavano portando niente fuori da casa nostra: al contrario, stavano portando qualcosa in cantina. Dunque non si trattava di ladri. Capii che sarei dovuta rimanere nascosta nel silenzio più assoluto. Dopo dieci minuti finirono. Un quarto uomo uscì dalla cantina e si unì agli altri. Anche in quel buio riuscii a riconoscerlo perfettamente: era Hamid! In silenzio spinsero la macchina fuori dal cortile. Hamid chiuse il cancello e cominciò a salire le scale. Provavo sentimenti contrastanti: rabbia e rancore si mescolavano in un vortice confuso di sollievo e felicità per il suo ritorno. Mi sentivo come una madre che dopo il ritrovamento del suo bambino prima gli dà un ceffone per punirlo e poi si getta in lacrime tra le sue braccia. Cercò di aprire la porta di casa senza fare rumore, ma io volevo dargli fastidio e appena mosse i primi passi in casa accesi la luce. Gli prese un colpo e rimase a fissarmi spaventato, per poi chiedermi quasi stupito e un po' stupidamente: «Sei sveglia?».
«Sì, a quanto pare... Finalmente da queste parti! Cosa ti è successo? Ti eri perso, per caso?»
«Ma quale caloroso benvenuto!»
«Ti aspettavi un bentornato? Certo che hai una bella faccia tosta! Dove sei stato per tutto questo tempo? Non ti sei nemmeno preso il disturbo di chiamare per darci tue notizie. Non ti è passato per la testa che forse noi qui eravamo in preda all'ansia e all'angoscia per te?»
«Già, si vede proprio quanto eri preoccupata!»
«Sì, lo ero davvero, e può anche non importartene, ma è possibile che tu non abbia pensato almeno ai tuoi genitori?»
«Io ti avevo avvertito di non preoccuparti, di non dare nell'occhio e di non dire niente a nessuno, e che forse ci saremmo dovuti fermare più del previsto.»
«Già, poteva reggere se i quindici giorni fossero diventati un mese, ma non quattro! Povero vecchio, ti ha cercato ovunque, temevo che alla fine gli sarebbe successo qualcosa!»
«Cercato? E dove è andato a cercarmi?»
«Dappertutto, negli ospedali, dai medici legali, nei commissariati...»
Sobbalzò terrorizzato. «Nei commissariati?»
D'un tratto mi sentii cattiva, volevo spaventarlo anch'io. «Sì, insieme al fratello di Shahrzad e ai parenti degli altri tuoi compagni: erano tutti preoccupati per voi e hanno anche fatto pubblicare le vostre foto sul giornale per rintracciarvi...»
Sbiancò come un lenzuolo e disse che eravamo tutti pazzi, che non ero nemmeno riuscita a fargli quel piccolo favore di mandare avanti le cose senza attirare l'attenzione e senza creare problemi... e così adesso loro erano spacciati! Poi cominciò a infilarsi in fretta le scarpe sporche di terra. Gli dissi che non poteva più andarsene: avrei chiamato io stessa il commissariato per raccontare che non era tornato a mani vuote... Mi guardava con un tale terrore dipinto sul viso che mi venne da ridere.
«Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? Vuoi farci ammazzare tutti? Qui non è più sicuro, devo chiamare i ragazzi, devo vedere come la possiamo sbrogliare!»
Aveva già aperto la porta per andarsene quando gli dissi che non era necessario: avevo mentito, nessuno era andato al commissariato, suo padre l'aveva cercato solo a Rezaieh senza successo.
Tirò un respiro di sollievo e sbottò: «Ma sei pazza o sadica? Stavo per morire d'infarto!». Non mi impietosii. Era quanto si meritava: provare la stessa angoscia che aveva causato a tutti noi. Gli sistemai cuscino e coperta in salotto. Lui voleva dormire nella sua stanza, ma era diventata la stanza dei bambini.
Non avevo ancora finito di parlare e la sua testa aveva appena toccato il cuscino che crollò in un sonno profondo, con ancora indosso i vestiti sporchi di terra.

21.

I mesi passavano rapidi. I bambini crescevano. I loro caratteri si definivano, sempre più distanti.
Siamak era un bambino fiero, indomito, difficile da trattare e facile al broncio. Tendeva a nascondere i sentimenti d'affetto, dei quali si vergognava, e appena qualcosa lo infastidiva scattava pronto ad abbattere l'ostacolo, qualsiasi fosse.
Al contrario, Masuud era calmo, sorridente e sempre di buonumore. Regalava affetto a tutti quelli che gli stavano intorno, perfino alle piante. Le sue carezze compensavano il mio bisogno d'amore.
I miei due bambini si completavano a vicenda in modo straordinario: Siamak dava gli ordini e Masuud agiva; Siamak inventava storie fantastiche e Masuud lo ascoltava rapito; Siamak faceva lo stupido e Masuud rideva; Siamak picchiava e Masuud le prendeva... Questo naturalmente mi dispiaceva e avevo il timore che l'indole mite e buona di Masuud soccombesse nel confronto con Siamak, ma non potevo difenderlo apertamente, perché bastava la mia minima presa di posizione a suo favore a far esplodere la rabbia e la gelosia del fratello. Con lo stesso ardore, tuttavia, Siamak difendeva Masuud da tutti gli altri, facendogli da scudo. Se qualcuno osava anche solo infastidirlo, reagiva così violentemente che a volte lo stesso Masuud doveva salvare il malcapitato dalle sue grinfie. Il loro nemico principale era Gholam Ali, figlio di mio fratello Mahmud, che aveva un'età compresa fra quelle di Siamak e Masuud. Non sapevo perché, ma non facevano in tempo a incontrarsi che cominciavano a litigare e a darsele di santa ragione. Hamid sosteneva che quello era il modo di giocare e di comportarsi dei maschi, ma io non ne ero del tutto convinta.
Mahmud, nonostante si fosse sposato un anno dopo di me, aveva già tre figli. Il primo era appunto Gholam Ali; la seconda, Zahrà, aveva un anno meno di Masuud e l'ultimo arrivato, Gholam Hossein, aveva poco più di un anno. Mahmud, tanto per cambiare, era sempre imbronciato e di cattivo umore, e ancora più fanatico della religione. Ehteramsadat si lamentava di lui con Khanum Jun: «Ultimamente è più svampito del solito, è capace di ripetere il namaz anche dieci volte, ma ha sempre paura di essersi dimenticato qualcosa!». Per me che lo conoscevo bene non c'era niente di cui stupirsi: era sempre stato così, e si trattava di fanatismo, non di smemoratezza, tant'è vero che nel lavoro dimostrava una lucidità perfetta e la sua attività aveva prosperato. Gestiva un negozio al bazar ed era considerato un intenditore senza eguali di tappeti. Non si faceva condizionare dallo zelo religioso negli affari, a parte condividere il suo guadagno mensile con lo zio di sua moglie. Questi recitava molte preghiere sul denaro facendolo diventare halal agli occhi di Mahmud, che così poteva dormire sonni tranquilli...
Ahmad, invece, si era ormai allontanato da tempo dalla famiglia. Nessuno sembrava preoccuparsi per lui a parte Parvin Khanum. Lei continuava a ripetere ai miei che dovevano fare qualcosa se non volevano perderlo. Il suo problema non erano più solo le notti passate per strada a ubriacarsi. Parvin Khanum era convinta che facesse uso anche di altre sostanze, ma mia madre non era disposta a crederle e pensava di salvarlo dal diavolo e dalle cattive compagnie con le sue preghiere. Agha Jun, invece, aveva completamente tagliato i ponti con lui.
Ali era cresciuto, ma come gli altri fratelli non era riuscito a prendere il diploma. Aveva lavorato per un periodo in una segheria al fianco di Ahmad, finché Agha Jun aveva fatto di tutto per allontanarlo dall'influenza negativa del fratello. Del resto, lo stesso Ali aveva cominciato a guardare con occhi diversi il comportamento di Ahmad. Proprio lui che lo aveva sempre considerato una specie di idolo, vedendolo sempre più infiacchito e assente, non solo di notte ma anche durante il giorno, cominciò ad allontanarsene. Finché l'idolo cadde definitivamente quando un pezzo grosso del caffè Jamshid lo picchiò a sangue e lo buttò in mezzo alla strada ubriaco fradicio, senza che Ahmed riuscisse a fare il minimo tentativo di difendersi. Anche in fabbrica i colleghi che in un passato non molto lontano gli morivano dietro e facevano di tutto per ingraziarselo, ora si prendevano gioco di lui. All'apparenza per le pressioni di Agha Jun, ma in realtà per tutti questi motivi, Ali infine si separò da Ahmad e si mise sotto l'ala pia e retta di Mahmud, sperando di diventare anche lui un giorno un uomo di fede ricco e potente.
Fati si trasformò in una ragazza modesta, dolce, delicata e timida. Aveva studiato fino alla terza superiore quando, come era ritenuto conveniente per una ragazza onorata, fu spedita alla scuola di taglio e cucito. D'altra parte, lei stessa non mostrava alcuna volontà di insistere per continuare gli studi.
Mandai Siamak a scuola un anno prima del dovuto. Sapevo che era pronto per cominciare a studiare e speravo che le regole scolastiche mettessero po' d'ordine nella sua personalità caotica e anche che spendesse la sua energia illimitata con i coetanei e fosse meno irrequieto a casa; ma anche il suo inizio a scuola, come d'altronde tutto ciò che lo riguardava, fu problematico. Fui costretta a entrare in classe con lui finché si abituò all'idea e mi concesse di restare fuori, ma non potevo andarmene: dovevo restare in cortile in modo che potesse vedermi dalla finestra ogni volta che ne sentiva il bisogno... Sapevo che aveva paura, ma purtroppo la dimostrava impuntandosi, urlando e facendo scenate. Il primo giorno di scuola, quando la vicepreside gli tese la mano per accompagnarlo in classe, lui gliela morse! L'unico modo per calmarlo quando era in preda alla rabbia era restare in balia del suo maremoto senza opporre resistenza. Allora lo prendevo in braccio e sopportavo i suoi calci e pugni finché si calmava e cominciava a piangere. Quelli erano gli unici momenti in cui potevo stringerlo forte a me, baciarlo e accarezzarlo, perché in condizioni normali non me ne dava il permesso e cercava anzi di mostrarsi indifferente all'affetto, quasi non ne avesse bisogno. Sapevo quanto fosse assetato d'amore e d'attenzione, in realtà, e mi faceva pena perché capivo che aveva una lacerazione interiore di cui non conoscevo le cause. L'unica cosa certa era che amava profondamente il padre e soffriva molto per la sua assenza, ma continuavo a pensare che ci si sarebbe abituato. Avevo letto molti libri di psicologia e cercavo di prestare la massima attenzione ai suoi comportamenti. In effetti, quando c'era Hamid, Siamak si trasformava. Proprio lui che non riusciva a stare fermo un secondo poteva passare anche ore accanto al padre ad ascoltarlo. Solo molto tempo dopo compresi che la sua insonnia non era altro che l'attesa testarda di Hamid. Quando mio marito era a casa, bastava una sua carezza al momento della nanna per farlo addormentare tranquillo. Fu per questo che soprannominai Hamid «sonnifero».
Fortunatamente, la presenza di Agha Jun e il suo amore riuscirono a colmare in parte il vuoto lasciato dal padre. Nonostante non gli piacesse attaccarsi a qualcuno, quando Agha Jun arrivava, il bambino gli girava intorno fino a saltargli sulle ginocchia alla prima occasione buona. Il nonno lo trattava con il massimo del rispetto, parlandogli come a un uomo, e Siamak ascoltava le sue parole senza mai controbattere. Era talmente legato a queste due figure maschili che non tollerava la minima attenzione da parte loro nei confronti di Masuud. Aveva chiaramente stabilito che soltanto gli altri, perfino io, potessero dividere il loro affetto tra lui e il fratello, o addirittura gli era indifferente se qualcuno gli preferiva Masuud; l'importante era non toccargli il padre e il nonno. Nel caso di Hamid il problema non si poneva: lui non rivelava mai nemmeno un briciolo di affetto per il figlio più piccolo... Agha Jun, invece, cercava di non mostrare troppa attenzione nei confronti di Masuud in presenza di Siamak, ma voleva un bene dell'anima anche all'altro nipote.
Finalmente, Siamak accettò la scuola e cominciò a frequentarla seriamente, anche se non passava mese in cui non mi chiamassero per le sue liti con gli altri bambini. Con Siamak a scuola, anch'io mi ricordai della mia istruzione. Non ero ancora riuscita a diplomarmi e avevo messo da parte una delle cose più importanti per me, perciò sentivo di aver tradito me stessa. Decisi di cogliere quell'occasione per riprendere in mano i libri. La mattina mi svegliavo presto e sbrigavo le faccende domestiche. Quando Siamak non c'era, Masuud giocava tranquillo per conto suo e non avevo alcun problema con lui: passava ore intere a disegnare con i suoi pastelli colorati e se faceva bel tempo giocava in cortile con il triciclo e io potevo studiare. Non avevo neanche bisogno di frequentare i corsi. La tranquillità durava fino al pomeriggio, quando Siamak tornava da scuola: era come l'arrivo un terremoto! E poi c'era il problema dei compiti, anche se presto mi resi conto che più mi mostravo intransigente più lui per ripicca non li faceva; così mi sforzai di non intromettermi troppo nelle sue faccende scolastiche e di lasciarlo fare. E spesso lo trovavo la mattina presto intento a studiare.

22.

Una mattina in cui ero sola in casa con Masuud, Parvin passò a trovarci e mi sembrò eccitata. Capii che aveva notizie importanti perché amava portarmele di persona. Il «notiziario» quotidiano me lo passava per telefono, ma le «edizioni straordinarie» richiedevano un faccia a faccia, con lei che mi descriveva tutto nei minimi dettagli fermandosi ogni tanto a prendere fiato in attesa della mia reazione.
«Allora, dimmi, qual è la notizia?»
«Notizia? Chi ha detto che si tratta di questo?!»
«Il tuo comportamento, l'espressione del tuo viso... Ti si legge in faccia che hai qualche novità da raccontarmi.»
«E va bene, hai indovinato, ma non puoi nemmeno immaginare quello che sto per dirti, e comunque prima devi portarmi del tè, ho la gola troppo secca per raccontare...»
Anche questo era tipico di Parvin: voleva che morissi di curiosità, e più la notizia era succosa più la tirava per le lunghe prima d'aprir bocca.
Corsi ad accendere il fuoco e tornai da lei.
«Non puoi iniziare a raccontare intanto che preparo il tè?»
«Eh no! Sto morendo di sete, in queste condizioni non posso dirti nulla...»
Un po' infastidita andai in cucina e tornai con un bicchiere d'acqua. «Adesso parla!» dissi in tono minaccioso.
Vedendo il mio broncio, si risolse a iniziare: «Su, non farmi il muso! Indovina un po' chi ho visto oggi...».
Sentii un tuffo al cuore e balbettai: «Saeid?».
«Ma no! Ci pensi ancora? Pensavo che con due figli ti fossi dimenticata il nome di quel ragazzo!»
Mi vergognai, quel nome mi era uscito così, inconsapevolmente. Possibile che lo desiderassi ancora così tanto?
«Ho detto il primo nome che mi è venuto in mente... Allora, chi hai visto?»
«La madre di... Parvaneh!»
«Nooo! Non stai scherzando, vero? Dove l'hai vista? E le hai parlato?»
«Con calma, una domanda alla volta! Versa quel tè che ormai è pronto, e io ti racconterò tutto per filo e per segno! Allora... oggi ero a Baghe Sepah Salar20 per vedere delle scarpe: all'improvviso dietro la vetrina di un negozio ho notato una donna identica alla signora Ahmadi, anche se molto invecchiata. A proposito, quanti anni sono che non la vedi?»
«Circa sette...»
«Sono entrata nel negozio e l'ho guardata meglio. Era proprio lei! All'inizio non mi ha riconosciuta, ma io volevo parlarle, soprattutto di te naturalmente... Così l'ho salutata e abbiamo chiacchierato del più e del meno. Poi mi ha chiesto dei vicini, ma non di te, allora ho accennato al fatto che ti vedo ancora, e finalmente si è sbottonata: ha detto che eri una cara ragazza, e che anche tuo padre era una brava persona, ma non avrebbe mai dimenticato il comportamento di tuo fratello, i suoi insulti, il disonore... erano stati obbligati a trasferirsi per questo motivo e Parvaneh aveva sofferto e versato fiumi di lacrime per te che eri la sua amica più cara, aveva paura che i tuoi fratelli ti facessero del male ed è tornata a cercarti molte volte, ma Khanum Jun non le ha mai aperto la porta... l'ultima volta è stato per portarti l'invito al suo matrimonio.»
«Davvero? Non me l'hanno dato! Ma perché? E quando si è sposata?»
«Tua madre avrà avuto sicuramente paura che ti "traviasse" di nuovo! Comunque è una storia vecchia: all'epoca non avevi ancora Masuud, sono passati almeno quattro anni.»
«Vuoi dire che sono quattro anni che Parvaneh è sposata?!»
«Certo, se avesse aspettato ancora sarebbe rimasta zitella...»
«Ma cosa dici, ha la mia età!»
«Infatti tu sei sposata già da sette anni.»
«Sì, ma io ci sono stata costretta, te lo ricordi? Sono stati gli altri a decidere per me... E con chi si è sposata?»
«Con un lontano parente. Pare che abbia avuto un sacco di pretendenti dopo il diploma, poi finalmente si è sposata con questo ragazzo che è medico e vive in Germania, e così è partita anche lei, ma di solito torna qui per l'estate... Ah, dimenticavo, ha anche una bambina di tre anni...»
Ero certa che mancasse qualcosa, ero in attesa della sorpresa finale. «...E poi ho detto alla signora Ahmadi che anche tu hai sofferto molto, che senti la mancanza di Parvaneh, che tuo fratello si è ormai infiacchito e non rappresenta più una minaccia per nessuno, se non per sé stesso. Insomma, sono riuscita a farmi dare il loro numero di casa!»
Tornai con la mente a sette anni prima: la comprensione e l'amicizia che erano nate fra me e Parvaneh non si erano ripetute con nessun altro ed ero certa che non avrei mai più trovato un'amica come lei, ma esitavo a telefonare a sua madre, non sapevo come comportarmi né cosa dire.
Quando mi decisi, qualche tempo dopo, sentire la voce della madre di Parvaneh mi fece venire un nodo in gola. Le dissi chi ero e che osavo farmi viva di nuovo perché Parvaneh era stata l'unica, la più preziosa amica che avessi avuto. Parlavo ancora con lei dentro di me, pensavo a lei ogni giorno e desideravo tanto rivederla. Volevo chiederle di perdonare me e la mia famiglia. Infine le lasciai il mio numero, sperando che Parvaneh mi chiamasse al suo ritorno.
La preparazione dell'ultimo esame fu molto impegnativa, perché dovevo badare anche ai bambini e alla casa e spesso studiavo di notte dopo che loro si erano addormentati, rinunciando a ore di riposo. Le volte in cui Hamid rientrava verso il mattino e mi trovava intenta a studiare si stupiva sempre della mia forza di volontà.
I miei esami finali furono subito dopo quelli di Siamak: realizzai finalmente il sogno che avevo inseguito per tanto tempo, qualcosa che le mie coetanee avevano ottenuto molti anni prima, senza quasi accorgersene e senza desiderarlo così ardentemente.

23.

L'attività clandestina di Hamid e dei suoi compagni diventava ogni giorno più pericolosa. Nonostante non sapessi nulla dei loro programmi, percepivo una minaccia vicina e costante. Dopo quel maledetto viaggio il loro gruppo aveva preso una forma sempre più definita e il loro operato era diventato sempre più serio e organizzato. Accadevano fatti intorno a noi che mi facevano sospettare il loro coinvolgimento, ma ero contenta di non saperne nulla e di restarne fuori. Solo così la mia vita coniugale era sopportabile e soprattutto potevo dominare la mia ansia nei confronti dei bambini. In casa, Hamid aveva comunque approntato un sistema di sicurezza speciale e studiato un percorso di fuga.
Il campanello d'allarme suonò un giorno d'estate alle sei del mattino. Hamid si precipitò al telefono prima di me e rimase ad ascoltare senza pronunciare nemmeno una parola. Poi sbiancò visibilmente e sbatté la cornetta. Passò quasi un minuto prima che riprendesse il controllo sotto il mio sguardo terrorizzato. Non avevo il coraggio di fare domande. Sistemò in fretta in un borsone indumenti e oggetti di prima necessità e tutti i soldi che avevamo in casa, mentre io cercavo di rimanere calma e di non essergli d'intralcio. Infine, tentando di frenare il tremito della mia voce, gli chiesi se erano stati scoperti.
«Credo di sì, anche se non so ancora bene quello che è successo. Hanno preso uno dei ragazzi. Si stanno muovendo tutti...»
«Chi hanno preso?»
«Non lo conosci, è nuovo nel gruppo.»
«Lui ti conosce? Sa dove viviamo?»
«No, o meglio non con il mio vero nome... E non è mai stato qui, fortunatamente non abbiamo tenuto riunioni in questa casa, ma è probabile che prendano anche altri del gruppo a breve. Tu però non ti devi preoccupare, dopotutto non ne sai niente, comunque, per essere più tranquilla, potresti andare a stare dai tuoi per un po'.»
Siamak si era svegliato al suono concitato delle nostre voci e seguiva come un'ombra Hamid, contagiato dalla nostra ansia.
«E tu dove andrai ora?»
«Non lo so ancora, per ora so solo che devo andarmene e che non potrò farmi sentire per qualche settimana.»
Siamak si avvinghiò alle gambe del padre implorandolo di portarlo con lui.
Hamid se ne liberò nervosamente e mi fece varie raccomandazioni: nel caso di una perquisizione in casa dovevo dire che il materiale sospetto non era roba nostra e che non sapevo di cosa si trattasse, del resto era la verità e quindi non correvo rischi. Non dovevo far parola con nessuno di ciò che stava accadendo, dovevo prendermi cura dei bambini e rivolgermi solo a suo padre se avevo bisogno di soldi, poi se ne andò prima che me ne rendessi conto. Rimasi lì per molto tempo, immobile e muta, dopo la sua fuga. Pensavo al futuro, a ciò che ci aspettava. Siamak era frustrato e sconvolto e sfogava la rabbia e la delusione picchiando contro i muri e le porte, finché anche Masuud si svegliò. Abbracciai il più grande per calmarlo come facevo sempre, ma si liberò a calci e pugni dalla mia stretta. Nonostante non fosse in fondo successo niente, era un bambino così intelligente e sensibile da captare l'ansia e la preoccupazione che trapelavano da ogni mio respiro. Poi ebbi l'idea di parlargli come a un grande e gli sussurrai all'orecchio: «Ascoltami, Siamak, dobbiamo stare calmi e non rivelare a nessuno il nostro segreto, altrimenti metteremo in pericolo papà Hamid».
Si calmò di colpo e mi chiese: «Cosa non dobbiamo dire?».
«Che stamattina il papà è stato costretto a fuggire... Fai attenzione che non se ne accorga nemmeno Masuud, sarà il nostro segreto.»
Mi guardò incredulo e spaventato.
«Non dobbiamo avere paura, dobbiamo essere forti e coraggiosi come il papà. Hamid saprà come cavarsela, nessuno riuscirà a trovarlo, stai tranquillo, e noi saremo i suoi soldati; dobbiamo restare calmi e dimostrarci degni della sua fiducia, perché lui ha bisogno del nostro aiuto... riesci a capire?»
«Sì...»
«Allora promettiamo di non parlarne a nessuno e di non fare confusione, d'accordo?»
«D'accordo.»
Sapevo che non aveva capito granché delle mie parole, ma non era importante, perché la sua mente ingenua e creativa riempiva i vuoti di senso dando forma alla storia con fatti e personaggi di sua invenzione.
Non ne parlammo più, ma ogni volta che mi vedeva pensierosa si avvicinava, mi prendeva le mani e mi guardava senza parlare. In quei momenti cercavo sempre di scacciare ogni preoccupazione con un sorriso rassicurante e sussurrandogli all'orecchio: «Non ti preoccupare, il papà è al sicuro».
Lui allora riprendeva il gioco da dove lo aveva lasciato. Si gettava come il vento dietro il divano e sparava qua e là con la sua pistola blu imitando il rumore dei colpi con la bocca... è sorprendente con quanta rapidità i bambini riescano a cambiare d'umore!
Quei giorni d'angoscia sembravano infiniti. Cercavo di restare lucida, e non feci parola con nessuno di quello che era successo. Avevo ancora un po' di denaro per andare avanti, ma mi chiedevo continuamente cosa sarebbe stato di noi se avessero preso Hamid, e cosa gli avrebbero fatto.
Non avevo mai avvertito una sensazione di pericolo così concreta e incombente: all'inizio le loro riunioni mi erano sembrate un gioco, con i membri del gruppo nel ruolo degli eroi, ma ora tutto era cambiato. Mi ricordai di quella notte d'estate in cui li avevo visti nascondere qualcosa nella nostra cantina e rabbrividii. Da allora la porta della stanza sul retro era rimasta chiusa con un grosso lucchetto di cui non possedevo la chiave e io non ne avevo mai visto l'interno. Avevo protestato più volte con Hamid perché non potevo più andare in cantina, ma lui aveva risposto che non mi serviva. Aveva ragione: non mi importava niente della cantina, ma avevo paura, pensavo che ciò che avevano nascosto potesse rappresentare un pericolo per noi, anche se Hamid continuava a rassicurarmi. Non dovevo preoccuparmi, non c'era niente di pericoloso, e se anche l'avessero perquisita avrei potuto dire la verità: che non era roba della nostra famiglia e che non ne sapevo niente... Quindi c'era davvero qualcosa da nascondere!

Dopo una settimana, una notte mi svegliai di soprassalto per un rumore: l'ansia aveva ormai reso leggero il mio sonno. Raggiunsi il soggiorno e accesi la luce. Hamid esclamò subito con voce soffocata: «Spegni, spegni presto!».
Non era solo. Due donne con il chador sul viso e una corporatura insolita stavano in piedi dietro a lui. Il mio sguardo cadde sulle scarpe maschili e pesanti ai loro piedi. Tutti e tre entrarono in salotto. Prima di chiudere la porta, Hamid mi chiese sottovoce di accendere la luce piccola e riferirgli cosa avevano detto al telegiornale.
«Niente d'interessante. Non è successo nulla, qui.»
«Sei uscita di casa? Hai mai avuto la sensazione di essere pedinata? O notato qualcosa di sospetto, per esempio un'auto nuova per strada o nuovi vicini?»
«Sono uscita praticamente tutti i giorni, ma non ho mai visto niente di strano.»
«Meglio così, allora portaci qualcosa da mangiare, per favore: tè, pane e panir, quello che è rimasto della cena. Qualsiasi cosa insomma!»
Andai subito a preparare il tè. Una sensazione di gioia mi gonfiava il cuore. Grazie a Dio era sano e salvo, anche se sapevo che il pericolo era ancora in agguato. Appena il tè fu pronto, lo misi su un vassoio insieme a pane, panir, burro e alcune marmellate che avevo preparato, poi bussai alla porta piano chiamando Hamid: sapevo che non dovevo entrare in quella stanza. Hamid si affacciò e prese in fretta il vassoio dicendomi di tornare pure a letto. Mi sembrava dimagrito e aveva la barba chiazzata di bianco. Avevo voglia di baciarlo.
Me ne andai in camera e chiusi la porta in modo che loro potessero tranquillamente usare il bagno e la doccia. Ringraziai di nuovo Dio per avermelo rimandato a casa, ma la preoccupazione non si era sopita. Naufraga in un mare di pensieri confusi, finalmente sprofondai in un sonno tormentato.
Mi svegliai che il cielo si era schiarito da poco. Mi ricordai che non avevamo più pane in casa. Mi vestii, mi lavai viso e mani, accesi il samovar e uscii. Quando tornai i bambini si erano svegliati, ma la porta del salotto era ancora chiusa. Siamak mi seguì in cucina e mi chiese sottovoce, per non farsi sentire da Masuud: «È tornato papà?».
Rimasi un po' spiazzata e gli chiesi come se ne fosse accorto. Aveva visto delle ombre dietro la porta chiusa del salotto... Gli dissi che aveva ragione, ma non doveva saperlo nessuno per il momento, a parte noi, nemmeno Masuud. Mi prese in parola tanto da mettersi a sorvegliare la porta con tali occhiate che il fratello finì per incuriosirsi. Stavano per mettersi a litigare quando Hamid uscì dalla stanza. Masuud restò immobile per la sorpresa mentre Siamak gli corse incontro e gli abbracciò le gambe. Hamid si mise a coccolarli entrambi mentre io preparavo la colazione.
Quando ci sedemmo tutti e quattro intorno al soffreh, mi sentii sopraffare dalla commozione ed esclamai: «Sia lode a Dio, pensavo che non saremmo mai più stati insieme!».
Hamid mi rassicurò con uno sguardo dolce: «Per ora non c'è nulla di cui preoccuparsi, tu non hai parlato con nessuno, vero?».
«No, nemmeno con i tuoi genitori che non la finivano di assillarmi chiedendomi dove fossi finito... Chiamali, adesso, erano molto preoccupati per te.»
«Papà, anch'io non ho detto niente a nessuno, e ho fatto in modo che anche Masuud non scoprisse nulla!»
Hamid mi guardò sorpreso, a metà fra il preoccupato e il divertito e io gli risposi con uno sguardo che era tutto sotto controllo. «Sì, Siamak è stato davvero d'aiuto, sa mantenere bene i segreti, è un buon custode.»
Masuud allora intervenne con il suo tono infantile e dolce: «Anch'io sono un custode, anch'io sono un custode!».
La breve, serena riunione familiare volgeva già al termine: Hamid mi chiese di andare a casa dei miei e di restarci fino alla sua chiamata. Ma io non volevo rimanere lontano, e poi non sapevo come giustificare la mia improvvisa comparsa.
«Penseranno che abbiamo litigato!»
«E tu lasciaglielo credere! L'importante è che non sospettino altro... e che tu non rientri a casa finché non te lo dirò io.»
«Sento che tutto questo finirà per gettarci in guai molto seri, che Dio ce ne scampi! Questa settimana non sono riuscita a chiudere occhio. Ti prego, se nascondi qualcosa in casa nostra, liberatene in fretta, ho troppa paura.»
«È proprio ciò che intendiamo fare mentre voi non ci sarete.» Siamak era offeso e deluso: voleva rimanere con suo padre per aiutarlo. Spettava a Hamid convincerlo e tranquillizzarlo, e io e Masuud andammo in cucina. Loro due si sedettero l'uno di fronte all'altro e Hamid gli parlò seriamente, come da uomo a uomo, mentre Siamak attento non perdeva una virgola. Aveva solo sei anni, ma quel giorno sembrava un adulto responsabile che sa di avere un compito importante.
Volle aiutarmi a portare il borsone pesante che avevo preparato. Salutammo Hamid e andammo a casa di Agha Jun. Per tutto il tragitto Siamak rimase calmo e silenzioso. Non avevo idea di cosa passasse per la sua testolina. A casa dei nonni, poi, non toccò nessun giocattolo e non fece alcun rumore. Se ne stava seduto sul bordo dell'hoz a osservare i pesci rossi. E di pomeriggio, quando arrivò Ehteramsadat, non si agitò nemmeno vedendo Gholam Ali, tanto che mio padre mi chiese cosa gli fosse successo. Gli risposi che stava crescendo in fretta, era già un piccolo uomo... In quel momento Siamak alzò la testa e rispose al mio sorriso. Ora Hamid, Siamak e io avevamo un segreto comune, un segreto importante, eravamo una famiglia unita, e Masuud era il figlio di tutti noi.
Proprio come avevo previsto, Khanum Jun s'insospettì della nostra visita: «Spero che non sia successo niente, figlia mia. Vederti da queste parti e per di più con la valigia...».
Durante il tragitto avevo continuato a pensare a quello che le avrei raccontato e a quale scusa avrei accampato per passare lì anche la notte e recitai la mia parte: «Hamid voleva dare un ricevimento solo maschile per tutti gli amici e gli impiegati della stamperia, alcuni di loro vengono da fuori e quindi rimarranno anche a dormire, perciò era meglio che noi non ci fossimo; mi verrà a prendere lui stesso quando tutti se ne saranno andati».
La mia permanenza durò due notti e tre giorni e mi divertii molto nonostante le preoccupazioni. Parvin Khanum mi cucì una gonna e una camicetta molto eleganti, e Fati un comodo vestito a fiori. Parlammo un sacco e ridemmo altrettanto. Khanum Jun era tornata da Qum da poco più di una settimana e aveva un sacco di notizie di prima mano su parenti e amici; così scoprii che Mahbubeh, che aveva già una bambina, era incinta di nuovo. Khanum Jun non perse l'occasione per sfogare il suo rancore inventando una presunta invidia di mia zia e mia cugina per i miei figli maschi: «La sua bambina è come Mahbubeh da piccola, slavata e insipida, e lei è così svogliata che avrà sicuramente un'altra femmina e moriranno d'invidia per te!».
«Sapete bene che non è vero, Khanum Jun, Mahbubeh era splendida da piccola, con i suoi riccioli d'oro, e poi oggi non ci sono più differenze tra maschi e femmine.»
Ma di questo mia madre non si sarebbe mai persuasa. E poi l'idea che ci invidiassero per qualcosa, i miei figli maschi o gli affari di Mahmud che andavano a gonfie vele, la consolava del passato affronto, e non serviva a nulla ricordarle che erano più ricchi di noi e non avevano alcun motivo per invidiarci.
L'ultima notizia però mi fece trasalire: avevano arrestato lo zio di Ehteramsadat. Mia madre era in pensiero per Mahmud, perché temeva che potesse influire negativamente sui suoi affari, ma io ero preoccupata per ben altro. Le chiesi maggiori informazioni: era stato portato via da poliziotti in borghese un paio di settimane prima, pareva che avesse detto qualcosa che non doveva dire alla moschea, e correva voce che lo stessero torturando. Sentii un brivido corrermi per la schiena e pensai: "Ti prego Dio, abbi pietà di Hamid".
Il pomeriggio del terzo giorno Hamid venne a riprenderci a bordo di una Citroën gialla. I bambini furono molto felice di rivederlo, ma soprattutto di vedere la macchina! Al contrario di sempre, non aveva fretta. Si sedette e bevve un tè conversando con Agha Jun. Al momento dei saluti, mio padre mi disse: «Sia ringraziato Dio, pensavo aveste litigato, ero preoccupato per voi. Ma devo dire che in questi tre giorni mi sono davvero divertito. Rivedervi e avervi qui mi ha riempito di gioia». Non era solito dar voce ai suoi sentimenti e ne fummo tutti piacevolmente sorpresi.
Sulla strada del ritorno raccontai a Hamid dell'arresto dello zio di Ehteramsadat. Scosse la testa preoccupato: «Certo che questa maledetta SAVAK21 si sta rinforzando. Si è messa alle calcagna di tutti i gruppi di attivisti!».
Non volevo che il discorso continuasse in presenza di Siamak e cercai di cambiare argomento. «Da dove arriva questa macchina?»
«Per ora è a mia disposizione, devo ripulire alcuni posti.»
«Allora, per favore, comincia da casa nostra!»
«L'ho già fatto, puoi stare tranquilla. Ero molto in pensiero proprio per questo: se fossero arrivati prima, ci avrebbero condannati tutti...»
«Ti prego Hamid, pensa almeno ai tuoi figli!»
«Ti ripeto che ho preso il massimo delle precauzioni, e per adesso l'unico luogo sicuro è proprio casa nostra.»
Nonostante fossimo seduti davanti e parlassimo a bassa voce avvolti dal rumore dell'auto, mi accorsi che Siamak stava ascoltando tutti i nostri discorsi con la massima attenzione... Hamid si girò, lo guardò con un sorriso e disse: «Lui può ascoltare, non è più un bambino, e ci siamo messi d'accordo che quando non ci sarò avrà cura di voi due!». Siamak sprizzava orgoglio da tutti i pori e i suoi occhi brillavano.
Appena a casa mi precipitai in cantina. Il lucchetto era sparito. Decisi che l'indomani avrei fatto un'ispezione accurata con la luce del sole, per accertarmi che non fosse rimasto niente di compromettente.
Siamak seguiva Hamid come un'ombra e non volle nemmeno che lo lavassi. Se era davvero un uomo poteva fare la doccia con il papà... Io e Hamid ci guardammo ridendo, e dopo me e Masuud, Siamak e il padre fecero la doccia insieme. Sentivo il suono delle loro voci che echeggiava per il bagno e mi sentii appagata: nonostante avessero passato poco tempo insieme il rapporto tra padre e figlio era veramente intimo e profondo.
Per pochi giorni Hamid ebbe del lavoro da sbrigare, ma poi cominciò a passare la maggior parte del suo tempo libero a casa, come se non avesse nessun posto dove andare. Non aveva più notizie dei suoi amici. Ogni mattina si recava normalmente al lavoro e rientrava nel pomeriggio come tutti gli altri uomini, ma lui non ci era abituato e quella situazione lo faceva impazzire. Io approfittai della sua presenza per mandarlo in giro e al parco con i bambini. Penso che quei giorni siano stati fra i più felici nella vita dei miei figli. L'esperienza di avere accanto papà e mamma e di condurre una vita normale era una fortuna e una gioia che chi ci è abituato non può capire. Finché decisi addirittura di proporre a Hamid una vacanza tutti insieme.
«Andiamo al mare, come quella volta, quando Siamak era nato da poco.»
«Non posso, sono in attesa di notizie, devo essere rintracciabile alla stamperia o a casa.»
«Solo un paio di giorni, sono due mesi e mezzo che non ricevi notizie, e poi la prossima settimana riaprono le scuole, non rinunciamo a una piccola vacanza insieme... Sarà un bel ricordo per i bambini aver viaggiato almeno una volta con noi.»
E anche i bambini si unirono a me: Masuud lo supplicava, anche se non sapeva nemmeno cosa fosse una vacanza; Siamak non diceva nulla, ma gli stringeva la mano e lo guardava con occhi imploranti. Sapevo che quello sguardo lo avrebbe fatto cedere, dovevo solo rincarare la dose. «Ti ricordi che il marito di Mansureh ha comprato una villa al mare? Mansureh dice che ci sono stati tutti tranne noi... Possiamo portarci anche i tuoi genitori, anche loro hanno diritto a una piccola vacanza con il proprio figlio. Abbiamo anche la macchina...»
I bambini gli giravano intorno e con il bacio che Siamak scoccò sulla mano del padre la faccenda si concluse segnando la nostra vittoria. I suoi genitori non vennero. Ma furono entusiasti del fatto che dopo tutti quegli anni partissimo per un viaggio come una vera famiglia. Anche Mansureh, che era già al mare, fu felicissima della notizia.
Quando ci allontanammo dalla città ci sembrò di essere entrati in un mondo nuovo. I bambini erano talmente rapiti da montagne e vallate che stavano con i nasi appiccicati al finestrino e ammiravano il paesaggio in silenzio. Hamid canticchiava una canzone e io lo accompagnavo. Ero felice ed emozionata. Ringraziai Dio e lo pregai di non negarci la gioia di stare insieme. In salita la macchina arrancava, ma non aveva importanza, desideravo che quel viaggio durasse fino alla fine del mondo. Per pranzo avevo preparato le polpette fritte e ci fermammo a mangiare in un bel paesaggio. I bambini si rincorrevano felici, il suono della loro risata mi accarezzava le orecchie e feci notare a Hamid com'era cambiato il comportamento di Siamak, che adesso era sempre calmo e di buonumore. Non ricordavo più l'ultima volta in cui avevo dovuto sgridarlo, nonostante fino a poco tempo prima le liti fossero all'ordine del giorno.
«Non riesco a capire i tuoi problemi con lui: a me è sempre sembrato bravissimo. Forse lo capisco meglio di te.»
«No, tesoro, è così quando ci sei tu... Quando non ci sei diventa un altro; solo tu hai il potere di calmarlo, di renderlo felice.»
«No, non devi dirlo. Non voglio che qualcuno mi sia così legato e abbia tanto bisogno di me!»
«Ci sono molte persone che hanno bisogno di te, Hamid, ma non è una colpa. Comunque non voglio darti preoccupazioni, pensiamo solo a goderci questi giorni insieme...»
Mansureh ci aveva preparato una camera luminosa, con le finestre affacciate sul mare. Non volevamo far sapere che dormivamo separati e quindi Hamid dovette passare le notti con me... Provai ad abbronzarmi ancora al sole come avevo fatto una volta, tenni i capelli sciolti e indossai abiti scollati per catturare di nuovo lo sguardo di mio marito. Avevo bisogno del suo affetto e del suo calore, e finalmente la terza sera si arrese, rompendo il «giuramento» fatto anni prima e mi attirò a sé.
Quella breve ma indimenticabile vacanza ci avvicinò anche spiritualmente. Sapevo che lui non desiderava come compagna una casalinga e mogliettina perfetta. Così leggevo più che potevo, e discutevo con lui di tutto ciò che in quegli anni avevo imparato dai suoi libri. Cercavo di colmare il vuoto lasciato dai suoi amici mostrandogli il mio interesse per l'attualità, e così cominciò a convincersi che anch'io avevo una coscienza politica, e si accorse della mia intelligenza e della mia cultura. Non ero più una bambina stupida o una donnetta ignorante ai suoi occhi.
Un giorno che gli raccontai una parte di un libro di cui si era dimenticato, mi disse che era un vero peccato che, con le mie capacità, non avessi continuato gli studi, e mi spronò a partecipare al concour, l'esame per l'ingresso all'università. Non pensavo di potercela fare: sapevo male l'inglese e poi avevo i bambini... Ma lui insistette, era certo che sarei stata presa, bastava che lo volessi davvero.
Dopo otto anni avevo cominciato ad assaporare il gusto della vita familiare. Godevo con tutta me stessa degli attimi belli, e non mi lasciavo sfuggire nemmeno quelli insignificanti. Nell'autunno di quell'anno approfittai della presenza regolare di Hamid nel pomeriggio per iscrivermi a un corso per il concour. Non sapevo per quanto avrei potuto contare sul suo aiuto, e non volevo sprecare quei giorni così preziosi.
Speravo con tutto il cuore che il suo gruppo si fosse sciolto definitivamente e che potessimo condurre per sempre un'esistenza serena insieme, ma non lo dicevo perché Hamid a volte era intrattabile e di cattivo umore, in costante attesa di una telefonata, e sapevo che prima o poi la nostra vita tranquilla non gli sarebbe più bastata.
Non avevo idea di cosa rappresentasse effettivamente il suo gruppo. Una volta glielo chiesi, durante uno dei nostri dibattiti sulla politica, ma lui mi pregò di non fargli domande sui suoi compagni e le loro attività, non perché non avesse fiducia in me, ma per proteggermi: meno cose sapevo e meno rischi avrei corso. Tanto bastò a non farmi più toccare l'argomento.
L'autunno e l'inverno passarono sereni. La routine di Hamid però cominciò a cambiare: un paio di volte al mese arrivavano strane telefonate e lui spariva per qualche giorno. In primavera mi assicurò che il pericolo era passato, che non avevano lasciato tracce compromettenti e che quasi tutti erano di nuovo al sicuro nelle loro famiglie.
«Di nuovo?»
«Sì, perché dopo l'arresto di alcuni, molti indirizzi sono stati rivelati e ai ragazzi non è rimasta altra scelta se non quella di abbandonare le loro case.»
«Anche Shahrzad e Mehdi sono scappati?»
«Loro sono stati proprio tra i primi, sono riusciti a salvare solo i documenti, ma hanno perso tutti i loro ricordi... La famiglia di Shahrzad le aveva dato come dote così tanti mobili e oggetti da riempirci due case! E anche se nell'ultimo periodo era riuscita a regalarne molti, è stata comunque costretta ad abbandonarne una buona parte.»
«Ma adesso dove sono? E di cosa vivono?»
«Basta! Sai che non devi esagerare con le domande...»
Durante la primavera e l'estate, Hamid partì per due viaggi piuttosto lunghi. Era di buonumore, fiducioso, e io facevo attenzione a non lasciar trapelare la sua assenza, mentre mi dedicavo allo studio preparandomi al concour.
Il mio successo all'esame rese felici sia me sia Hamid e fu una vera sorpresa per le nostre famiglie. A casa mia le reazioni furono molto diverse tra loro: Khanum Jun mi chiese se volevo diventare medico (per lei si andava all'università solo per diventare medici); Agha Jun ne fu molto contento: «La tua preside mi disse quanto eri dotata e anch'io l'ho sempre saputo! Magari almeno uno dei ragazzi avesse avuto le tue capacità...». Ali e Mahmud erano ancora convinti che si trattasse di «sciocchezze e capricci» e che mio marito, non avendo l'onore di un «vero uomo», non fosse riuscito a tenermi testa.
Io ero semplicemente felice e mi sentivo orgogliosa di me stessa; tutto stava andando per il meglio. Diedi un grande ricevimento e invitai anche Manijeh che si era appena sposata. In questa occasione le nostre due famiglie si riunirono dopo anni, anche se Mahmud e Ali si rifiutarono di partecipare con la scusa che c'erano donne senza hijab. Ehteramsadat e i suoi figli però non mancarono e si fecero ben notare!
Io mi sentivo così allegra e fortunata che mi sembrava che nulla potesse rompere quel magico equilibrio e spegnermi il sorriso sulle labbra.
La mia vita prese un nuovo ritmo. Iscrissi Masuud alla scuola materna vicino a casa. Sbrigavo le faccende domestiche di notte per andare tranquilla all'università senza il rimorso di aver fatto mancare qualcosa a Hamid e ai bambini.

24.

Era arrivato il freddo. Il vento autunnale faceva sbattere i rami secchi degli alberi contro la finestra. La pioggerellina che aveva cominciato a cadere nel pomeriggio si era fatta più fitta e stava trasformandosi in neve.
Era quasi l'una di notte. Hamid si era appena addormentato e io stavo pensando all'inverno che si era presentato così all'improvviso mentre mi preparavo per andare a letto, quando qualcuno suonò alla porta facendomi balzare il cuore in gola. Rimasi in ascolto cercando di convincermi di averlo solo immaginato, poi vidi Hamid intontito dal sonno in piedi davanti a me. Rimanemmo a fissarci muti per qualche istante prima che riuscissi a chiedergli se aveva sentito anche lui. Fece solo un cenno di assenso con la testa. Poi, mentre si infilava in fretta i pantaloni sul pigiama, mi disse che sarebbe uscito dal tetto: io dovevo aspettare che fosse fuori, andare ad aprire e, se c'era qualche pericolo, accendere le luci. Si mise la giacca sopra la canottiera e corse verso il tetto.
Il campanello suonò di nuovo, questa volta più insistente.
Cercai di restare calma e fingere un'aria assonnata, mi avvolsi in una coperta e scesi le scale del cortile. Tremavo come una foglia: adesso avevano cominciato a battere con il pugno sulla porta esterna. Accesi una luce in modo che Hamid avesse un po' di chiarore sul tetto e aprii. Chiunque fosse si slanciò in cortile chiudendosi in fretta la porta alle spalle. Si trattava di una donna con un chador a fiori troppo lungo, sicuramente non suo. La guardai spaventata finché il chador bagnato le scivolò sulle spalle. Era Shahrzad.
Si portò il dito alle labbra in segno di silenzio e mi chiese di spegnere la luce. Era bagnata dalla testa ai piedi. La invitai a entrare in casa per non prendersi un raffreddore... Mi fece di nuovo cenno di tacere. Rimanemmo zitte per qualche minuto, in attesa di un qualsiasi rumore dalla strada, ma nulla spezzò l'assoluto silenzio. Allora si accasciò a terra con la schiena contro la porta, come se tutte le forze l'avessero improvvisamente abbandonata. Si liberò del chador e si abbracciò le ginocchia con la faccia nascosta. Dai suoi capelli scendevano ancora gocce di pioggia. La aiutai ad alzarsi e a camminare, raccolsi il chador e le strinsi una mano, che era bollente. Aveva la febbre. Mi seguì sfiancata e distrutta e salimmo le scale insieme. Le dissi che doveva fare subito una doccia calda e asciugarsi. Si limitò ad annuire. Poi le portai dei vestiti puliti e le preparai un letto in soggiorno. Continuava a non parlare e aveva nello sguardo lo smarrimento dei bambini che si perdono e non sanno più cosa fare. Le chiesi se volesse mangiare qualcosa, scosse la testa. Le portai del latte caldo e lo bevve in silenzio. Poi la accompagnai in soggiorno e si addormentò prima ancora di appoggiare la testa sul cuscino. Le rimboccai le coperte, chiusi la porta e all'improvviso mi ricordai di Hamid: "Sarà ancora là sopra?". Salii le scale e lo vidi in un angolo. Sapeva già che si trattava di Shahrzad. Gli chiesi perché se ne stesse ancora lì nascosto. Il pericolo era passato.
«Ti sbagli mia cara, il pericolo è sempre in agguato: qualcuno potrebbe averla pedinata. Quanto tempo è passato dal suo arrivo?»
«Mezz'ora, forse anche di più, se l'avessero seguita sarebbero già qui!»
«Non è detto, talvolta aspettano perché sperano che arrivino anche gli altri membri del gruppo, così possono sorprenderli tutti insieme... sono addestrati, non agiscono mai d'impulso.»
Cominciai a tremare. «Se facessero irruzione qui, prenderebbero anche noi!»
«Non aver paura, tu non c'entri, e anche se ti prendessero devi dire che non ne sai niente...»
«Ma come faranno a capire che è vero... torturandomi? E cosa ne sarebbe dei bambini?»
«Sono preoccupazioni inutili, dopotutto non è probabile che avvenga; devi cercare di essere forte, di non pensare a questa eventualità, di comportarti normalmente. Piuttosto dimmi: Shahrzad come sta? Ti ha raccontato qualcosa?»
Lo informai che non aveva aperto bocca e che stava male. Ma Hamid era interessato soprattutto agli eventi che l'avevano portata da noi. Dovevano aver identificato lei e Mehdi dopo un anno e mezzo di vita clandestina. In seguito alla prima irruzione in casa loro si erano rifugiati in un paesino sperduto, poi i compagni avevano trovato un altro posto che ritenevano più sicuro, ma ormai erano troppo riconoscibili e i «bastardi» dovevano avere scovato il loro nascondiglio. Qualcosa li aveva sicuramente costretti a separarsi... Chissà dov'era Mehdi adesso. Tremai di nuovo al pensiero che anche lui conosceva il nostro indirizzo.
Quella notte Hamid restò di guardia sul tetto fino al mattino. Gli portai vestiti caldi e tè bollente. Svegliai i bambini un po' prima del solito, gli feci fare colazione e li accompagnai a scuola. Durante il tragitto continuavo a guardarmi intorno per scoprire se ci fosse o accadesse qualcosa di sospetto. Mi comportai come sempre, feci un po' di spesa e tornai a casa. Hamid era sceso dal tetto e mi chiese consiglio: non sapeva se recarsi alla stamperia come al solito o restare a casa. Secondo me ci saremmo dovuti comportare il più naturalmente possibile in modo da non dare nell'occhio. Poi volle sapere se avessi notato qualcosa di strano per strada o intorno alla casa, ma niente aveva colpito la mia attenzione. Sembrava tutto tranquillo... Forse non volevano farci insospettire?
Hamid era impaziente di sentire il racconto di Shahrzad, ma io non volevo svegliarla, era troppo stanca e stava male. Avrebbe dovuto aspettare. Dormì fino all'una del pomeriggio. La osservai mentre riposava: era dimagrita molto e aveva una brutta tosse, aveva bisogno di cibo e di cure. Preparai una zuppa e tirai fuori la carne per il kabab. Cercai anche lo sciroppo per la tosse. Le misi una mano sulla fronte: aveva ancora la febbre.
Si svegliò di soprassalto e si mise a sedere, guardandosi intorno spaesata. Le ricordai dov'era e tirò un sospiro di sollievo. Le dissi che era debole e aveva una brutta influenza: doveva mangiare e prendere le medicine. Mi guardò con occhi tristi e febbricitanti e le tremarono le labbra. Finsi di non accorgermene e andai a prenderle la zuppa.
Fuori dalla stanza Hamid andava su e giù per il corridoio, impaziente di parlarle. Ma io lo avvisai che non poteva ancora entrare: Shahrzad doveva prima mangiare e riprendere un po' le forze...
Portò un cucchiaio di zuppa alla bocca e la assaporò a occhi chiusi. «Cibo caldo... lo sai quant'è che non mangio una zuppa calda?»
Mi si strinse il cuore, non dissi una parola e uscii dalla stanza.
Hamid stava ancora aspettando.
Tornai in soggiorno con una spazzola per districarle i capelli pieni di nodi. Mi disse che avrebbe voluto raparsi a zero, ma non ne aveva avuto il tempo.
«Perché disfarsi di questi bei capelli? E poi una donna pelata è davvero brutta!»
«Già, sono una donna, me n'ero quasi dimenticata...» rispose con una risata sarcastica. Finì la zuppa.
«Ho preparato anche del kabab, devi mangiarlo per riprendere le forze.»
«No, grazie, adesso no, non mangiavo da due giorni e devo andarci piano, prenderei volentieri un'altra zuppa più tardi... Hamid è in casa?»
«Sì, è qui fuori che aspetta di parlarti e credo proprio che abbia perso tutta la sua pazienza ormai!»
«Digli di entrare, sto già molto meglio.»
Raccolsi i piatti e il vassoio, aprii la porta e lo chiamai.
La salutò così entusiasta e allo stesso tempo discreto che mi sembrò si rivolgesse al suo capo. Chiusi la porta. Parlarono per più di un'ora in tono concitato, ma sottovoce.
I bambini tornarono da scuola. Appena mise piede in casa Siamak capì che c'era un estraneo, come un cane che fiuta la selvaggina. Gli raccontai che era un'amica di papà e che non doveva dirlo a nessuno. Al silenzio ormai era abituato, ma cominciò a gironzolare davanti alla porta del soggiorno per cercare di carpire qualche parola. Per distoglierlo gli chiesi di andare a comprare il latte ma non ci cascò e tornò a giocare.
Hamid uscì dalla stanza infilandosi in tasca alcune carte, si mise le scarpe e mi disse di non preoccuparmi se avesse fatto tardi e se quella sera non fosse rientrato a dormire. Shahrzad per il momento sarebbe rimasta a casa nostra.
Entrai in soggiorno, Shahrzad era ancora sdraiata. Si sedette con aria imbarazzata e si scusò per il disturbo che ci stava causando. Se ne sarebbe andata appena possibile.
«Figurati! Hai bisogno di riposo e di cure. Devi fare come se fossi a casa tua, e comunque non ti lascerei andar via in queste condizioni.»
«Ma io ho paura di mettervi nei guai, la vostra sicurezza è stata un obiettivo primario per Hamid e per tutti noi in questi anni e io stanotte l'ho fatta vacillare... Perdonatemi, erano molte notti che trovavo nascondigli di fortuna e con questo freddo mi sono ammalata! Stavo male, avevo la febbre, e temevo di svenire in mezzo alla strada, non ho avuto altra scelta.»
I bambini incuriositi guardavano Shahrzad dalla porta socchiusa. Lei si mise a ridere e li salutò con la mano, sorpresa per quanto erano cresciuti. Le dissi che Siamak era in terza elementare e Masuud aveva cinque anni. Mentre stavo per chiamarla con il suo nome scosse la testa e capii che era meglio non farlo davanti a loro; dopo un attimo di esitazione dissi: «Venite a salutare la zia Sherry, bambini».
Shahrzad inarcò le sopracciglia e rise, come se quel nome le fosse sembrato molto buffo. I bambini la salutarono. Siamak la fissava con tale curiosità che Shahrzad sembrò in imbarazzo e controllò persino di essere vestita decentemente. Mi venne da ridere. «Okay, basta così, adesso fuori, la zia deve riposare», e dietro la porta raccomandai loro di non fare baccano e di non dire a nessuno che la «zia Sherry» era da noi. Anche Masuud capì che era un nostro segreto.
Dopo qualche giorno le condizioni di Shahrzad migliorarono, anche se di notte tossiva ancora molto. Io cucinavo piatti gustosi e variegati per invogliarla a mangiare e farle riacquistare il peso perduto. Hamid continuava ad andare e venire, e al ritorno faceva il resoconto della giornata a Shahrzad che gli assegnava un nuovo incarico, ma io restavo all'oscuro di tutto perché i loro incontri erano sempre a due e a porte chiuse. Passò una settimana. Shahrzad passeggiava per la casa sempre attenta a non farsi vedere dalle finestre.
In quel periodo non ero più andata all'università e non avevo mandato Masuud all'asilo, perché temevo che gli sfuggisse qualcosa, e lui se ne stava tranquillo a casa a giocare con il Lego che Hamid gli aveva comprato da poco. Faceva costruzioni ma anche disegni meravigliosi, molto evoluti per un bambino della sua età, che evidenziavano doti artistiche particolari. Anche dal punto di vista caratteriale, del resto, si notava già un vivace spirito creativo. S'incantava di fronte al mondo che lo circondava e ne captava anche i minimi dettagli. Quando faceva bel tempo, poteva restare per ore in cortile a occuparsi di fiori e piante e anche lui a volte seminava nuove piantine, che germogliavano e crescevano sempre. Viveva in un mondo tutto suo, come se la vita pratica di ogni giorno avesse poco valore per lui. Al contrario di Siamak, perdonava facilmente e si adattava a ogni situazione. Rispondeva di cuore anche alla più piccola dimostrazione d'affetto. Conosceva tutti i miei stati d'animo e se mi notava triste o pensierosa cercava di tirarmi su il morale con dolci bacini.
Passò molto tempo con Shahrzad e fra loro si stabilì presto un rapporto di confidenza e di profonda intesa. Masuud vegliava come un guardiano su di lei, e le dedicava disegni e costruzioni. Shahrzad lo abbracciava con un affetto particolare e lui la lasciava fare e restava a lungo tra le sue braccia a raccontarle con il suo linguaggio dolce e infantile il significato e la storia delle sue «creazioni». Shahrzad si divertiva e Masuud si sentiva incoraggiato e felice.
Siamak invece aveva un rapporto più educato e formale con lei, come il mio. Io mi sforzavo di comportarmi con naturalezza e le ero molto affezionata, ma mi sentivo come una bambina delle elementari accanto a lei, che per me era un simbolo di forza, cultura e coscienza politica, coraggio e indipendenza. Tutte queste doti riunite in una donna l'avevano resa ai miei occhi un essere superiore da mettere su un piedistallo. Per quanto fosse sempre dolce e spontanea con me, non riuscivo a non pensare che era più preparata anche di Hamid, che si faceva persino dare ordini da lei...
Quando confabulavano fra loro, cercavo di non mostrare la mia curiosità e di non disturbarli, ma una notte che ero a letto a leggere sentii la loro conversazione: si erano seduti in soggiorno per parlare tranquilli, pensando che stessi già dormendo.
«È stata una bella fortuna, Shahrzad, che Abbass non sia mai venuto a casa nostra, quel traditore bastardo che non è riuscito a resistere nemmeno quarantotto ore! L'ho sempre saputo, sin dall'inizio, che era un uomo debole. Ti ricordi come si lamentava durante l'addestramento? Era chiaro come il sole che i suoi ideali sarebbero crollati alla prima difficoltà.»
«Perché non l'hai detto a Mehdi?»
«Gliel'ho detto! Ma mi ha risposto che arrivati a quel punto non lo potevamo più mettere da parte, perché ormai sapeva tutto di noi; diceva che potevamo trovargli un ruolo, che aveva delle buone basi. Ma io sono sempre stato contrario.»
«Sì, di questo mi ricordo, infatti Mehdi non gli ha mai rivelato le informazioni più importanti, e io cercavo di farlo incontrare con meno gente possibile. Il fatto che non sappia nulla di te, nemmeno il tuo vero nome, ci ha aiutati molto.»
«Per fortuna non è di Teheran, altrimenti ci avrebbe rintracciati. Quel fetente... se soltanto avesse resistito quarantotto ore saremmo riusciti a salvare tutto. Ma ringraziamo Dio che il gruppo centrale e i ragazzi di Teheran non siano stati presi. Le armi rimaste sono più che sufficienti. Se tutto andrà secondo i piani riusciremo a impadronirci anche di quelle del nemico.»
Mi sentii gelare il sangue nelle vene. Cosa avevano intenzione di fare? Dove erano stati? A che addestramento erano stati sottoposti? Mio Dio! Dove e con chi vivevo? Sapevo che operavano contro il regime, ma non pensavo che la faccenda fosse così seria. Avevo sempre reputato il loro operato una specie di passatempo intellettuale che consisteva nel pubblicare manifesti e volantini e tenere discorsi.
Quando Hamid venne a dormire gli dissi che li avevo sentiti parlare. Cominciai a piangere e lo supplicai di lasciar perdere, di pensare alla sua vita e ai suoi bambini. Rispose che era troppo tardi. Non avrebbe mai dovuto farsi una famiglia, aveva cercato in tutti i modi di farmelo capire. Lui viveva per i suoi ideali e si batteva per i suoi obiettivi. Non poteva permettersi di pensare solo ai suoi figli, dimenticandosi di tutti gli altri innocenti sotto il peso dell'oppressione... Aveva giurato fedeltà alla causa della liberazione del popolo insieme ai suoi compagni.
«Ma questi piani... sono pericolosi! Davvero pensi di riuscire a spuntarla con nemici come l'esercito e i servizi segreti avendo a disposizione pochi uomini?»
«Noi dobbiamo fare in modo che il mondo intero si renda conto che questa non è un'isola felice, dobbiamo farne tremare le fondamenta perché la gente si svegli e non viva più nel terrore. Se riusciremo a spezzare il potere dello scià vedrai che il popolo si unirà a noi.»
«Voi siete troppo idealisti. Non riesco a credere che ciò che dite possa avverarsi... finirete per spezzarvi soltanto voi, e io ho paura!»
«Hai paura perché non credi nella nostra causa. Comunque non farla così lunga! Tutte le cose che hai sentito per il momento restano solo parole. Finora abbiamo elaborato molti piani del genere, ma non siamo mai riusciti a metterli in atto. Perciò non allarmarti inutilmente. Va' a dormire e non dire nulla a Shahrzad.»
Dopo dieci giorni di continuo viavai per il trasporto di messaggi in posti che non conoscevo, fu presa la decisione che Shahrzad non avrebbe lasciato la nostra abitazione fino a nuovo ordine, e che noi avremmo continuato la nostra solita vita. Dovevamo solo evitare che qualcuno entrasse in casa nostra, ma non era difficile perché le visite erano rare.
I nostri genitori, Parvin Khanum e Fati potevano però rappresentare un problema. Decidemmo di far visita più spesso alla famiglia di Hamid portandoci dietro anche Bibi, per evitare che venissero loro a trovarci. Alla mia famiglia dissi invece che sarei stata molto occupata con l'università, avrei lasciato i bambini da loro qualche pomeriggio e sarei andata a trovarli anch'io appena possibile.
Se nonostante le precauzioni qualcuno si presentava inaspettatamente a casa nostra, Shahrzad rimaneva chiusa a chiave in una stanza.

25.

E così Shahrzad rimase con noi. Cercava di aiutarci nelle faccende domestiche, ma non ne sapeva proprio niente e rideva più di chiunque altro delle sue mancanze; si trovava invece molto bene con i bambini e si occupava di Masuud con gioia ed entusiasmo. Quando Siamak tornava da scuola lo aiutava con i compiti, lo interrogava e gli faceva i dettati. E io potevo andare all'università con l'animo in pace. In quel periodo frequentai anche la scuola guida, per essere in grado di aiutarli in caso d'emergenza, e di portar via i bambini se fosse stato necessario. La macchina era ancora sotto il telone in cortile. Hamid e Shahrzad erano convinti che nessuno ne fosse a conoscenza e che quindi potessi usarla tranquillamente.
Masuud non si separava quasi mai da Shahrzad ed era spesso impegnato a fare qualcosa per lei. Una volta le mostrò una casetta che aveva disegnato e le disse: «Questa è la nostra casa, quando divento grande la costruisco, ti sposo e ci viviamo insieme». Shahrzad appese il disegno al muro. Quando Masuud veniva con me a fare la spesa, comprava per Shahrzad le merendine e i dolcetti che lui stesso adorava; nelle giornate soleggiate era sempre in cortile alla ricerca di cose interessanti da farle vedere, e le portava boccioli di fiori, anche se doveva staccarli da una pianta piena di spine. Lei osservava questi doni con grande attenzione e li trattava come gemme preziose.
Più le vivevo accanto più scoprivo il suo vero carattere. Era una donna molto semplice, non bellissima, ma affascinante e amabile. Una volta mi chiese di tagliarle i capelli e dopo averlo fatto glieli acconciai con phon e spazzola perché fossero in ordine. Masuud la guardava con attenzione e curiosità. Era innamorato della bellezza: gli piaceva osservarmi quando mi truccavo, mi faceva i complimenti se usavo colori di suo gusto e andava matto per il rossetto vivace. Quando l'acconciatura di Shahrzad fu pronta, Masuud le disse di mettersi il rossetto. Shahrzad era dubbiosa e in imbarazzo: lo considerava frivolo ed erano anni che non si truccava più... ma Masuud insisteva: «Mettilo, mettilo, zia Sherry! Se non sei capace te lo metto io!» e una volta accontentato si allontanò per poterla ammirare meglio. Batteva le mani e rideva: «Com'è diventata bella! Hai visto com'è diventata bella?». Poi la abbracciò. Io e Shahrzad ci divertimmo molto, ma all'improvviso lei si fece seria e mi disse che ero una donna fortunata e che mi invidiava molto, forse per la prima volta invidiava la vita di qualcun altro.
«Stai scherzando, ne sono certa, sono io che ti dovrei invidiare: per la tua cultura, il tuo coraggio, la tua capacità di prendere decisioni. Ho sempre desiderato essere così, e ho sempre pensato che Hamid desiderasse una moglie come te. Ma non ha senso invidiarti, c'è un tale abisso fra noi... sarebbe come se una persona comune invidiasse la regina d'Inghilterra!»
«Ma cosa dici? Io non sono nessuno! Tu sei molto più completa di me... sei una vera signora, una moglie amorevole, una madre premurosa. Ami il sapere e hai un enorme spirito di sacrificio per la tua famiglia.»
Si alzò dalla sedia sospirando. Percepivo chiaramente la sua solitudine e la nostalgia per il marito che non vedeva da molto tempo. Le chiesi sue notizie.
«È davvero tanto che non vedo Mehdi, sono ormai due mesi. Circa due settimane prima che piombassi qui nel cuore della notte, siamo stati costretti a separarci e a scappare per strade diverse.»
«Hai almeno sue notizie?»
«Sì, per fortuna il povero Hamid fa da tramite fra noi.»
«Perché non viene una volta durante la notte in modo che possiate rivedervi?»
«È troppo pericoloso, il suo arrivo potrebbe compromettere la sicurezza di questa casa. Dobbiamo fare attenzione.»
Presi coraggio e con un po' di sfacciataggine le chiesi se davvero il loro matrimonio era stato deciso dal gruppo. Stentavo a crederci, le dissi, perché il mio fiuto di donna mi diceva che si amavano, e non da compagni di lotta, ma da marito e moglie. E poi Shahrzad non mi sembrava il tipo di donna che si lega a un uomo per il quale non prova sentimenti forti.
«Hai ragione, l'ho sempre amato. Ci siamo incontrati in un gruppo di attivisti ed è scoccata una scintilla...»
«Non sentirti obbligata a raccontare, per favore! Sono proprio un'impicciona... Ti ho fatto troppe domande!»
«No, non fa niente, anzi non mi dispiace affatto... Non ho mai avuto un'amica con cui confidarmi; con i compagni ho ascoltato più spesso che parlato, e forse sei l'unica persona che ho conosciuto in questi ultimi anni alla quale sento di poter parlare di me.»
Le dissi che anch'io non avevo nessuno con cui confidarmi, avendo perso l'unica vera amica tanti anni prima.
«Quindi abbiamo bisogno l'una dell'altra, anche se tu sei meno sola perché hai la tua famiglia con cui parlare, mentre io non ho nessuno, e non sai quanto mi mancano le chiacchiere familiari, i discorsi semplici di ogni giorno, i problemi quotidiani: che diamine, non si può parlare solo di politica e filosofia! A volte penso alla mia famiglia, ai parenti di cui ho persino dimenticato il nome e che probabilmente a loro volta non si ricordano di me: la verità è che io non faccio più parte di nessuna famiglia.»
«Ma scusa, non fai parte della grande famiglia del popolo e degli oppressi con i tuoi compagni?»
Rise. «Vedo che ne hai imparate di cose stando con Hamid, ma il punto è che non mi basta: sento la mancanza della mia famiglia! Bene, ma devo ancora rispondere alle altre domande... Ho conosciuto Mehdi all'università. Era due anni più avanti di me. Aveva già ottime doti di comando, ma anche capacità di comprensione, e lo stimavano tutti. Quando venni a sapere che i volantini che giravano e gli slogan scritti sui muri dei dormitori erano opera sua, ai miei occhi divenne un eroe!»
«All'epoca non eri anche tu appassionata di politica?»
«Sì, certo, ma non c'era niente di straordinario: come si può essere uno studente universitario con pretese da intellettuale e non farsi coinvolgere in qualche modo dalla politica? Essere di sinistra e contro il governo era un obbligo morale per gli studenti, e anche quelli che non ci credevano veramente fingevano per mostrarsi illuminati. Di convinti veri come Mehdi ce n'erano pochi. Nonostante provenisse da una famiglia religiosissima aveva letto tutti i libri di Marx e riusciva a parlarne con grande disinvoltura... Io all'epoca non ero abbastanza preparata e non avevo esperienza, né tantomeno convinzioni precise. Mehdi plasmò i miei ideali e le mie opinioni.»
«Quindi è lui che ti ha spinta verso il gruppo di cui fa parte anche Hamid?»
«No, non c'era ancora nessun gruppo. Lo fondammo insieme più tardi, ma forse, se non ci fosse stato lui, io avrei imboccato un'altra strada.»
«E com'è successo che vi siete sposati?»
«Il gruppo stava da poco prendendo forma... Io provenivo da una famiglia tradizionalista e come la maggior parte delle ragazze iraniane non potevo uscire di casa senza dare spiegazioni né rientrare tardi la sera. Uno dei ragazzi lanciò l'idea che mi sposassi con uno dei nostri per poter mettere il mio tempo a disposizione del gruppo e lo stesso Mehdi fu d'accordo, così venne a casa mia con la sua famiglia come un pretendente vero...»
«Ma eravate felici della scelta?»
«È difficile dirlo. Credo che volessi davvero sposarmi con lui, ma non che il motivo delle nostre nozze fossero le esigenze del gruppo. Allora ero giovane e romantica e ancora influenzata dalla stupida cultura borghese...»

All'una di una notte gelida e nebbiosa del mese di Bahman, nonostante i rischi di cui avevano parlato, Mehdi arrivò tranquillo a casa nostra. Hamid stava ancora leggendo e io mi ero appena addormentata, ma mi svegliai di colpo al rumore della porta che si apriva. Vedendo che Hamid continuava a leggere come se niente fosse, mi spaventai: cosa stava succedendo? E perché lui non reagiva? Ma lui mi disse di non preoccuparmene, non era affar nostro.
«Cosa significa? Sapevi che sarebbe venuto qualcuno?»
«Sì, è Mehdi, e gli ho dato io le chiavi di casa.»
«Ma non avevi detto che era pericoloso?»
«Non più. Hanno perso le sue tracce e noi abbiamo preso le dovute precauzioni. Aveva bisogno di vedere Shahrzad: non sono d'accordo su una questione e devono discuterne per prendere decisioni importanti. Io non potevo più fare da tramite e così abbiamo organizzato quest'incontro.»
Mi venne da ridere, era davvero una strana coppia, che aveva bisogno di scuse politiche per incontrarsi, mentre sarebbe stato così naturale farlo per amore...
Mehdi se ne sarebbe dovuto già andare il mattino dopo, ma non fu così. Hamid spiegò che non erano ancora arrivati a una conclusione. Io risi e sbrigai le mie faccende. Quando Hamid rientrò, nel pomeriggio, discussero per ore nella stanza con la porta chiusa. Il viso di Shahrzad aveva ripreso colore: sembrava piena di salute e di energie, ma cercava di nascondersi al mio sguardo con l'imbarazzo di una ragazzina il cui segreto è stato svelato. Mehdi rimase da noi tre notti e alla mezzanotte del quarto giorno, con la stessa discrezione con cui si era presentato, se ne andò. Non so se riuscirono a incontrarsi ancora dopo quella volta, ma sono certa che quei pochi giorni insieme furono tra i più dolci e intensi della loro vita.
Masuud era stato molto con loro, passando tranquillamente dalle braccia di Shahrzad a quelle di Mehdi, dando sfoggio del suo repertorio di dolcezze e tenerezze e facendoli ridere di cuore. Una volta vidi Mehdi che passeggiava per la stanza con Masuud sulle spalle per farlo divertire. Non avrei mai creduto che quell'uomo così severo e serio, che sorrideva raramente, potesse instaurare un rapporto del genere con un bambino. Dietro quella porta chiusa Shahrzad e Mehdi poterono essere veramente loro stessi.
Dopo la partenza del marito, Shahrzad fu triste e nervosa per un paio di giorni. Si rifugiava nella lettura: aveva divorato tutti i nostri libri e teneva sotto il cuscino una raccolta di poesie di Forugh Farrokhzad. Erano gli inizi del mese di Esfand quando mi chiese di comprarle qualche maglia, due paia di pantaloni e un borsone con il manico resistente, grande tanto da contenere tutte le sue cose, ma che non desse nell'occhio e facile da portare. Mi chiesi se ci avrebbe messo anche delle armi. Sin dal primo giorno avevo capito che erano armati e avevo vissuto nel terrore che i bambini se ne accorgessero.
Fu così che Shahrzad cominciò a prepararsi per la partenza. Sembrava in attesa di un ordine o di una notizia che giunse verso Capodanno. Mi chiese di far sparire i suoi vecchi vestiti e mise i nuovi e tutto il resto nel borsone che le avevo comprato. Sistemò con cura i disegni di Masuud sul fondo. Aveva un comportamento contraddittorio: era stanca della noiosa vita di casa e desiderava muoversi, uscire e vedere gente, ma ora che era giunto il momento di andarsene pareva triste e insicura. Abbracciava continuamente Masuud ripetendo: «Come faccio a separarmi da lui?», se lo stringeva al petto e nascondeva le lacrime. Masuud aveva intuito che Shahrzad stava per andarsene e ogni sera al momento di dormire o quando doveva allontanarsi da casa si faceva promettere che sarebbe rimasta. Le chiedeva sempre se voleva andare via e perché. Pensava che fosse colpa sua e le prometteva di non disturbarla, di non svegliarla più la mattina, di non chiederle più di prenderlo in braccio oppure la pregava di portarlo con sé... e le sue parole la rattristavano ancora di più, facendo star male anche me. L'ultima notte Shahrzad dormì accanto a lui e gli raccontò delle storie, ma non riusciva a fermare le lacrime e Masuud capì, le prese il viso tra le manine e disse: «Lo so che domani quando mi sveglio tu non ci sei!».
A mezzanotte partì. Al momento degli addii mi strinse a sé e mi disse: «Ti ringrazio di cuore per tutto e ti affido il mio Masuud: prenditi cura di lui, è molto sensibile, e sono preoccupata per il suo futuro...». Poi si rivolse a Hamid: «Sei un uomo fortunato. Impara ad apprezzare il valore della tua vita. Hai una buona moglie e dei figli splendidi. Non voglio per nulla al mondo che qualcosa distrugga la luce e la pace di questa casa!».
Hamid la guardò sorpreso per quelle parole e non le comprese. La invitò a lasciar perdere e ad affrettarsi... Da quello stesso istante cominciai a sentire la mancanza di Shahrzad e il vuoto che aveva lasciato.
Il giorno seguente trovai il libro di Forugh Farrokhzad sotto il suo cuscino, con una matita fra due pagine per tenere il segno. Aveva sottolineato un verso: Ma quale cima, quale vetta? Proteggetemi voi, donne semplici, piene, totali. Mi scese una lacrima sul viso.
Masuud mi guardava in piedi sulla porta e con occhi tristi mi chiese: «Se ne è andata?».
«Buongiorno amore, sì, è partita, doveva tornare a casa sua prima o poi, non sembra giusto anche a te?»
Corse da me e cominciò a piangere con la testolina sulla mia spalla; non cancellò mai il ricordo della dolce zia Sherry e ancora anni dopo ogni tanto gli capitava di dire che aveva sognato la casetta costruita per andarci a vivere con lei.

26.

Dopo che Shahrzad se ne fu andata, fui sommersa di incombenze: fare le pulizie di primavera, acquistare vestiti nuovi per i bambini, cucire lenzuola, cambiare le tende del soggiorno. Desideravo che il Noruz fosse bello e divertente per i bambini. Cercavo di rispettare la tradizione e di renderlo un ricordo dolce dell'infanzia per il futuro. Masuud colorava le uova, Siamak era incaricato di innaffiare i sabzeh, ossia le lenticchie e il grano da far germogliare come buon auspicio. Hamid rideva e mi chiedeva perché mi dessi tanto da fare... ma io sapevo che anche lui, nel profondo del cuore, era emozionato per l'arrivo delle feste. Da quando passava la maggior parte del suo tempo libero con noi, aveva cominciato inevitabilmente a interessarsi alle faccende quotidiane e alla vita familiare. Quando il profumo dell'Eid cominciò a diffondersi, la nostra casa splendeva come uno specchio da cima a fondo...
Quell'anno andammo all'Eid didani come una vera famiglia. Partecipammo alle attività del periodo festivo e trascorremmo il sizdebedar22 con la famiglia di Hamid fuori città. Dopo le feste mi impegnai con rinnovata energia negli studi e ad aiutare Siamak. Hamid era quasi sempre in casa in attesa di una telefonata che non arrivava. Era deluso e irritabile, ma non poteva fare altro e io mi godevo la sua presenza. Con l'avvento dell'estate e l'inizio degli esami, programmai vari passatempi per i ragazzi. Volevo che stessimo insieme il più possibile e, visto che avevo preso la patente, avevo promesso di portarli al parco, a qualche festa e al luna park. I bambini erano felici e allegri e io mi sentivo soddisfatta di me.
Un pomeriggio, tornando dal parco con i ragazzi, mi fermai a comprare del pane e un quotidiano. A casa, mentre tagliavo il pane, il titolo in grassetto sulla prima pagina del giornale posato lì accanto attrasse la mia attenzione. Lo lessi e le parole mi trafissero come pugnali: non ero sicura di afferrarne bene il significato, restai come folgorata, immobile e tremante, senza riuscire a distogliere lo sguardo dalla pagina. I bambini si accorsero del mio cambiamento e si avvicinarono; in quello stesso istante la porta si spalancò e Hamid apparve sulla soglia, sconvolto. I nostri sguardi si incrociarono. Allora la notizia era vera, non c'era bisogno di spiegazioni. Hamid si sedette a terra battendosi i pugni chiusi sulle ginocchia e urlò: «No!», poi appoggiò la fronte sul pavimento, disperato. I bambini ci fissavano con un misto di curiosità e paura. Mi ricomposi e li mandai a giocare in cortile. Uscirono senza protestare. Mi avvicinai a Hamid che affondò la testa nel mio petto come un bambino e cominciò a piangere forte. Non so per quanto tempo piangemmo insieme, e Hamid ripeteva fra le lacrime: «Perché? Perché non me l'hanno detto? Perché non mi hanno avvertito?».
Dopo un po' la rabbia si aggiunse al dolore e lo rianimò. Si lavò la faccia e uscì di casa come un matto. Non potevo fermarlo, gli urlai solo di fare attenzione perché potevamo anche noi essere spiati.
Shahrzad e altri compagni erano stati accerchiati dalla SAVAK durante un'operazione di sabotaggio e, per non essere catturati, avevano messo fine alle loro vite facendosi saltare in aria con piccole bombe a mano. Lessi e rilessi la notizia per cercare altri dettagli, ma il resto dell'articolo conteneva solo insulti contro i «traditori della patria».
Nascosi il giornale per non farlo vedere a Siamak. A mezzanotte Hamid rientrò triste e stanco. Si buttò sul letto ancora vestito e mi confidò che era tutto perduto, tutti i collegamenti sabotati. Continuava a non capacitarsi del fatto che non l'avessero contattato e coinvolto. Lui conosceva i piani e ne faceva parte, era stato istruito proprio per quella missione, e con lui presente forse le cose sarebbero andate in modo diverso... Obiettai che non avrebbe certo potuto fronteggiare gli agenti della SAVAK e sfuggire all'arresto, anzi, probabilmente sarebbe morto anche lui. Intanto però anch'io mi chiedevo perché non lo avessero chiamato. Forse era opera di Shahrzad che aveva messo da parte Hamid per proteggere la nostra famiglia?
Passarono tre settimane. Mio marito era nervoso e insonne, aveva sempre la sigaretta in bocca e trasaliva ogni volta che squillava il telefono. Faceva di tutto per rintracciare Mehdi e gli elementi principali del gruppo, ma sembravano spariti. Tutti i giorni si diffondevano notizie sulla cattura di questo o quell'altro nucleo. Hamid rifinì le vie di fuga da casa e ripulì la stamperia da tutte le tracce possibili. Il pericolo si faceva sentire nell'aria e ogni istante passava nell'attesa di qualcosa. Consigliai a Hamid di fare come gli altri: andarsene per un periodo e tornare quando si fossero calmate le acque. Nessuno lo conosceva ancora, quindi sarebbe potuto uscire dal paese tranquillamente. Ma non voleva fuggire all'estero e nemmeno allontanarsi, perché potevano avere bisogno di lui in qualsiasi momento.
Cercavo di mandare avanti tutto nel modo più naturale possibile, ma nulla era più normale. Non riuscivo a darmi pace ed ero costantemente preoccupata per Hamid. Non potevo allontanare dalla mente il viso di Shahrzad e il ricordo dei mesi passati insieme.
Siamak aveva trovato il giornale e l'aveva letto di nascosto. Me lo trovai di fronte pallido con la pagina in mano e, quando gli chiesi se aveva capito, si strinse a me e cominciò a piangere. Non volevo assolutamente che anche Masuud venisse a saperlo, ma purtroppo aveva già compreso. Restò a lungo triste e rabbuiato. Non costruì più niente per la zia Sherry, non chiedeva di lei, e non voleva che nessuno la nominasse. Dopo un po' mi accorsi dei toni cupi e dei soggetti strani che popolavano i suoi disegni: colori e forme che non avevo mai visto. Non raccontava più la storia e il significato delle sue creazioni. Ci volle molto tempo prima che riuscisse a superare la tristezza che ormai abitava in lui e, anche se sorrise di nuovo, non se ne dimenticò mai. Temevo che questo muto dolore offuscasse la sua essenza dolce e solare. Lui sembrava creato per ridere, condividere affetto e rallegrare chi gli stava accanto, e non per la tristezza e la nostalgia, ma cosa potevo fare? Purtroppo non ero in grado di difendere i miei figli dalla crudeltà della vita e dalle realtà amare: era forse presto per affrontarle, ma non avevano alternativa. Era una tappa dolorosa e inevitabile della loro crescita.
Le condizioni di Hamid erano peggiori di quelle dei ragazzi: andava e veniva senza sosta e senza pace, a volte si perdeva per qualche giorno, ma quando rientrava nessuna delle sue angosce sembrava essere svanita. Capivo che non riusciva a ottenere ciò che stava disperatamente cercando. Una volta ci lasciò senza sue notizie per più di una settimana, non solo non tornò a casa, ma non chiamò nemmeno per sapere se qualcuno l'aveva cercato. Vivevo nell'ansia e nel terrore. Dalla morte di Shahrzad avevo paura di comprare il quotidiano, ma non riuscivo a farne a meno. Ogni mattina mi precipitavo all'edicola, a volte così presto che i giornali non erano ancora arrivati. Mi calmavo solo quando vedevo che non c'erano brutte notizie. Non leggevo il giornale per essere aggiornata sui fatti, ma nella speranza che non ce ne fossero...
Agli inizi del mese di Mordad arrivò la notizia che temevo. All'edicola i giornali erano ancora imballati, ma sotto la plastica trasparente spiccava l'enorme titolo in grassetto della prima pagina. Non ricordo come riuscii a comprare il giornale e a tornare a casa, ansimante e con le gambe che tremavano. I bambini giocavano in cortile. Salii le scale come una furia e mi chiusi in camera. Buttai il quotidiano per terra davanti a me con il cuore in gola: l'articolo dichiarava la disfatta della cellula leader di un'organizzazione terroristica e rassicurava sul fatto che il nostro «amato paese» era stato salvato da quella minaccia. I nomi mi scorrevano davanti agli occhi. Erano una decina. Alcuni non li ricordavo, ma in mezzo a loro c'era quello di Mehdi. Rilessi la lista: Hamid non c'era. Mi sentii svenire. Non avrei saputo dire cosa provavo esattamente. Dolore per i morti, certo, ma anche sollievo perché mio marito non era fra loro. Un barlume di speranza si era fatto largo nel mio cuore. Forse era vivo e stava scappando, forse non l'avevano nemmeno identificato e sarebbe tornato a casa. Ma se fosse stato arrestato?
Provai a chiamare la stamperia. Mancava un'ora alla chiusura, ma non rispose nessuno. Mi sembrava che tutta quell'ansia potesse uccidermi. Avevo bisogno di qualcuno con cui parlare e scambiare i pensieri, qualcuno che mi consolasse... Ma non mi azzardavo: la minima confidenza poteva essere pericolosa.
Passai altri due giorni nell'angoscia e nel buio di notizie. Lavoravo come una matta per tenere la mente occupata. La seconda notte accadde quello che temevo di più: era mezzanotte passata e mi stavo addormentando quando arrivarono, non so come né da dove. Siamak corse da me terrorizzato e uno di quegli uomini mi gettò tra le braccia Masuud che urlava. Un soldato ci puntava contro la pistola mentre noi tremavamo come foglie sul letto. Non ricordo quanti fossero. Ma in un secondo furono dappertutto e cominciarono a ribaltare ogni cosa. Rovesciarono il contenuto di armadi e cassetti. Non sapevo cosa stessero cercando. Forse Hamid era ancora vivo e non era stato catturato. Ci erano piombati in casa perché cercavano lui. Ma potevano anche averlo già preso ed essere sulla traccia delle prove della sua colpevolezza. Mi chiesi chi gli avesse dato il nostro indirizzo. Masuud li guardava avvinghiandosi a me. Siamak era seduto sul letto. Gli presi una mano. Era gelida e tremava lievemente. Lo guardai in faccia. Teneva sotto controllo ogni loro azione e nel suo sguardo, oltre alla paura, c'era qualcos'altro che mi fece trasalire: la fiamma dell'odio... odio e disprezzo negli occhi di un bambino di nove anni che rimasero per sempre impressi nella mia mente. Mi ricordai di Bibi: poco prima aveva gridato facendomi agghiacciare, ma ora non la sentivo più. Pensai che fosse morta.
Ci fecero alzare dal letto, cercarono tra le lenzuola e affondarono le loro lame nel materasso, poi ci ordinarono di sederci di nuovo.
Stava già sorgendo il sole quando se ne andarono portando via libri e carte. Masuud si era addormentato, ma Siamak era ancora seduto, pallido e muto. Passò qualche minuto prima che trovassi il coraggio di scendere dal letto. Temevo che uno di quelli si fosse nascosto in casa nostra e ci stesse sorvegliando. Cercai in tutte le stanze, mentre Siamak mi seguiva come un'ombra. Aprii la porta e uscii. Non c'era nessuno. Scesi di corsa le scale. La porta della stanza di Bibi era spalancata e lei giaceva immobile sul letto. Ero sicura che fosse morta. Mi avvicinai e mi resi conto che respirava ancora, anche se a fatica. Le misi tre cuscini dietro la schiena, presi un bicchiere d'acqua e cercai di portarglielo alla bocca. Non c'era più nulla da nascondere, non era più rimasto alcun segreto del quale avere paura. Presi il telefono e chiamai a casa del padre di Hamid. Ebbi la sensazione che la notizia non gli giungesse del tutto inaspettata, come se avesse previsto già da tempo che prima o poi sarebbe successo.
Ispezionai la nostra casa: l'avevano messa così a soqquadro che ero certa che non sarei più riuscita a sistemare tutto. Sembrava un paese dopo l'attacco del nemico: devastato, distrutto, sconvolto. Avrei dovuto contare anche i morti?
Anche nella stanza di Bibi era stato rovesciato tutto e mi chiesi come avessero potuto trovarvi posto così tante cose: vecchie tende; tovaglie cucite a mano con macchie mai cancellate nonostante i ripetuti lavaggi; avanzi di stoffa di tutte le dimensioni, rimasugli di vecchi vestiti; forchette deformi e piatti e stoviglie scheggiati; oggetti inutili. Perché mai Bibi si era tenuta tutta quella roba? Forse ogni pezzo rappresentava un momento della sua vita?
Erano stati anche in cantina. Il korsi, il tavolo e le sedie erano rotti; bottiglie di latte vuote erano sparse per terra fra la polvere e manciate di riso fuoriuscite dai sacchi squarciati. Mi misi le mani tra i capelli alla vista del caos che regnava ovunque.
I genitori di Hamid entrarono in casa sconvolti e increduli. Alla vista di quella devastazione sua madre scoppiò in lacrime. Continuava a ripetere «Che disgrazia!» e «Dov'è il mio Hamid?» La guardavo senza parlare. Non riuscivo a piangere: ero irrigidita e fredda come il ghiaccio e il mio cervello non voleva saperne di collaborare, come se non mi rendessi conto dell'entità della disgrazia. Suo padre fece salire in macchina Bibi frettolosamente e vi spinse dentro anche la moglie. Non avevo la minima voglia di aiutarli e confortarli. Ero stata derubata di tutti i miei sentimenti. Sapevo solo che non potevo sedermi e così continuavo a camminare...
Non so quanto tempo fosse passato quando il padre di Hamid tornò. Abbracciò Siamak e cominciò a piangere. Lo guardai con indifferenza, come un estraneo. Poi l'urlo lacerante e inaspettato di Masuud risvegliò la mia coscienza. Corsi in fretta verso le scale e lo presi in braccio, era sudato e tremava. «Non è successo niente amore, non è successo niente...»
«Raccogliete le vostre cose, resterete da noi per qualche giorno.»
«No, grazie, restiamo a casa nostra, stiamo meglio qui.»
«Non potete, non è sicuro.»
«Devo restare, potrebbero arrivare notizie di Hamid, potrebbe avere bisogno di me.»
Scosse il capo risolutamente. «No, non serve a nulla. Raccogli le tue cose. Se preferisci casa dei tuoi ti porterò lì, può darsi che anche casa nostra non sia più un luogo sicuro...»
Capii che aveva più informazioni di me, ma non avevo il coraggio di fargli domande, non volevo sapere.
In mezzo al caos trovai un borsone e ci infilai tutti i vestiti dei bambini che mi capitarono a tiro insieme ai miei. Uscii di casa senza nemmeno vestirmi, coperta dal chador. Rimasi in silenzio per tutto il tragitto, mentre il padre di Hamid parlava con i bambini per distrarli. Quando scesero dalla macchina li guardai: anche loro avevano ancora indosso i pigiami e sembravano così piccoli e indifesi...
«Figlia mia, so che sei ancora sotto shock, è stato un duro colpo, ma devi essere forte, tornare in te. I tuoi figli ne hanno bisogno, devi aver cura di loro.»
Finalmente scoppiai in lacrime. «Hamid! Cos'è successo a Hamid?»
Il padre posò la fronte sul volante della macchina senza parlare.
«È morto, vero? Anche lui ucciso come gli altri...»
«No tesoro, è vivo, questo lo so per certo.»
«Avete sue notizie? Se sapete qualcosa ditemelo, ho bisogno di sapere, vi giuro che non parlerò con nessuno! Si è nascosto alla stamperia?»
«No cara, due giorni fa hanno messo a soqquadro anche quella e l'hanno chiusa.»
«Ma perché non mi avete avvertita? Anche Hamid era lì?»
«Sì, nei dintorni...»
«E allora?»
«L'hanno arrestato.»
Non riuscii più a dire altro, finché mi venne in mente che l'arresto era ciò che Hamid temeva di più, più della morte. Ma il padre mi invitò a sperare, a essere ottimista: lui avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per aiutarlo, aveva già incontrato persone importanti, mosso le sue conoscenze, interpellato un avvocato. Se volevo aiutarlo dovevo avere fiducia e tenermi in contatto con lui... e ringraziare il cielo che Hamid fosse ancora vivo. E inshallah si sarebbe sistemato tutto.
Passai tre giorni a letto in casa dei miei. Non stavo male, non avevo la febbre, ma mi sentivo così stanca da non poter muovere un solo muscolo, come se tutta l'ansia degli ultimi mesi e quell'ultimo colpo mi avessero privata dell'energia e della volontà rimaste. Masuud si sedeva accanto a me e mi accarezzava i capelli, cercava di costringermi a mangiare e si prendeva cura di me come un infermiere. Siamak passeggiava silenzioso intorno all'hoz, non parlava e non litigava con nessuno, non faceva danni e non giocava. Nel suo sguardo cupo e profondo si leggeva la tristezza e questo mi spaventava più del suo caratteraccio. In una sola notte era stato costretto a crescere all'improvviso e sembrava un uomo amareggiato.
Il terzo giorno decisi di alzarmi: non avevo altra scelta, dovevo tornare alla vita, anche se non ne avevo voglia. Appena venne a sapere dell'accaduto, Mahmud si precipitò da noi con la moglie e i figli. Ehteramsadat continuava a farmi domande, ma io non avevo voglia di risponderle, e mio fratello parlava in cucina con Khanum Jun per avere notizie. Fati aveva portato il vassoio con il tè e si era appena seduta accanto a me quando, all'improvviso, un urlo di rabbia di Siamak si alzò dal cortile, come se fosse scoppiata una tempesta. Aveva il viso paonazzo e gridava insulti contro Mahmud, poi si girò di scatto, con una forza sorprendente sollevò il povero Gholam Ali e lo buttò nell'hoz, e infine diede un calcio al vaso accanto a lui mandandolo in frantumi. Non sapevo cosa lo avesse fatto infuriare, ma ero sicura che non fosse una reazione infondata, e fu quasi un sollievo per me. Finalmente si stava sfogando dopo tre giorni di silenzio, e quando Ali gli si avvicinò urlandogli «idiota» e alzò la mano per tirargli un ceffone, non ci vidi più dalla rabbia. Gli gridai: «Non t'azzardare!» e mi avventai su di lui come una tigre che difende i suoi cuccioli. «Se ti azzardi ad alzare un solo dito su mio figlio ti faccio a pezzi!» Strinsi a me Siamak che tremava per la rabbia, mentre tutti mi guardavano ammutoliti.
Ali si riprese. «Volevo soltanto zittirlo! Non hai sentito cosa diceva allo zio e non hai visto cosa stava facendo? Guarda quel poveretto di suo cugino!» e indicò Gholam Ali, che stava in piedi accanto alla madre come un topolino bagnato e tirava su con il naso.
«È chiaro che gli è stato detto qualcosa di cattivo per farlo arrabbiare così, visto che sono tre giorni che non gli esce un suono dalla bocca», replicai.
Mahmud commentò che mio figlio era un «indemoniato» e che mi sarei dovuta vergognare a difenderlo contro mio fratello. Quando Agha Jun rientrò, in casa regnava di nuovo la pace, ma la calma dopo la battaglia si crea per permettere alle due fazioni in lotta di studiare i danni... Mahmud e la sua famiglia se n'erano andati. Ali era al piano di sopra in camera sua. Khanum Jun piangeva: non sapeva se stare dalla mia parte o difendere i «suoi» uomini. Fati mi girava intorno e mi aiutava a mettere via le nostre cose. Agha Jun mi chiese subito cosa stessi facendo.
«Devo andarmene, non voglio che i miei figli subiscano ordini e soprusi, soprattutto da quelli che dovrebbero essere i loro cari.»
«Perché? Cos'è successo?»
Khanum Jun si lagnò: «Non lo so Agha! Il povero Mahmud stava soltanto parlando con me e Siamak l'ha sentito. Non hai idea del putiferio che ha scatenato, e sorella e fratelli hanno cominciato a litigare...».
«Qualsiasi cosa sia successa, non permetterò che Masum passi la notte a casa sua, non è sicuro.»
«Ma io devo andare, Agha Jun, le scuole riaprono la prossima settimana e non ho ancora iscritto i bambini...»
«Va bene, ma non da sola e non stasera!»
«Verrà Fati con me.»
«Ah! Adesso sto proprio tranquillo... così correte i rischi in due! Dev'esserci un uomo con voi, nel caso in cui quelli tornino, non devono restare due donne sole in quella casa. Domani ci andremo tutti insieme.»
Aveva ragione, dovevamo aspettare. Dopo cena, Agha Jun fece sedere Siamak accanto a sé e gli parlò, come aveva sempre fatto fin da quando era piccolo.
«Allora, ragazzo mio! Raccontami un po' che cos'è successo e perché ti sei arrabbiato così tanto.»
E Siamak ripeté quello che aveva sentito dire da Mahmud a Khanum Jun come un piccolo registratore, imitando persino il tono di voce e i movimenti dello zio: «Hamid è un poco di buono, un delinquente, lo giustizieranno, vedrai, a me quella famiglia non è mai piaciuta, sapevo che c'era qualcosa che non andava, ma d'altronde cos'altro ci potevamo aspettare da una proposta di Parvin Khanum? Quante volte ho insistito di darla a Haj Agha... Era più vecchio, ma era un uomo di fede e d'affari, c'è molta merce nel suo negozio, e invece vi siete fidati di quel comunista senza Dio... gli sta bene, lo devono giustiziare!».
Agha Jun strinse al petto Siamak, gli baciò i capelli e gli disse che non doveva ascoltarli, non erano neanche in grado di capire... «Tuo padre è un brav'uomo, non lo giustizieranno. Oggi ho parlato con tuo nonno che ha dato incarico a un avvocato di difenderlo e, inshallah, si sistemerà tutto.»
Restai sveglia tutta la notte a pensare a come avremmo potuto vivere senza Hamid, a quale sarebbe stato il mio destino e soprattutto quello dei bambini. E come avrei potuto difenderli dalla malignità della gente?
La mattina, accompagnati da Agha Jun, Fati e Parvin Khanum tornammo alla nostra casa disastrata. Mio padre rimase colpito e dispiaciuto quando vide in che stato era e mi disse che ci avrebbe mandato qualcuno ad aiutarci. Poi mi offrì dei soldi, ma io li rifiutai, dicendogli che per il momento non ne avevo bisogno.
Questo però mi fece inevitabilmente pensare alla nuova situazione familiare senza Hamid: come avrei potuto procurarmi da vivere e mantenere i miei figli? Avrei dovuto vivere alle spalle di mio padre e di mio suocero per tutta la vita? Mi sentii riprendere dall'ansia, ma mi feci coraggio pensando che la stamperia prima o poi avrebbe riaperto, e in parte era di Hamid.
Per tre giorni interi io, Fati, Parvin Khanum, Siamak, Masuud, gli apprendisti del negozio di Agha Jun e a volte anche Khanum Jun lavorammo finché la casa non tornò com'era. Le sorelle di Hamid vennero ad aiutarci per sistemare anche la casa di Bibi. La nonna era stata dimessa dall'ospedale e per ora stava da loro.
Il giorno seguente mi recai alla scuola dei bambini. Il povero Masuud cominciò la prima elementare in un triste stato d'animo, ma al contrario di Siamak faceva di tutto per non crearmi problemi. Il primo giorno lessi nel suo sguardo la paura per il nuovo ambiente, ma lui non ne fece parola. Al momento dei saluti gli dissi che era proprio un bravo bambino: avrebbe presto fatto amicizia con i compagni e la maestra gli avrebbe voluto molto bene. Ma qualcos'altro lo preoccupava.
«Torni a prendermi, vero?»
«Certo che torno! Pensi che mi possa dimenticare del mio ometto speciale?»
«No, ma ho paura che tu ti perdi!»
«Perdermi? Stai tranquillo, i grandi non si perdono.»
«Sì che si perdono, e quando si perdono non si ritrovano più! Hai visto che Shahrzad e il papà si sono persi e non sono tornati?»
Era la prima volta dalla morte di Shahrzad che la nominava, e poi con il suo nome vero e non come zia Sherry...
Non sapevo cosa rispondere, lo strinsi a me e gli dissi che le mamme non si perdono, conoscono così bene l'odore dei loro figli che li trovano ovunque siano.
«Allora promettimi di non piangere quando non ci sono!»
«No, amore della mamma, non piango! Quando mi hai visto piangere?»
«Tu piangi sempre quando sei da sola in cucina!»
Non si poteva nascondere niente a quel bambino. Sentii un groppo in gola. «Piangere non è una cosa brutta, sai? A volte serve tanto, così le persone riescono a sentirsi più leggere, però ti prometto che non piangerò più!»
A scuola non ebbi nessun problema con lui. Faceva i compiti regolarmente e si arrangiava da solo. Stava sempre attento a non essere fonte di preoccupazioni per me... L'unica conseguenza che non poteva tenermi nascosta di quella notte spaventosa erano gli incubi che lo facevano urlare di paura e ci svegliavano nel cuore della notte.
Passarono due mesi. L'università riaprì, ma non avevo tempo di pensarci. Ogni giorno accompagnavo il padre di Hamid nelle sue visite a personaggi vari che avrebbero potuto raccomandarci e aiutarci, li imploravamo e cercavamo di farceli alleati; scrivemmo persino una lettera alla regina Farah, supplicandola di non giustiziare Hamid. Ottenemmo anche qualche promessa, ma non eravamo per nulla certi del risultato finale delle nostre perorazioni e soprattutto non sapevamo come stesse effettivamente Hamid.
Qualche tempo dopo arrivò la sentenza: poiché non aveva partecipato in prima persona agli atti terroristici la pena di morte non fu applicata e fu condannato invece a quindici anni di carcere. Più tardi ci fu concesso di mandargli cibo e vestiti e di scrivergli. Ogni lunedì portavo in carcere qualcosa per lui, anche libri e materiale per scrivere, ma la maggior parte mi veniva subito restituita, e di ciò che tenevano non so quanto arrivasse effettivamente a Hamid.
La prima volta che mi diedero i suoi panni sporchi da lavare rimasi sconcertata: avevano un odore strano. Odore di sangue rappreso, infezioni e lunghe sofferenze... li ispezionai con orrore. Chiusi la porta del bagno e feci scorrere l'acqua per coprire il mio pianto: cosa stava passando in quel posto, cosa gli stavano facendo? Forse sarebbe stato meglio se fosse rimasto ucciso come gli altri, come Shahrzad e Mehdi. Forse desiderava la morte in ogni suo istante... Con il tempo cominciai a capire dalle macchie sugli abiti dove gli erano stati inferti i colpi, e quanto erano stati pesanti, e a saper distinguere una ferita grave da quelle che erano già in via di guarigione.

27.

Il tempo passava, ma la stamperia non aveva riaperto. Il padre di Hamid mi versava dei soldi mensilmente, ma per quanto ancora sarebbe potuta andare avanti quella situazione? Dovevo prendere una decisione e agire: non ero né una bambina né un'inferma, ero una donna responsabile, madre di due bambini che non volevo crescessero grazie alla compassione e all'elemosina degli altri. Restare seduta ad aspettare con la mano tesa non faceva per me e certamente Hamid non avrebbe approvato. Dovevamo vivere con dignità e a testa alta, ma come? Cosa avrei potuto fare? La prima cosa che mi venne in mente fu il lavoro di sarta di Parvin Khanum. Fati l'aiutava già e mi aggiunsi anch'io, ma non mi piaceva, soprattutto perché ero costretta ad andare tutti i giorni a casa sua o di Khanum Jun, trovarmi faccia a faccia con Mahmud e Ali e sorbirmi la predica quotidiana di mia madre sull'importanza di taglio e cucito che io avevo snobbato per continuare a studiare.
Tutti i giorni leggevo il giornale a caccia di qualcosa che facesse per me fra gli annunci d'impiego. Per lo più cercavano segretarie. Il padre di Hamid mi aiutò con informazioni preziose sull'ambiente lavorativo in ufficio e in azienda. In alcuni colloqui mi studiavano con tale avidità che sembrava cercassero un'amante più che un'impiegata... Comunque mi resi presto conto che possedere un diploma non bastava, dovevo fare esperienza pratica. Frequentai un paio di lezioni di dattilografia, ma dopo aver appreso le nozioni fondamentali lasciai il corso perché non avevo né i soldi per la retta né il tempo per frequentarlo.
Il padre di Hamid mise a mia disposizione una vecchia macchina per scrivere. La notte mi esercitai con quella finché lui stesso mi presentò a un suo conoscente a capo di un'azienda pubblica. Feci il colloquio di assunzione con un uomo sulla trentina, dallo sguardo penetrante e intelligente. Mi fece molte domande, per scoprire anche quello di cui non parlavo, finché arrivò a mio marito e mi chiese di cosa si occupasse.
Rimasi perplessa: pensavo che fosse a conoscenza della mia situazione, visto che ero stata presentata dal padre di Hamid, e che quindi avrebbe evitato quel tipo di domanda... Risposi balbettando che era un «libero professionista», ma dal suo sguardo e dal suo sorriso capii che non mi credeva. Ero stanca e nervosa e allora sbottai: «Sono io a volere un lavoro, cosa c'entra mio marito?».
«Mi è stato detto che non avete mezzi di sostentamento.»
«Chi ve l'ha detto?»
«Il signor Soltani che vi ha presentata.»
«Quindi se avessi altri "mezzi di sostentamento" non mi assumereste? Scusatemi, ma non state cercando un'impiegata?»
«Sì signora, è vero, ma ci sono altri che hanno bisogno di questo impiego, e che hanno più esperienza di voi, e dunque non capisco perché il signor Soltani vi abbia presentato con tanta insistenza!»
Non sapevo cosa rispondere. Il padre di Hamid mi aveva raccomandato di non far riferimento alla reclusione di mio marito durante i colloqui di lavoro, ma non potevo mentire, perché sarei stata sicuramente smascherata e io volevo ottenere quel posto a tutti i costi. Ne avevo bisogno e per di più era adatto a me da molti punti di vista. Ero con le spalle al muro e, senza che potessi frenarle, due lacrime mi scesero sulle guance. Con voce così flebile che io stessa stentavo a sentirmi ammisi: «Mio marito è in prigione».
L'uomo aggrottò le sopracciglia e mi chiese perché.
«Per attività politiche.»
Ammutolì. Io non ebbi il coraggio di dire altro e lui non mi fece più domande. Cominciò a scrivere senza parlare, poi alzò la testa e con sguardo rammaricato mi porse una lettera. «Non fate parola con nessun altro riguardo a vostro marito. Portate questa lettera alla signora Tabrizi nella stanza accanto, vi dirà quali mansioni dovrete svolgere e potete cominciare a lavorare qui da domani stesso.»
La notizia del mio lavoro scoppiò come una bomba in casa mia. La mamma esclamò con gli occhi fuori dalle orbite: «Vuoi dire che andrai a lavorare in un ufficio? Come gli uomini?».
«Sì, ormai non ci sono più molte differenze tra uomo e donna», risposi.
«Oh, mio Dio, cosa dici? La fine del mondo è vicina! Agha Jun e i tuoi fratelli non saranno felici di questa notizia...»
«Non riguarda loro e non deve interessargli, nessuno ha il diritto di intromettersi nella mia vita e in quella dei miei figli. Mi hanno già fatto abbastanza male. Ora ho un marito, e mio marito non è morto, quindi non hanno voce in capitolo.»
Con l'ultima affermazione chiusi la bocca a tutti, anche se credo che mio padre non avesse niente da eccepire, perché più volte gli sentii dire con ammirazione che sua figlia stava in piedi sulle sue sole gambe e non dipendeva da nessuno. Quel lavoro fu davvero positivo per il mio umore, sentivo di realizzare me stessa e l'indipendenza, anche se era faticosa, mi faceva sentire viva.
In ufficio ricoprivo il ruolo di segretaria e facevo di tutto, battevo a macchina, rispondevo al telefono, riordinavo i documenti, amministravo alcuni semplici conti e a volte mi occupavo anche di qualche piccola traduzione. All'inizio tutto mi sembrò molto complicato e ogni mansione pesante, ma in un paio di settimane raggiunsi la padronanza necessaria. Il signor Zargar, che era diventato il mio capo, mi spiegava tutto pazientemente e sorvegliava con attenzione il mio lavoro. Ma non mi fece più alcuna domanda riguardo alla mia vita personale e non volle sapere niente di Hamid.
Dopo qualche tempo cominciai a occuparmi anche della correzione di lettere e documenti. Restavo pur sempre una laureanda in lingua e letteratura farsi, e avevo dedicato i dieci anni precedenti alla lettura di tanti libri. Il mio capo mi incoraggiava e io acquisivo coraggio, così che mi fu assegnata anche la redazione delle lettere. Adoravo il mio lavoro, ma avevo un nuovo problema, a cui non avevo pensato.
Non potevo più far visita a Hamid in prigione regolarmente come prima; adesso erano tre settimane che non avevo sue notizie e cominciavo a preoccuparmi. Mi dissi che quella settimana sarei dovuta andarci.
La sera prima preparai frutta e dolci e li sistemai nella borsa insieme ai vestiti puliti. Mi presentai al carcere il mattino presto. Il guardiano mi chiese con tono poco educato se ero così mattiniera perché non ero riuscita a dormire e cominciò a prendermi in giro. Gli dissi che dovevo essere al lavoro alle otto in punto, ma lui continuò a insultarmi. Ero ormai abituata alla mancanza di rispetto e alla maleducazione, ma quell'uomo stava esagerando e, per quanto tremassi per la rabbia, non potevo fare nulla se non volevo rischiare che Hamid venisse privato anche di ciò che gli portavo.
Tornai in ufficio abbattuta e frustrata. Lo sguardo acuto del signor Zargar percepì subito il mio stato d'animo e lui mi chiese cos'era accaduto. Al mio racconto bagnato di lacrime reagì scuotendo la testa indignato e mi disse che avrei dovuto dirglielo prima, che non potevo abbandonare mio marito in prigione così... D'ora in poi dovevo andare da lui ogni lunedì mattina e solo dopo recarmi in ufficio. Ma come avrei potuto?
«Non capite, non posso stare fuori così tante ore: e se poi non riesco a svolgere le mie mansioni? Non posso rischiare di perdere questo lavoro!»
«Non preoccupatevi, sarà un segreto fra noi, per gli altri sarete in giro per mansioni d'ufficio. È il minimo che posso fare per coloro che hanno sacrificato sé stessi...»
Era davvero un uomo buono, sensibile e comprensivo. Mi ricordava Masuud e pensavo che mio figlio crescendo sarebbe diventato come lui.
Lentamente ci abituammo al nuovo stile di vita. I bambini collaboravano e facevano del loro meglio per non crearmi difficoltà. La mattina facevamo colazione insieme, ci preparavamo e, anche se la strada era abbastanza breve, li accompagnavo a scuola con la vecchia Citroën che mi era stata tanto preziosa. A mezzogiorno tornavano da scuola a piedi, compravano il pane lungo la strada e si scaldavano da soli il pranzo che avevo lasciato pronto. Mangiavano e ne portavano un po' anche a Bibi. Dopo essere stata dimessa dall'ospedale, la povera vecchietta non si era più ripresa e si sentiva a suo agio solo a casa sua, così dovevamo occuparci anche di lei.
Il pomeriggio, quando finivo di lavorare, facevo la spesa, passavo da Bibi per riordinarle la stanza e raccogliere i piatti sporchi, chiacchieravo un po' con lei e poi tornavo a casa. E lì cominciava il mio «secondo lavoro»: pulire, stirare, preparare la cena e il pasto per il giorno dopo, aiutare i bambini nei compiti... Finché verso le undici crollavo come un cadavere sul letto. In quelle condizioni ero certa che non sarei più riuscita ad andare avanti con gli studi. Avevo già perso un anno e sarei stata costretta a perdere anche i successivi.

28.

Quell'anno un altro evento in famiglia ci tenne occupati per un po': il matrimonio di Fati, che fu celebrato dopo discussioni e litigi per punti di vista divergenti. Mahmud, dopo la lezione imparata dal mio matrimonio, era convinto che Fati dovesse essere data in sposa a un uomo d'affari e di fede come lui. Fati, che al contrario di me era silenziosa, pacata e arrendevole, non osò opporsi nonostante odiasse il suo pretendente. Sembrava che le punizioni inflittemi in passato l'avessero talmente scioccata da farle perdere per sempre la sicurezza di sé e la forza di esprimere la propria opinione.
Così feci io ancora una volta la parte del «gallo da combattimento» della famiglia. Questa volta, però, agii con maggiore astuzia e oculatezza e, invece di discutere con Mahmud o Khanum Jun, ne parlai pacatamente con Agha Jun. Gli dissi come la pensava Fati e gli chiesi di non rovinare la vita anche alla sua seconda figlia con un matrimonio combinato. Anche se si scoprì ben presto il mio zampino nella decisione di papà, e Mahmud ne rimase molto contrariato, ottenni il mio scopo: quel matrimonio andò a monte e Fati si sposò con un altro pretendente, presentato dallo zio Abbass, che le era piaciuto sin dal primo istante. Sadegh Khan era un giovane colto, amorevole, di bell'aspetto, lavorava come contabile presso un'azienda pubblica e i suoi genitori facevano gli insegnanti ed erano persone modeste ma beneducate. Anche se lui era un semplice impiegato e non aveva una situazione economica floridissima, come diceva Mahmud, Fati era contenta e sia io sia i miei figli gli volevamo un gran bene. Da parte sua poi, comprendendone il profondo bisogno di un padre, mio cognato aveva stretto con loro un rapporto fantastico e li portava spesso in giro per farli divertire.
La nostra vita aveva preso un ritmo ordinato e senza scosse. Il lavoro mi piaceva molto: era perfetto per me. Avevo anche trovato dei buoni amici con cui andare a pranzo e passare i momenti di pausa, ridendo, scherzando e facendo pettegolezzi sulle vite degli altri. In questo modo venni a conoscere anche gli impiegati degli altri uffici, ma i nostri discorsi vertevano in particolare su uno dei nostri capi, il signor Shirazi, al quale non ero mai andata a genio. Trovava sempre qualcosa che non andava in ciò che facevo. Tutti dicevano che era un poeta e un uomo sensibile, ma io lo trovavo aggressivo e ingiusto. Facevo attenzione a non dargli motivi per tartassarmi, ma lui mi prendeva sempre in giro e trovava ogni pretesto per farmi capire che ero entrata lì soltanto grazie a forti raccomandazioni e che non avevo le competenze adeguate. I miei colleghi mi rassicuravano che era il suo comportamento abituale e che non me la sarei dovuta prendere più di tanto, ma io continuavo a pensare che mi avesse preso di mira e l'avevo perfino sentito dire che ero «la cocca del signor Zargar». Ci ero rimasta molto male, non capivo perché ce l'avesse tanto con me, e cominciai a detestarlo anch'io. Una volta dissi ai miei colleghi: «L'unica cosa che non gli si addice proprio è la poesia, sembra più un mafioso che un poeta. Un poeta deve avere un animo delicato e umile, mentre lui è pieno di sé, bisbetico e antipatico. Sono sicura che non scrive lui quelle poesie... Avrà costretto un povero artista a comporle per lui!».
Risero tutti, ma quelle parole giunsero in fretta anche alle sue orecchie: fu così che un giorno strappò con gesto teatrale l'articolo che avevo scritto con grande cura e fatica con la scusa di qualche piccolo errore di battitura. Impazzii, non potevo più trattenermi. Gli chiesi urlando cosa avesse contro di me e perché cercasse ogni pretesto per sminuire il mio lavoro. Disse che aveva capito con chi aveva a che fare: non potevo ingannarlo, lui non si faceva manovrare come una marionetta come il signor Zargar da una come me.
In quel momento entrò proprio il mio capo per vedere cosa stava succedendo.
«Cosa sta succedendo? Niente, semplicemente questa donna non sa lavorare! Ci ha messo due giorni a scrivere un articolo e me l'ha consegnato pieno di errori. Ecco quello che succede quando si assume un'analfabeta, solo perché è stata raccomandata bene ed è di bell'aspetto...»
«Fa' attenzione a quello che dici e modera i termini! Andiamo nella mia stanza, devo parlarti.»
Piangevo con la testa fra le mani mentre i colleghi si raccoglievano intorno a me. Ognuno cercava di consolarmi in qualche modo. Abbass Ali, il tuttofare del nostro piano, mi portò dell'acqua zuccherata. Mi rimisi a lavorare. Dopo un'ora il signor Shirazi entrò nella mia stanza. Ero girata di spalle.
Lui si avvicinò alla mia scrivania e mi parlò cercando di non incrociare il mio sguardo: «Mi scusi, mi perdoni, veramente...». Poi abbandonò in gran fretta l'ufficio.
Muta e sorpresa guardai in cerca di risposta il signor Zargar che era in piedi sulla porta. Mi disse di dimenticarmi dell'accaduto e che Shirazi era un brav'uomo, di buon cuore, ma alcune cose lo pungevano sul vivo... Continuavo a non capire: era la mia semplice presenza a infastidirlo? No, era chiunque ritenesse causa di un'ingiustizia: insomma, stavano per assumere un suo allievo che si era appena laureato quando ero arrivata io e avevano preso me.
«Ma allora aveva ragione, perché io ho portato via il posto a qualcun altro che lo meritava di più! Perché lo avete fatto?»
«Non dovrei rendere conto delle mie decisioni; comunque l'ho fatto perché ho pensato che quel ragazzo, con le sue capacità e i suoi attestati, avrebbe facilmente trovato un altro lavoro, e infatti così è avvenuto una settimana dopo. Per voi invece sarebbe stato decisamente più difficile. Adesso ho rivelato al signor Shirazi la verità sulla vostra situazione e su vostro marito, ma non dovete preoccuparvene, è un uomo degno di fiducia. E, che rimanga fra noi, anche lui in passato ha avuto problemi di tipo politico.»
Dopo quell'episodio Shirazi divenne uno dei miei migliori amici. Al contrario del signor Zargar, era curiosissimo riguardo alla situazione di Hamid, al suo gruppo e al modo in cui erano stati presi e a ogni occasione buona mi faceva domande sull'argomento. Sapeva ascoltare con acume e attenzione e questo rendeva assai naturale parlargli. Non avevo nessun altro con cui confidarmi, ma il suo conforto era misto a così tanto odio e rabbia che a volte mi spaventava. Durante uno dei miei racconti divenne paonazzo. Gli chiesi preoccupata se si sentisse bene.
«No, non sto affatto bene, ma non preoccupatevi, io sono sempre così, non avete idea di quello che porto dentro.»
«Ditemelo allora... forse è la stessa cosa che è in me e che non riesco a tirare fuori.»
«Il mio spirito è come una città in lutto per l'attacco barbaro del nemico dopo che sono tutti morti e io, tra le fiamme della rabbia, sono assetato del suo sangue, come un ruzedar23 è assetato d'acqua nel mezzogiorno bollente dell'estate.»
No, io non avevo così tanto odio e spirito di vendetta dentro di me, anche se avevo ricevuto molti colpi dalla vita.
Una volta mi chiese dell'intrusione della SAVAK in casa nostra. Gli raccontai ciò che era successo e lui perse il controllo e si mise a urlare contro la tirannia, contro gli oppressori che facevano soffrire tante persone come cani rabbiosi. Dov'erano i leoni che avrebbero portato la salvezza? Perché se ne stavano nascosti nelle loro tane?
Mi spaventai: i savaki potevano nascondersi anche fra noi, nei nostri uffici... Dovevamo essere cauti!
Da allora Shirazi aveva cominciato anche a recitarmi i suoi versi. Lui era fra gli sconfitti politici degli anni Cinquanta. Il suo animo giovane e sensibile si era spezzato sotto il peso di quelle disfatte che aveva amareggiato tutto il resto della sua vita.
Riflettevo con preoccupazione su come le esperienze amare in giovane età potessero lasciare segni indelebili... Trovai la risposta in una poesia che raccontava del 28 di Mordad, il 19 agosto: Dopo quell'istante i miei occhi, per tutta la vita, riconobbero il cielo nel sangue, il sole e la luna giorno e notte videro riflessi nelle lame dei pugnali.
La mia conoscenza con Shirazi mi fece preoccupare moltissimo per Siamak. Mi ricordai del bagliore di odio che gli avevo visto negli occhi quella notte: anche lui sarebbe diventato così? Forse anche lui al posto della speranza, della gioia e delle bellezze della vita avrebbe scelto l'odio, il silenzio e la solitudine? Le passioni politiche potevano sortire effetti così indelebili nelle menti giovani? Figlio mio... dovevo fare qualcosa!

29.

Eravamo alla fine dell'estate ed era passato un anno dalla cattura di Hamid. In base alla sentenza emessa dal tribunale, avremmo dovuto trascorrere altri quattordici anni senza di lui. Non c'era altra scelta, dovevamo farci l'abitudine. L'attesa era diventata il perno della nostra vita. Intanto l'apertura delle iscrizioni all'università si avvicinava. Dovevo prendere una decisione: o mi ritiravo dal mondo degli studi una volta per tutte buttando al vento il mio sogno di sempre, oppure mi iscrivevo, affrontando le difficoltà di quella scelta sia per me sia per i miei figli.
Con il poco tempo a disposizione non ce l'avrei fatta a organizzarmi per frequentare le lezioni senza ripercussioni sul lavoro. Anche se in ufficio non avessero avuto nulla da ridire, io non me la sarei sentita di approfittare della loro comprensione. D'altra parte, una laurea era quasi indispensabile per andare avanti nel mio lavoro. Quando poi qualcuno mi dava ordini o mi accollava i suoi errori solo in virtù del fatto di possedere una laurea, mi sentivo frustrata e spinta a decidermi per l'iscrizione. E poi, sapendo che avrei dovuto mandare avanti la famiglia da sola ancora per parecchi anni, cominciai a pensare seriamente a soluzioni che potessero garantirmi un maggior guadagno per poter rispondere ai bisogni futuri dei bambini. Anche da quel punto di vista il completamento degli studi era necessario.
Come mi aspettavo, nella mia famiglia erano tutti convinti che dovessi lasciar perdere l'università, ma stranamente anche la famiglia di Hamid era della stessa idea! Il padre di Hamid mi faceva notare il carico di lavoro aggiuntivo a cui mi sarei sottoposta, mentre la madre si preoccupava per i bambini che avrei sicuramente trascurato.
Manijeh, che era agli ultimi mesi di gravidanza e aveva ripetuto molte volte il concour senza mai passarlo fino al matrimonio, con la solita espressione affettata disse che l'università era diventata una moda in famiglia perché anche Mansureh l'aveva frequentata. Feci del mio meglio per controllarmi, ma negli ultimi tempi ero diventata sempre meno paziente, non mi sentivo più una contadinotta impacciata disposta a subire ogni sgarbo o prepotenza, e la rabbia ebbe la meglio sull'esitazione: «Adesso che oltre al ruolo di madre devo ricoprire anche quello di padre per i miei figli, dovrò pur escogitare qualcosa per guadagnare più soldi, non vi pare? Sono l'unica responsabile del loro futuro e il mio stipendio attuale non basterà a soddisfare le loro esigenze, visto che già adesso le spese per loro aumentano di giorno in giorno. E riguardo alla loro giornata, non preoccupatevi, i vostri nipoti non saranno trascurati. Ho già pensato a tutto».
Non era vero, non avevo pensato ancora a niente. Quella sera mi sedetti con i bambini e cercai di metterli al corrente della mia decisione invogliandone lo spirito di collaborazione. All'inizio ascoltarono le mie parole con molta attenzione. Gli illustrai i pro e i contro dell'università. Ma quando dissi che sarei stata costretta a rientrare tardi la sera, Siamak cominciò a imitare il rumore di un'automobile per farmi capire che non avrebbe più ascoltato nemmeno una parola e non avrebbe mai acconsentito a una solitudine prolungata. Mi zittii e guardai Masuud. Lui studiava la mia espressione con i suoi occhioni innocenti. Si avvicinò, mi accarezzò i capelli e chiese: «Mamma, a te piacerebbe tanto andare all'università?».
«Vedi tesoro, se andassi all'università sarebbe un bene per tutti, anche un sacrificio, certo, ma quando sarà finito il mio stipendio aumenterà. Potremo vivere meglio.»
«Ma io ti sto chiedendo se ti piace andarci!»
«Sì, mi piace, e per poterci andare ho dovuto faticare così tanto che ora mi dispiacerebbe rinunciare!»
«Allora vai, se ti rende felice, vai. Noi ce la caveremo, e la sera staremo con Bibi per non avere paura. Forse per allora il papà sarà tornato e noi non saremo più soli...»
Siamak buttò sul pavimento la macchina che aveva in mano: «Certo che sei proprio stupido: papà che torna! Come se potesse...».
«Vedi tesoro, dobbiamo essere ottimisti. Il semplice fatto che papà è ancora vivo dovrebbe farti sperare.»
«Ma cosa stai dicendo? Vuoi imbrogliarmi? Il nonno ha detto che dovrà restare in prigione per quindici anni!»
«Ma in quindici anni potrebbero succedere tante cose! E poi, ogni anno gli fanno sconti sulla pena per la buona condotta, e gli anni di prigione diminuiscono.»
«Sì, potrebbero diventare dieci, ma che differenza farebbe? Io allora avrò vent'anni, che me ne faccio di un padre a vent'anni? Io lo voglio adesso... adesso!»
Ero in preda ai dubbi. In ufficio i miei amici erano convinti che non dovessi assolutamente perdere quell'occasione. Il signor Zargar mi incoraggiava e diceva che avrebbe fatto in modo di farmi frequentare le lezioni durante le ore di lavoro a patto che sbrigassi l'arretrato oltre l'orario d'ufficio.
Proprio in quei giorni, finalmente, le nostre continue richieste furono esaudite e ci fu concesso di andare a trovare Hamid. Ero felice ma preoccupata. Suo padre mi disse che per il momento era meglio non farne parola ai bambini e a sua moglie, perché non sapevamo in che condizioni lo avremmo trovato. Se fossero state accettabili, la volta successiva avremmo portato anche loro. Quelle parole risvegliarono la mia angoscia. La notte prima dell'incontro ebbi un incubo in cui Hamid mi veniva portato ferito e sanguinante e moriva tra le mie braccia.
La mattina partimmo stanchi e in ansia. Avevo lo sguardo appannato dalle lacrime che non riuscivo a trattenere. Finalmente ci portarono Hamid. Era pulito e in ordine, con i capelli pettinati e la barba rasata, ma era dimagrito più di quanto mi aspettassi, e la sua voce mi sembrava diversa. Per qualche minuto nessuno di noi riuscì a parlare. Suo padre si schiarì la voce per primo e gli chiese della situazione in prigione. Hamid lo fulminò con lo sguardo come per dirgli che era una domanda inutile in un momento come quello. «Cosa vuoi che ti dica... è una prigione. Parlatemi di voi piuttosto, e ditemi come stanno la mamma e i ragazzi!» A quanto pareva, la maggior parte delle mie lettere non gli era stata recapitata. Gli dissi che i bambini stavano bene, erano cresciuti, entrambi primi della classe: quell'anno Siamak sarebbe andato in quinta elementare e Masuud in seconda. Gli parlai anche del lavoro e finalmente arrivai all'argomento università e gli espressi tutti i miei dubbi. Rise ricordandosi i tempi in cui sognavo di prendere il diploma e mi incoraggiò come sempre: secondo lui non solo mi sarei laureata, ma avrei preso anche un dottorato... Non c'era tempo per spiegargli quale peso mi avrebbe messo sulle spalle proseguire gli studi e quanto tempo mi avrebbe rubato. Gli dissi solo che era un problema con i bambini. Non aveva soluzioni da indicarmi, ma mi spronò e mi elogiò fino a commuovermi.
«Sono sicuro che te la caverai egregiamente, non sei più la ragazzina impacciata di qualche anno fa. Ora sei una donna forte, valida, una grande lavoratrice, che si dà da fare e rende possibile l'impossibile. Sono davvero orgoglioso di te.»
Oh, quanto desideravo stringerlo tra le braccia e piangere sulla sua spalla. Mi sentivo carica d'energia e capace di risolvere ogni problema.

Mi iscrissi. Scelsi i corsi con gli orari che mi erano più accessibili. Parlai con Parvin Khanum e Fati che acconsentirono ad aiutarmi. Il marito di Parvin era malato e quindi lei poteva restare con i bambini solo una o due volte alla settimana, mentre Fati e suo marito Sadegh Khan se ne occupavano tre sere. Fati era agli ultimi mesi di gravidanza, perciò misi la mia macchina a disposizione di Sadegh Khan perché accompagnasse lei a casa nostra o i ragazzi da loro, e perché potessero andare in giro tutti insieme.
Approfittavo di ogni brandello di tempo libero per studiare: durante la pausa in ufficio, al mattino presto, la notte... di solito mi addormentavo sui libri. Quel programma serrato risvegliò l'emicrania di cui avevo sofferto durante l'adolescenza. Ma non era importante, prendevo qualche pastiglia e continuavo imperterrita. Ero madre di due bambini, impiegata, studentessa universitaria, casalinga e moglie di un prigioniero politico, e cercavo di fare tutto bene, ma mettevo particolare cura nell'ultimo ruolo, preparando leccornie e passatempi per Hamid, e questo era diventato una sorta di rito religiosamente osservato da tutta la famiglia.
Imparai a gestire quel ritmo senza soste e mi ci abituai: fu così che compresi che la capacità di adeguarsi di un essere umano è molto maggiore di quanto si pensi. Siamo in grado di impegnarci in base alla portata delle mansioni da svolgere. Ero come un corridore sul circuito della vita e la voce di Hamid che sussurrava «sono orgoglioso di te» era come gli applausi dei tifosi sugli spalti: mi spronava ad andare avanti, dritta verso il traguardo!

30.

Un giorno, in ufficio, sfogliando i quotidiani, mi cadde lo sguardo sugli annunci funebri e si fissò su un nome: Ebrahim Ahmadi, il padre di Parvaneh. Mi si strinse il cuore. Rividi il suo viso gentile e benevolo e mi commossi, subito sommersa dai ricordi dell'amicizia con Parvaneh. Il tempo passato e il fatto che vivessimo lontane non avevano cancellato il mio affetto per lei e il pensiero di poterla rivedere mi diede subito gioia. Dopo la telefonata di qualche anno prima con sua madre, non avevo più ricevuto loro notizie, e io stessa ero stata così presa dai miei problemi che non ero riuscita a riallacciare alcun contatto. Dovevo andare al funerale: forse quella sarebbe stata l'unica occasione per ritrovare Parvaneh, perché, ovunque fosse, sarebbe sicuramente tornata per la morte del padre.
Quando entrai nella moschea ero tesa e avevo le mani sudate. Cercavo Parvaneh nella fila dei parenti, ma non riuscivo a scorgerla. Forse non era venuta... In quel momento una donna rotondetta e con i capelli biondi che spuntavano dal velo di pizzo nero alzò la testa. I nostri sguardi s'incrociarono. Era lei. Ma com'era cambiata in quei tredici anni! Si gettò tra le mie braccia e passammo il resto della cerimonia piangendo l'una attaccata all'altra. Lei per il suo adorato padre, io per tutto il dolore e le difficoltà di quegli anni...
Nella moschea mi fece accomodare accanto a lei e mi strinse forte la mano tra le sue. Dopo il funerale, volle assolutamente che andassi a casa sua. Quando parenti e amici se ne andarono e la casa sembrò meno affollata, ci sedemmo l'una di fronte all'altra. Non sapevamo da dove cominciare. Guardandola attentamente, mi resi conto che era proprio la mia Parvaneh, soltanto un po' più rotonda e con i capelli schiariti; gli occhi gonfi e la faccia stanca erano dovuti al pianto. Improvvisamente mi chiese se ero felice.
Mi colse di sorpresa, non sapevo cosa rispondere. Quel tipo di domanda mi metteva sempre in difficoltà. Il mio silenzio la convinse che qualcosa non andava. «Non finirai mai di avere problemi?» mi chiese. Ma io le dissi che non avevo smesso di sperare: forse non ero stata molto fortunata ma avevo due figli meravigliosi, buoni e sani, mio marito era un brav'uomo, lavoravo e... studiavo ancora. Rise. «Non vuoi proprio mollare, eh? Ma il diploma non vale granché, sai... Io cosa ci ho fatto, in fondo, con il diploma?»
«Veramente il diploma l'ho già preso da tempo, adesso frequento l'università: studio alla facoltà di lettere e lingua farsi all'università di Teheran.»
Si sorprese per la mia costanza e mi fece i complimenti, ma si stupì ancora di più quando le dissi che mio marito non solo non mi ostacolava, ma mi aveva sempre incoraggiato.
«Che bello, dev'essere un grand'uomo... Voglio assolutamente conoscerlo!»
«Sì, inshallah, tra dieci anni se va bene!»
«Perché, non vive qui?»
«È in prigione.»
«Oh mio Dio, cos'ha fatto?»
«È un prigioniero politico...»
«Davvero? In Germania ho sentito i ragazzi della comunità iraniana parlare di questi prigionieri politici, quindi tuo marito è uno di loro? Si dice che li torturino, è vero?»
«Non ne ho mai avuto conferma, ma ho lavato molti suoi vestiti sporchi di sangue... In questo periodo ci hanno anche negato di fargli visita e non so nemmeno come sta.»
«Ma chi pensa a te e ai ragazzi?»
«Te l'ho detto, lavoro...»
«Vuoi dire che mandi avanti tutto da sola?»
«Occuparsi in tutto e per tutto di una famiglia non è poi così difficile, ma la solitudine mi pesa molto. Oh, Parvaneh, nonostante sia sempre impegnata e non abbia il tempo per fermarmi a pensare, non hai idea di quanto senta la solitudine, è dentro di me costantemente... Come sono felice di rivederti! Avevo veramente bisogno di un'amica... ma ora raccontami di te, sei felice? E quanti figli hai?»
«Non posso lamentarmi. Ho due femminucce: Leyli e Laleh, di otto e quattro anni. Mio marito non è malaccio, anche se è un uomo e quindi ha tutti i difetti della categoria... Mi ero abituata alla vita in Germania, ma con quello che è appena successo non posso più lasciare la mamma da sola, soprattutto adesso che Farzaneh ha due bambini piccoli, e sai bene che i fratelli non sono di grande aiuto... È da tempo che anche Khosro pensa di trasferirsi in Iran: adesso dobbiamo solo prendere la decisione definitiva, e penso proprio che torneremo a vivere qui.»
Un solo incontro non ci bastò a raccontarci tutto, avremmo avuto bisogno di notti e giorni interi. Il venerdì successivo andai a casa sua con i bambini e fu una giornata splendida. Non avevo mai parlato così tanto senza pause! Per fortuna il passare del tempo e la lunga separazione non erano riusciti a incrinare la nostra amicizia. Riuscivamo ancora a parlarci, comprenderci e confidarci più che con chiunque altro. E io riuscivo ad aprirmi con lei come non avevo più potuto fare con nessuno. Avevo ritrovato la mia amica più cara e non l'avrei lasciata andare per nulla al mondo. Fortunatamente il loro progetto di tornare in Iran decollò in fretta e Parvaneh, dopo un breve viaggio in Germania, si trasferì a Teheran e trovò un impiego part-time come interprete all'ambasciata tedesca.
Adesso avevo un nuovo appoggio. Parvaneh aveva raccontato al marito la storia della mia vita, facendola apparire quasi eroica, e lui, che si era fatto coinvolgere, sentiva in qualche modo un senso di responsabilità nei nostri confronti. I nostri figli si volevano bene ed erano diventati ottimi compagni di giochi. Parvaneh organizzava continuamente divertimenti per loro e li portava al cinema, in piscina e al parco. La nostra vita divenne più piacevole e vivace e i miei bambini, che dopo il parto di Fati erano davvero soli e tristi, tornarono allegri e spensierati.


31.

Passò un altro anno. Il programma di visite a Hamid era diventato regolare: portavo i ragazzi a trovarlo una volta al mese ma tornavano sempre confusi e rattristati, e ci mettevano una settimana per recuperare la serenità. Masuud si faceva più silenzioso e malinconico e Siamak più scatenato e arrabbiato. Hamid sembrava sempre più vecchio, ma io mi accontentavo di poterlo vedere, anche in quelle condizioni.
Frequentavo l'università, riuscivo a sostenere gli esami ogni trimestre e in ufficio ottenni un contratto a tempo indeterminato. Nonostante non avessi ancora la laurea, svolgevo mansioni che la richiedevano ed erano tutti soddisfatti del mio lavoro. Il signor Zargar mi teneva sotto controllo con il suo sguardo attento e intelligente, e mi affidava i suoi incarichi con la massima fiducia.
Il signor Shirazi era diventato uno dei miei amici più vicini e cari. Non era mai più entrato in conflitto con me, anche se continuava a essere intrattabile e scorbutico con gli altri, e ogni tanto scatenava discussioni delle quali era il primo a soffrire... Cercavo in tutti i modi di tirarlo fuori dal suo pessimismo, di fargli capire che nessuno gli era nemico o aveva cattive intenzioni nei suoi confronti. Ma lui una volta mi rispose che aveva dimenticato cosa fosse l'ottimismo e che gli unici compagni fedeli che gli erano rimasti si chiamavano sfiducia e scetticismo. Non si trovava a suo agio in nessuna occasione, non si univa a nessun gruppo, in ogni azione vedeva lo zampino della politica o il tradimento. Pensava che tutti fossero corrotti e alleati della famiglia reale. I colleghi non avevano nulla in contrario alla sua presenza, ma era lui a tirarsi indietro.
Il signor Zargar per calmarlo gli diceva sorridendo che le cose non andavano così male come le vedeva lui e che in qualsiasi comunità avrebbe trovato qualche problema. Era difficile essere completamente soddisfatti, ma non si doveva esagerare con il pessimismo. Shirazi però non accettava le sue parole. «Tu non puoi capire il significato del mio delirio: il febbricitante può essere compreso solo da chi è stato bruciato dalla febbre a sua volta. Mi stupisco delle persone intorno a me. Vedono le ingiustizie e non ne soffrono. Ma ancora di più mi stupiscono coloro che trovano strani la mia indignazione e il mio comportamento...»
Una volta, dopo un'accesa discussione con il direttore generale, se ne andò sbattendosi la porta alle spalle. I ragazzi si riunirono intorno a lui per cercare di calmarlo e di farlo ragionare. Io stessa intervenni per convincerlo a restare; doveva pur resistere da qualche parte prima o poi... Ma lui «doveva» andarsene e infatti poco tempo dopo abbandonò il paese. Il giorno in cui venne a ritirare le ultime cose in ufficio passò a dirmi addio e mi chiese di salutargli mio marito, che per lui era un eroe.
Quando il signor Shirazi se ne fu andato, in ufficio tornarono la calma e la pace; perfino il signor Zargar, che in apparenza non aveva problemi con lui, nell'ultimo periodo non lo sopportava più. Ma il ricordo della sua tristezza profonda e del suo spirito inquieto mi restarono impressi nella mente e mi spronarono a fare in modo che i miei figli non diventassero come lui a causa della loro precoce, amara esperienza. Cercavo di creare in casa un ambiente sereno perché non dimenticassero mai il riso e il sorriso, e la tristezza e l'odio non mettessero radici nei loro animi. Escogitai una sfida di barzellette con un premio per la migliore; ci imitavamo a vicenda perché volevo che imparassero a ridere di sé e dei propri errori; li incoraggiavo a cantare, ad alzare il volume della radio, ad ascoltare canzoni allegre. La sera ballavamo e giocavamo insieme, anche se morivo dalla stanchezza; gli facevo il solletico finché ridevano a crepapelle e ci prendevamo a cuscinate prima di andare a letto. Sentivo di dover fare tutto questo per mantenere viva la nostra casa, che altrimenti sarebbe stata spenta e triste, per compensare le mancanze e infondere loro gioia, perché non crescessero con gli occhi amareggiati del signor Shirazi.
Fati aveva dato alla luce una bellissima bambina dagli occhi color cielo che chiamò Firuzeh. I ragazzi le volevano tanto bene, soprattutto Masuud che era sempre disponibile a giocare con lei.
Dopo la morte del marito Parvin Khanum riconquistò finalmente serenità e libertà; era riuscita a farsi intestare la casa, ma non lo perdonò mai per quello che le aveva fatto passare. Trascorreva la maggior parte del suo tempo con noi e tutte le volte che ero costretta a rientrare tardi la sera rimaneva con i ragazzi e sbrigava la maggior parte delle faccende domestiche per concedermi più tempo da dedicare al riposo e ai miei figli. Si sentiva in qualche modo responsabile del mio destino e della mia solitudine, e cercava di rimediare prendendosi cura di me.
Su richiesta di Mahmud, Ali andò a chiedere in sposa la figlia di uno degli haji24 del bazar, un illustre e potente mercante. Si accordarono ufficialmente per celebrare in autunno il sontuoso matrimonio con uomini e donne separati. Gli affari di Mahmud avrebbero beneficiato di questo legame, perciò lui acconsentì a tutte le assurde richieste della famiglia della giovane, che sembrava merce di scambio più che promessa sposa. Quando Agha Jun protestò per quelle folli pretese, Mahmud rispose che era un «investimento» per il futuro: avrebbe riguadagnato tutto prima ancora di rendersene conto, bastava pensare alla dote della sposa e agli affari che avrebbero fatto al fianco del padre...
Ahmad non faceva più parte della nostra famiglia. Nessuno amava parlare di lui e tutti si sforzavano di non nominarlo. Da tempo Agha Jun l'aveva cacciato di casa e mi ripeteva che per fortuna non conosceva il mio indirizzo, altrimenti mi avrebbe tormentata chiedendomi soldi. Il suo declino era stato così rapido che tutti avevano perso le speranze. Solo Parvin Khanum aveva conservato rapporti con lui e me ne parlava di nascosto. Diceva: «Non avevo mai visto nessuno buttar via con tanta determinazione la propria vita. Che peccato, era un giovane così affascinante, e se lo vedessi adesso non riusciresti quasi a riconoscerlo. Non mi stupirei se uno di questi giorni ne ritrovassero il cadavere in una fogna. Se è ancora vivo è solo grazie alle cure di Khanum Jun, ma non devi dirlo a nessuno, se lo scoprisse il tuo Agha... Del resto lei è pur sempre sua madre, e lui era proprio il suo prediletto. La mattina, quando il tuo Agha se ne va, Ahmad viene a casa vostra. Khanum Jun gli dà da mangiare, lo lava, gli prepara i vestiti puliti, e se può gli infila in tasca qualcosa da sgranocchiare e dei soldi. Ancora adesso se qualcuno osa affermare che Ahmad è un eroinomane, Khanum Jun lo fa a pezzi. Povera donna: è ancora convinta che possa guarire!»
Le previsioni di Parvin Khanum ben presto si avverarono, coinvolgendo anche mio padre. Ahmad, che stava ormai dando il peggio di sé, per denaro faceva qualsiasi cosa. Una volta si recò a casa dei nostri genitori e arrotolò un tappeto per venderlo. Agha Jun si scontrò con lui e cercò di riprendere il tappeto, ma la rabbia e lo sforzo che gli causò quella lite furono troppo forti per il suo vecchio cuore. Fu portato d'urgenza in ospedale e vi rimase ricoverato per una settimana. Dopo qualche giorno in rianimazione cominciò a stare meglio e fu spostato in un reparto. Andavo a trovarlo tutti i giorni con i ragazzi. Siamak era molto alto e sembrava più grande della sua età, quindi lo lasciavano sempre entrare, ma Masuud riuscì a vedere il nonno soltanto due volte. Siamak gli stringeva le mani e rimaneva seduto accanto a lui in silenzio. Speravamo che guarisse, ma purtroppo ebbe un altro infarto e ventiquattr'ore dopo ci lasciò.
Avevo perso il mio unico vero appoggio nella vita e mi sentivo ancora più sola di quando Hamid era appena finito in prigione. Tuttavia, dopo la morte di mio padre capii che il suo spirito continuava a proteggermi da lontano, e anche nei momenti più disperati e bui il suo ricordo riusciva ad accendere il mio cuore di nuova speranza. Ma dopo che se ne fu andato i miei rapporti con la casa di mia madre si allentarono.
Piansi per una settimana senza pensare ad altro, ma tornai alla realtà quando mi resi conto del dolore profondo e silenzioso di Siamak. Non versava una lacrima, ed era come una bomba pronta a scoppiare. Khanum Jun era amareggiata e delusa perché Siamak non aveva pianto nemmeno quando il nonno era stato seppellito, ma io capivo che si sentiva così male da nascondere il proprio dolore anche a sé stesso.
Un giorno lasciai Masuud da Parvaneh e andai alla tomba di Agha Jun insieme a lui: restammo lì, immobili e silenziosi, per qualche minuto, mentre lui cercava di estraniarsi da tutto, volando lontano con la mente ed evitando il mio sguardo. Lo feci sedere accanto a me e gli parlai dei miei ricordi di mio padre, dei suoi pregi e difetti, del suo amore per noi, e continuai finché le sue lacrime diedero finalmente sfogo a tutto il dolore represso. Quando Masuud tornò a casa, Siamak piangeva ancora, e piansero insieme. Lasciai che si sfogassero senza intervenire: dovevano tirare fuori la sofferenza che attanagliava i loro piccoli cuori. Poi domandai: «Secondo voi cosa possiamo fare per mantenere vivo il suo ricordo? Cosa si aspetta da noi? Come dobbiamo proseguire la nostra vita perché lui ne sia soddisfatto?». Fu in quel modo che mi resi conto che dovevo tornare alla normalità, portando sempre nel cuore i ricordi dolci e teneri del nostro rapporto.

Non erano ancora passati tre mesi dalla morte di Agha Jun che anche Ahmad morì, proprio come aveva previsto Parvin. Il suo cadavere fu trovato dagli spazzini sul ciglio di una viuzza a sud della città. Chiamarono Ali per il riconoscimento della salma. Non fu celebrato alcun funerale, e a parte Khanum Jun che era spezzata dal dolore, nessuno versò una sola lacrima per lui. Per quanto cercassi di rievocare qualche buon ricordo di mio fratello, non ci riuscivo... e mi sentivo in colpa perché non soffrivo per la sua morte.
Dopo quegli avvenimenti, Ali naturalmente non poté festeggiare le nozze. E così, senza alcun ricevimento sfarzoso, portò la moglie a casa di Agha Jun, il quale anni prima l'aveva intestata a mia madre.
Khanum Jun, ormai sola e depressa, affidò la gestione familiare alla nuova nuora. E da allora la porta della casa che era stata il mio unico rifugio nei momenti difficili per me si chiuse per sempre.

32.

All'inizio del 1977 si cominciò a sentire aria di cambiamento in ambito politico. Il comportamento delle persone era diverso, più libero. La gente parlava senza timore in ufficio, per le strade, ma soprattutto nelle università. I programmi di visita a Hamid si erano fatti insolitamente regolari, i vestiti e il cibo gli venivano recapitati senza problemi, e in generale ai prigionieri politici erano state fatte nuove concessioni. Nonostante tutto questo io ero ancora pessimista, non riuscivo più a nutrire speranze e pensavo che la situazione non sarebbe mai veramente cambiata.
Mancavano pochi giorni a Noruz e l'aria sapeva di primavera. Rientrai a casa persa nei miei pensieri e mi imbattei in uno spettacolo singolare: in soggiorno erano stati disposti ordinatamente sacchi di riso e di legumi, taniche d'olio, scatole di tè, e altro ancora. Il padre di Hamid era solito portarci del riso, ma mai tanto cibo tutto insieme, soprattutto nell'ultimo periodo, quando la chiusura della stamperia aveva causato anche a lui problemi economici. Siamak rise al mio sguardo stupefatto e mi disse che le sorprese non erano finite... poi mi porse una busta con dentro una banconota da cento toman.
«Da dove arrivano questi soldi? E tutta questa roba?»
«Prova a indovinare, mamma! Prova a indovinare!» esclamarono in coro Siamak e Masuud.
«È il nonno che si è dato tanto disturbo?»
«No... acqua, acqua!»
«Allora Parvaneh?»
«Sbagliato...» e ricominciarono a ridere.
«Deve essere stata Parvin Khanum, o forse Fati?»
«Ancora acqua, non indovinerai mai! Ti arrendi?»
«Sì, ma dimmi subito chi è stato!» Morivo dalla curiosità.
«Lo zio Ali, però ha detto di dirti che è stato lo zio Mahmud...» Ero ancora più sorpresa di prima. Presi subito il telefono e chiamai Khanum Jun. Sembrava non saperne nulla. Allora mi feci passare Ali per capire cosa stesse succedendo. Mio fratello mi salutò calorosamente, con un tono di voce diverso dal solito, e rispose con grande rispetto alle mie domande.
«Cara sorella, facciamo soltanto il nostro dovere...»
«Ma io non vi ho chiesto niente!»
«So che non chiederesti mai il nostro aiuto, ma noi ci sentiamo in obbligo nei vostri confronti.»
«Grazie davvero, Ali Jan, ma io e i ragazzi non abbiamo bisogno di nulla. Quindi, se non ti dispiace, vieni a riprenderti tutto.»
«Ma perché? E poi cosa me ne faccio di tutta quella roba?»
«Non lo so, fanne quel che ti pare, potresti anche darla a chi ne ha veramente bisogno.»
«Sai una cosa, sorella? Io non c'entro niente in realtà: è stata un'idea di Mahmud, che ha fatto la stessa cosa per molte altre famiglie, io ho soltanto provveduto alle consegne, perciò parla con lui!»
«Caspita, allora si tratta di spirito di carità! È davvero strano, non me lo sarei mai aspettata da lui... Ma visto che avete già fatto molte altre opere buone, vi ringrazio e vi chiedo di ritirare al più presto quello che mi avete portato!»
«Non posso farlo senza l'autorizzazione di Mahmud...»
Chiamai a casa di Mahmud: le telefonate che gli avevo fatto si potevano contare sulle dita di una mano. Rispose Gholam Ali e, dopo avermi salutata in modo insolitamente caloroso, mi passò il padre.
«Salam sorella! Come mai ti sei ricordata di noi?»
«Guarda, volevo proprio farti la stessa domanda... come mai ti sei ricordato di noi e ci hai fatto la carità?»
«Ma quale carità? È un tuo diritto e un nostro dovere! Tuo marito è stato barbaramente sbattuto in prigione da questi senza Dio perché ha difeso la libertà e i diritti del popolo. Visto che noi non abbiamo meritato l'onore della prigione, il minimo che possiamo fare è prenderci cura delle famiglie dei prigionieri politici.»
«Sono quattro anni che Hamid è in prigione, fratello... Finora ci siamo affidati alla protezione di Dio e non abbiamo avuto bisogno di nessuno, possiamo continuare tranquillamente così.»
«Hai ragione a prendertela, sorella! Siamo stati degli stupidi: finora abbiamo dormito perché non capivamo e ce ne vergogniamo davvero. Per questo è nostro dovere darti il nostro appoggio; è un onore per noi conoscere Hamid.»
«Il mio non è un rimprovero, fratello, intendo soltanto dire che ce la caviamo benissimo da soli. Non voglio che i miei figli crescano grazie alla carità degli altri, perciò ti prego di venire a riprenderti tutti i tuoi regali. E poi Hamid è sempre quel "comunista senza Dio che merita di essere giustiziato"...»
«Non infierire, sorella: ti ho già detto che prima non capivamo ma adesso, per noi, chiunque abbia combattuto contro questa tirannia è un eroe, che sia ateo o musulmano.»
Non riuscì a convincermi e lo invitai di nuovo a riprendersi tutto; allora mi rispose con rabbia di farne ciò che volevo. Poi riattaccò.

Nei mesi successivi i cambiamenti si fecero più evidenti. In ufficio scoprii che tutti sapevano di mio marito, anche se avrebbe dovuto essere un segreto... Fino a qualche tempo prima i colleghi, a parte quelli più stretti, tenevano un comportamento piuttosto formale, evitando i contatti con me al di fuori del lavoro, ma in quei giorni sembrava che tutti avessero lasciato da parte ogni precauzione... Così si cominciò a parlare con naturalezza di Hamid non solo in ambito familiare, ma anche sul lavoro e all'università. Molti mi chiedevano di lui e cercavano di confortarmi offrendomi il loro appoggio. Nei pranzi ufficiali mi facevano sedere a capotavola ed ero spesso al centro dell'attenzione. Questo nuovo atteggiamento all'inizio mi mise in imbarazzo, mentre per Siamak era appagante perché finalmente poteva parlare a tutti di suo padre con libertà e orgoglio. Rispondeva con disinvoltura alle domande curiose della gente sul suo arresto e sulla notte della perquisizione in casa nostra. E la sua mente sognatrice e ancora infantile aggiungeva particolari eroici alla realtà.
Un giorno mi convocarono alla scuola di Siamak. Pensai che ne avesse combinata qualcuna delle sue, ma si trattava di tutt'altro: in segreteria fui circondata da insegnanti e bidelli che volevano sapere di Hamid e della «rivoluzione». Il preside però non era stato messo al corrente di quell'incontro perché di lui non si fidavano. Risposi tranquillamente riguardo a Hamid, ma dissi che non sapevo niente dei programmi politici. Capii che erano rimasti affascinati dai racconti di Siamak sul padre e sul suo operato contro il regime, e avevano sperato di saperne di più da me. Apprezzavano molto Siamak e lo descrissero come un ragazzo maturo, quasi adulto nel suo modo di esprimersi, addirittura un «oratore» capace di parlare senza timori davanti a tutti del padre e della sua lotta.
Mentre tornavo a casa mi sentivo confusa: da una parte ero felice che Siamak fosse riuscito a esprimersi e a conquistare l'attenzione e l'approvazione degli altri, dall'altra temevo di incorrere in nuovi guai e la sua passione per l'eroismo e gli eroi mi lasciava perplessa. Era stato un bambino difficile e ora attraversava la delicata fase dell'adolescenza, e mi chiedevo come avrebbe elaborato l'improvviso interesse e incoraggiamento da parte del mondo esterno, lo stesso mondo che ci aveva minacciato per anni... e poi, perché mai era così bisognoso di attenzioni e di conferme? Non gli bastavano le mie?
L'apprezzamento e la curiosità della gente, che aumentavano di giorno in giorno, cominciarono a sembrarmi esagerati e a infastidirmi, anche se a volte mi sentivo in colpa per le mie risposte evasive, come se stessi ingannando il mio prossimo. Non mi stancavo di ripetere a tutti che non sapevo molto degli ideali e dell'operato di mio marito e che non l'avevo mai aiutato nelle sue missioni, ma era come se le persone non amassero sentire quelle verità: continuavano a fare riferimento a me ogni volta che si parlava di politica e di rivoluzione e prendevano per modestia i miei dinieghi. L'unica persona che non aveva mutato atteggiamento nei miei confronti era il signor Zargar, che osservava con occhio attento i cambiamenti intorno a me.
Un giorno, in ufficio, volevano formare il comitato rivoluzionario e proprio uno dei colleghi che fino a poco tempo prima mi salutava a malapena propose la mia candidatura! Intervenni subito con la decisione e la sicurezza in me stessa che avevo faticosamente conquistato. Lo ringraziai per la fiducia, ma ribadii che non ero mai stata una rivoluzionaria: il destino aveva voluto farmi incontrare un uomo che aveva posto gli ideali politici sopra ogni altra cosa, io avevo sempre avuto paura della lotta politica e ne capivo ben poco. Tutti risero e qualcuno applaudì, ma nessuno mi credeva. Vedevano la mia vita di moglie di un prigioniero politico che si era rimboccata le maniche per affrontare la dura realtà come simbolo e prova di adesione agli ideali del marito. Non capivano che l'avevo fatto per la mia famiglia, non per la politica...
L'eccitazione per la rivoluzione in fieri si faceva sempre più intensa e sentivo finalmente nascere in me una nuova speranza. Sembrava che quello per cui Shahrzad e Mehdi erano morti e Hamid era stato arrestato e torturato si potesse davvero realizzare. Per la prima volta, io e i miei fratelli eravamo schierati dalla stessa parte e parlavamo la stessa lingua. Ci capivamo, perseguivamo gli stessi obiettivi, ci sentivamo uniti. Loro avevano un comportamento finalmente fraterno nei miei confronti e proteggevano la mia famiglia. L'affetto e il rispetto di Mahmud erano tali che trattava i miei figli alla pari dei suoi. Khanum Jun ringraziava Dio con le lacrime agli occhi e avrebbe voluto che mio padre fosse ancora vivo e potesse gioire della nostra intesa, lui che temeva che saremmo stati lontani per sempre e che nessuno di loro mi avrebbe mai aiutato. Mahmud portava a casa i volantini di propaganda, Ali li fotocopiava e io li distribuivo in ufficio e all'università. Siamak andava per le strade a protestare insieme ai suoi compagni. Masuud disegnava la folla di manifestanti e ci scriveva sopra «libertà». A partire dall'estate, eravamo diventati ospiti fissi di ogni comizio o dibattito di protesta contro il regime, senza nemmeno tener conto del partito che li organizzava... In fondo, che differenza faceva? Eravamo insieme e avevamo gli stessi obiettivi.
Le amicizie di Mahmud gli permettevano di avere sempre notizie di prima mano. Ogni giorno sentivo di aver fatto un passo avanti verso Hamid e che il sogno di una famiglia unita e di un padre per i miei figli non era più irraggiungibile. Ero felice che Hamid fosse ancora vivo, senza riserve. Il suo viso addolorato non mi faceva più pensare che sarebbe stato meglio se fosse morto insieme ai suoi compagni. Ero sicura che la sua agonia stesse per finire e che non era stata vana. Si stava avverando il suo sogno: la gente si era ribellata e urlava per le strade: «Noi non viviamo sotto il peso della prepotenza!». Quando in passato Hamid e i suoi compagni mi avevano parlato di tutto questo, io non avevo capito, non ci avevo creduto: ai miei occhi erano solo idealisti e sognatori.
In mezzo a questi cambiamenti il mio controllo sui ragazzi si indebolì, e loro si avvicinarono sempre di più allo zio Mahmud che li trattava con un'attenzione e una cura particolari, insolite per lui. Li portava con sé ai dibattiti e ai comizi: Siamak ne era entusiasta e lo seguiva con passione e grande interesse; Masuud, invece, si fece presto da parte con varie scuse e quando gliene chiesi il motivo mi rispose che si vergognava. Non capivo bene di cosa, ma decisi di non insistere.
La nuova passione metteva Siamak di buonumore, e lui non causava più problemi, come se con la protesta riuscisse a dar sfogo alla sua rabbia, liberandosene. Notai anche che prestava sempre più attenzione ai precetti religiosi, ma non sapevo se esserne felice, perché alcuni comportamenti, come spegnere la radio quando veniva trasmessa musica, mi riportavano indietro negli anni e mi facevano ricordare il fanatismo di Mahmud.
All'inizio del mese di Mehr, Mahmud annunciò di voler organizzare una cerimonia di commemorazione per Agha Jun, anche se l'anniversario della sua morte era già passato: del resto si poteva commemorare un defunto e pregare per lui in qualsiasi momento e nessuno di noi osò controbattere.
Tenendo conto del coprifuoco e dello stato di allerta del paese, ci trovammo d'accordo sulla scelta del venerdì pomeriggio. Presi dall'entusiasmo, cominciammo con giorni d'anticipo a organizzare il ricevimento. Il numero dei partecipanti cresceva di giorno in giorno e io, dentro di me, lodavo il coraggio di Mahmud che aveva pensato a quella ricorrenza in un momento così delicato.
Venerdì cominciammo a lavorare sin dal mattino presto a casa di Mahmud. Ehteramsadat, che era sempre più grassa, andava avanti e indietro ansimando. La ringraziai per l'aiuto. Mi disse che prima o poi una preghiera funebre per Agha Jun dovevamo organizzarla ed era anche un'ottima occasione per raccogliere gente in una situazione così particolare. Approfittai per chiederle se aveva ancora problemi con mio fratello e mi rispose che ormai era acqua passata. «E poi chi lo vede più, Mahmud, per litigarci? Quando torna è così stanco che ci lascia in pace... È molto migliorato ed è così impegnato da non avere tempo per altro. Questa rivoluzione lo ha trasformato completamente, come una medicina!»
Dopo pranzo cominciarono i discorsi. Dalla stanza sul retro non riuscivamo a sentire bene, ma non potevamo usare amplificatori per paura di essere scoperte, così ci facemmo spazio con difficoltà in sala da pranzo e ci sedemmo dietro gli uomini ad ascoltare. Dopo un paio di discorsi sulla prepotenza della monarchia e la necessità della rivoluzione per sconfiggere il regime, fu il turno dello zio di Ehteramsadat che era diventato un religioso famoso e grazie a pochi mesi in prigione si era trasformato in un eroe agli occhi di tutti. All'inizio parlò di Agha Jun, e nel racconto della nostra «storia rivoluzionaria» disse che la mia famiglia aveva protestato in nome della religione già molti anni prima ed era stata ferita nel 1963 in seguito alle vicende del 15 di Khordad, il famoso 5 giugno.25 Poi, con l'arresto dell'imam Khomeini era stata costretta ad abbandonare la sua casa e la sua vita, e ad andarsene da Qum, perché la sua incolumità era a repentaglio. In questo percorso avevamo anche perso un figlio, un valoroso giovane... e il nostro sposo era ancora in prigione, e Dio solo sapeva quali torture aveva dovuto subire!
Per un attimo non capii di chi stesse parlando e lo chiesi a Ehteramsadat. Avevo intuito che il «nostro sposo» era il mio Hamid, ma non potevo certo immaginare che il giovane valoroso morto per la causa fosse Ahmad!
Ehteramsadat invece sembrava crederci. Disse che le circostanze della morte di Ahmad erano sospette: avevano trovato il cadavere solo dopo tre giorni e Ali aveva dovuto riconoscere la salma, e poi c'erano chiari segni di colluttazione sul suo corpo.
«Probabilmente aveva litigato con un altro drogato!» risposi, esterrefatta per quelle falsità.
«Non dire queste cose alle spalle di un morto!»
«Ma chi ha raccontato al mullah tutte quelle storie sul nostro trasferimento da Qum?»
«Come, non lo sai? È stato subito dopo le vicende del 15 di Khordad che ve ne siete andati da Qum. Agha Jun e Mahmud erano in serio pericolo: forse tu eri troppo piccola per ricordartene.»
Le risposi stizzita. «Me lo ricordo eccome, abbiamo lasciato Qum ben prima e per altri motivi! Come si permette Mahmud di mentire e di approfittarsi dell'entusiasmo e dell'animo irrequieto della gente?»
Adesso il discorso era arrivato a Mahmud: «Da un tale padre non ci si poteva aspettare un figlio diverso... un uomo che ha dedicato la propria vita alla rivoluzione e non si è tirato indietro di fronte a nessun sacrificio. Paga le spese di dieci famiglie di prigionieri politici, prendendosene cura come un genitore, e ha preso sotto la sua ala protettiva la famiglia della sorella cui dedica le sue amorevoli cure perché non soffra alcuna mancanza...». Fece un cenno a Siamak che si alzò e andò verso di lui come se gli fosse stato insegnato a recitare la sua parte. Il mullah gli accarezzò la testa e disse: «Questo innocente è il figlio di uno dei più stimabili mujahidin dell'Islam, che da anni giace in prigione sotto atroci torture. La mano assassina del regime ha reso orfani centinaia di questi ragazzi. Grazie a Dio lui ha uno zio benevolo e responsabile come il signor Mahmud Sadeghi che è riuscito a riempire il vuoto lasciato dal padre, altrimenti Dio solo sa cosa sarebbe potuto succedere a questa famiglia privata di un capofamiglia!».
Ero nauseata e inferocita per quelle menzogne e mi sentivo soffocare. Mi alzai con tale impeto dal mio posto che Khanum Jun ed Ehteramsadat si spaventarono e mi pregarono di controllarmi e restare seduta. Mahmud era dietro all'oratore e mi osservava allarmato. Volevo urlare, ma non avevo voce. Siamak si fece largo tra la gente e mi si avvicinò preoccupato. Lo tirai per un braccio e gli chiesi solo: «Ma non ti vergogni?».
Guardai Mahmud con disprezzo e mi alzai: volevo raccontare la verità a tutta quella gente, ma si alzò il canto del martirio dei santi e tutti cominciarono a battersi il petto.
Mi feci spazio tra la folla stringendo con rabbia la mano di Siamak e uscii con Masuud che mi correva dietro aggrappato all'orlo del mio chador. Avrei voluto picchiare così tanto Siamak da farlo diventare livido. Aprii la portiera della macchina e lo spinsi dentro con forza, mentre lui continuava a chiedermi che cosa mi era successo.
La mia voce era così cattiva e tagliente che i ragazzi non aprirono bocca fino a casa, e io potei riflettere. Mi resi conto che in realtà Siamak non aveva colpe. Quando arrivammo, prima ne dissi di tutti i colori su Mahmud, Ali, Ehteram e gli altri, poi mi sedetti e cominciai a piangere. Masuud mi portò un bicchiere d'acqua con gli occhi pieni di lacrime. Mi calmai un po'. Siamak stava seduto imbarazzato di fronte a me. «Non capisco cosa ti abbia fatto tanto arrabbiare, ma di qualsiasi cosa si tratti, ti prego di perdonarmi!»
«Non lo sai? Come fai a non saperlo? Ma dimmi: in tutti i comizi cui partecipi con Mahmud ti fanno ripetere la stessa scena? Ti espongono come un fenomeno da baraccone?»
«Sì. E raccontano un sacco di cose su mio padre!» rispose con orgoglio.
Non sapevo cosa dirgli, come spiegargli la verità con calma e senza spaventarlo.
«Vedi, figlio mio, abbiamo vissuto quattro anni senza tuo padre, e non abbiamo chiesto aiuto né a zio Mahmud né ad altri; mi sono fatta in cento proprio per evitare di dipendere da qualcun altro. Volevo che cresceste dignitosamente e non foste messi in imbarazzo dalla carità degli altri. Finora ce l'abbiamo fatta. È stato difficile per voi e per me, ma abbiamo tenuto alto l'onore di vostro padre. E adesso quell'infame di Mahmud ci sta usando come marionette del suo teatrino, per scopi puramente personali! Vuole che la gente provi pena per voi e pensi quanto siete fortunati ad avere uno zio così amorevole e buono. Non ti sei chiesto il motivo per cui Mahmud si è ricordato improvvisamente di noi, mentre in tutti questi anni non si è mai nemmeno degnato di chiederci come stavamo? Vedi figlio mio, non devi permettere a nessuno di approfittarsi di te e dei tuoi buoni sentimenti: se tuo padre venisse a sapere che Mahmud ti sta manovrando per poi usare il suo nome per i propri scopi, ne soffrirebbe moltissimo. Lui non è d'accordo su nulla con Mahmud e non vorrebbe mai che la sua famiglia dipendesse da lui.»
Da quel momento, anche se approvavo la lotta contro il regime dello scià, non permisi più a mio fratello di trascinare i ragazzi di qua e di là, e smisi di rispondere alle sue telefonate.
Era già la fine di Mehr, ma l'ufficio, la scuola dei bambini e la mia università chiudevano e riaprivano di continuo. Mi mancava solo un trimestre alla fine degli studi, ma le lezioni erano state tutte sospese. Gli scioperi si susseguivano. Mi univo spesso alle folle di manifestanti e mi mescolavo a gruppi diversi. Ascoltavo tutto quello che dicevano e lo soppesavo, per capire se potevo sperare nella scarcerazione di Hamid. A volte mi sentivo ottimista e il futuro mi appariva luminoso, a volte perdevo ogni speranza e mi sembrava di precipitare in un pozzo buio e profondo. In ogni luogo dove si protestasse o si manifestasse per i prigionieri politici io ero in prima fila, e i pugni chiusi dei miei ragazzi alzati verso il cielo sembravano due piccole bandiere. «I prigionieri politici devono tornare in libertà!» era il nostro grido. Sfogavo così tutta la rabbia per i soprusi che avevo subito in quegli anni. Le lacrime mi velavano gli occhi, ma il cuore mi si alleggeriva e si riempiva di gioia alla vista di tante persone che stavano dalla mia parte. Avevo voglia di abbracciarli e baciarli tutti, fu la prima e anche l'ultima volta in cui provai un tale senso di appartenenza, come se i miei compatrioti fossero tutti miei figli, padri, madri, fratelli.
Circolavano voci sempre più insistenti sulla liberazione dei prigionieri politici e si faceva anche una data: il quattro del mese di Aban, giorno del compleanno dello scià. La speranza fioriva nel mio cuore, ma cercavo di non illudermi troppo. Non avrei sopportato un'altra delusione. Anche il padre di Hamid si stava impegnando sempre di più per il figlio e ci incontravamo ogni giorno per scambiarci informazioni e decidere le mosse successive. Eravamo venuti a sapere che almeno mille prigionieri sarebbero stati liberati: dovevamo solo far entrare il nome di Hamid in quella lista.
Temevo che si trattasse di un trucchetto politico per calmare le acque e che niente sarebbe accaduto, ma mio suocero mi rassicurava: in quella situazione non potevano fare marcia indietro, dovevano almeno scarcerare gli esponenti più importanti per sedare gli animi.
Non ero preoccupata solo per me, per la possibile delusione che mi avrebbe fatto ripiombare nella disperazione, ma anche e soprattutto per i ragazzi, che avrebbero dovuto sopportare un duro colpo se il padre fosse rimasto in prigione. Evitavo di parlarne e di alimentare le loro speranze, ma fuori casa le voci giravano e si insinuavano in ogni luogo. Siamak mi portava le notizie emozionato, ma io gli dicevo con freddezza che non doveva illudersi: era propaganda del regime per sedare gli animi. Poi però, per incoraggiarlo, aggiungevo: «Inshallah, quando trionferà la rivoluzione andremo noi stessi ad aprire le porte della prigione e lo faremo tornare a casa!».
Anche il padre di Hamid approvava il mio comportamento e usava la stessa tattica con la moglie. Più ci avvicinavamo al quattro di Aban, più cresceva l'emozione che avevo dentro. Senza riflettere, facevo già la spesa per Hamid: biancheria, camicie, vestiti da casa. Non potevo più mettere freno ai miei sogni. Pensavo a quello che avremmo potuto fare tutti insieme dopo la sua liberazione.
Qualche giorno prima della data fatidica, il padre di Hamid venne a casa nostra stanco e sfiduciato e, senza farsi sentire dai ragazzi, mi disse che il nome di Hamid non figurava nell'elenco: erano soprattutto dissidenti di ispirazione religiosa, quindi per lui rimanevano poche speranze. Gli avevano assicurato che ci sarebbe stato presto un altro elenco, ma quando? Ancora una volta la fortuna non ci aveva assistito.
Come potevo nascondere la delusione e la sconfitta ai ragazzi? Masuud continuava a girarmi intorno, Siamak mi chiedeva se c'erano nuove notizie... Mi dissi che dovevo essere forte e sperare ancora, ma mi sentivo stritolata dalle pareti di casa, avevo bisogno di uscire a respirare, presi per mano i ragazzi e andai alla moschea. Il cortile era pieno di gente. Ci facemmo largo tra la folla che manifestava. Non capivo cosa stessero urlando e non mi importava. Io avevo il mio slogan personale: in lacrime ma con rabbia urlai ancora una volta: «Il prigioniero politico deve tornare libero!» e ci fu qualcosa di contagioso nel mio grido perché tutti a poco a poco si unirono a me.
Il 4 di Aban era festa. Il sole non era ancora sorto, ma non riuscivo più a restare a letto. Sapevo che le misure di sicurezza adottate sarebbero state strettissime e che avremmo fatto meglio a non uscire di casa, ma non sapevo come calmare il mio umore irrequieto. Dovevo impegnarmi, distrarre la mente, scaricare la rabbia e le energie. Buttai nella lavatrice tende e lenzuola, pulii i vetri, spazzai il pavimento, mandai i ragazzi a giocare in cortile perché non li sopportavo... Non avevo voglia di cucinare, le cose che erano avanzate dalla sera prima ci sarebbero bastate. Mangiammo e lavai i piatti: non mi era rimasto più niente da fare. Pensai di pulire anche il cortile, ma mi resi conto di non averne la forza. Era quello che volevo: sentirmi così stanca da non riuscire nemmeno a pensare; mi trascinai sotto la doccia, aprii l'acqua e piansi.

33.

Erano quasi le quattro del pomeriggio. Con i capelli ancora bagnati mi stesi su un cuscino in salotto davanti alla televisione, mentre i ragazzi giocavano, e stavo per appisolarmi quando la porta d'ingresso si aprì ed entrò... Hamid! Chiusi forte gli occhi per non interrompere il sogno, poi li riaprii e mi misi a sedere. I ragazzi fissavano ammutoliti un uomo magrissimo con la barba e i capelli quasi completamente bianchi. Poteva essere un sogno? La voce felice e rotta dal pianto del padre di Hamid ci riportò alla realtà: «Tuo marito è tornato, Masum! E voi ragazzi, perché state lì impalati? Non avete capito che è tornato papà?».
Quando finalmente lo strinsi a me, mi resi conto di quanto si fosse indebolito in quegli anni; quando ero andata a trovarlo non me n'ero mai accorta. Sembrava un bambino con i vestiti del padre: i pantaloni formavano sbuffi di pieghe alla cintura, la giacca gli spioveva sulle spalle e le maniche gli coprivano le mani. Si mise in ginocchio e abbracciò i ragazzi e io cercai di stringere tutti e tre i miei amori avvolgendoli tra le mie braccia. Piangevamo insieme, rivedendo nella mente le difficoltà e le torture che avevamo subito in quegli anni.
Mio suocero si asciugò le lacrime e ci disse di far riposare suo figlio che era stanco e malato: era andato lui a prenderlo all'infermeria del carcere e adesso doveva correre a prendere la moglie. Lo abbracciai continuando a ringraziarlo, e piansi con la testa sulla sua spalla. Era davvero un uomo buono e rispettoso e aveva retto da solo il peso dell'ansia e dell'angoscia di quegli ultimi giorni.
Hamid aveva la febbre, ma volle farsi una doccia per liberarsi della sporcizia e della miseria della prigione e addormentarsi leggero. Lo aiutai a togliersi i vestiti. Era debolissimo e si reggeva a fatica sulle gambe. Man mano che si spogliava sembrava più piccolo e mi spaventai alla vista del suo corpo scheletrico e costellato di vecchie ferite. Lo feci sedere su una sedia per togliergli le calze. Persino i piedi erano malconci e arrossati. Li accarezzai, appoggiai la testa sulle sue ginocchia e piansi. Cosa gli avevano fatto? Sarebbe mai tornato com'era? Dopo la doccia gli diedi la biancheria e il pigiama che gli avevo comprato al culmine del mio ottimismo. Si sdraiò sul letto lentamente, come se volesse gustare fino in fondo quell'istante. Mise la testa sul cuscino e gli rimboccai le coperte. Chiuse gli occhi con un lungo sospiro. «Sono davvero nel mio letto? Per quanti anni, ogni giorno, ogni istante, ho desiderato, sognato di essere in questa casa! Non riesco ancora a crederci, è troppo bello per essere vero!»
I ragazzi, emozionati, lo guardavano con amore e ammirazione, ma anche con un po' d'imbarazzo, e osservavano ogni suo movimento. Lui li chiamò e cominciarono a parlare. Preparai il tè. Siamak andò alla pasticceria vicina per comprare dolci e fette biscottate. Feci anche una spremuta d'arancia e scaldai il brodo che avevo preparato. Ogni momento era buono per dargli qualcosa da mangiare. Rise e mi disse che dovevo avere pazienza: non poteva mangiare tutto insieme, non ci era più abituato.
Un'ora dopo arrivarono le sorelle e la madre di Hamid, che cominciò a girargli intorno come una farfalla con un fiore. Lo benediva piangendo, lo baciava dalla testa ai piedi e continuò a parlare finché la sua voce si trasformò in un cupo rantolo. Si appoggiò al muro e si sedette, era pallida e respirava a fatica. Hamid non aveva nemmeno la forza di asciugarsi le lacrime, mentre la pregava di calmarsi. Mansureh le bagnò il viso e le diede da bere acqua zuccherata perché si riprendesse. Cercai con lo sguardo i ragazzi. In piedi sulla soglia, con gli occhi pieni di lacrime, passavano lo sguardo dalla nonna al padre.
Lentamente l'emozione iniziale cominciò ad allentarsi. Mia suocera si tranquillizzò e rimase seduta a guardare il figlio, mio suocero si sedette accanto a Bibi che pregava sottovoce. Mi sembrò molto affaticato e gli portai del tè per rinfrancarlo. Il risultato della sua fatica ci ripagava tutti di ciò che avevamo passato: Hamid era tornato, magro, fragile, invecchiato, ma di nuovo fra noi.
In tutto quel fermento, mia madre da giorni non aveva più avuto mie notizie, e mi telefonò proprio in quel momento. La notizia la colpì a tal punto che mezz'ora dopo si presentarono tutti a casa nostra con dolci e fiori. Khanum Jun e Fati scoppiarono a piangere appena videro Hamid. Mahmud lo baciò e abbracciò i ragazzi come se tra noi non fosse successo nulla. Poi disse a Ehteramsadat e ad Ali di preparare il soggiorno per gli ospiti. «Non abbiamo invitato nessuno!» dissi sorpresa.
«Non c'è bisogno che siate voi a invitare! Adesso che si è diffusa la lista dei liberati, la gente arriva da sé...»
Capii che aveva qualcosa in mente e intervenni con decisione. Hamid stava male, aveva bisogno di riposo, e io non volevo ospiti. Non avrei fatto entrare nessuno.
Mahmud rimase spiazzato ed era visibilmente imbarazzato. Poi mi chiese se volevo far visitare Hamid da un medico e si offrì di chiamarne uno. Mezz'ora dopo il medico arrivò, ma non da solo... c'erano due persone con lui e una aveva in spalla una grossa macchina fotografica. Fulminai con lo sguardo mio fratello e cacciai via tutti dalla stanza. Mentre il medico visitava Hamid, il fotografo cominciò a scattare foto alle sue ferite.
La diagnosi fu broncopolmonite, il dottore gli fece un'iniezione, gli prescrisse dei farmaci e mi disse di aumentare lentamente le portate di cibo. All'improvviso tutti si ricordarono del coprifuoco, raccolsero le proprie cose in fretta e furia e se ne andarono. Mia suocera voleva restare, ma il marito la convinse promettendole che l'avrebbe accompagnata ancora da noi l'indomani. Dopo che tutti se ne furono andati, riuscii a far bere un bicchiere di latte a Hamid e servii una cena leggera ai ragazzi. Ero così stanca che non ebbi la forza di riordinare; andai in camera e mi sdraiai di fianco a Hamid. Era già sprofondato in un sonno profondo. Rimasi per un po' a fissare il suo volto magro e smunto e godetti della sua sola presenza. Poi alzai lo sguardo alla finestra, ringraziai Dio con tutta me stessa e giurai che lo avrei fatto tornare come prima. Ora potevo abbandonarmi al sonno.

Dopo una settimana Hamid cominciò a stare meglio. Non aveva più la febbre e riusciva a mangiare, ma aveva ancora una brutta tosse, soprattutto di notte, e gli era rimasta addosso la spossatezza di quattro anni di cattiva alimentazione e malattie curate male. Più del corpo, però, soffriva il suo spirito. Psicologicamente era a terra, inghiottito dalla depressione, senza più nulla da dire, né alcun interesse per gli avvenimenti. Non voleva rivedere nessuno dei suoi vecchi amici, non rispondeva ad alcuna domanda. Interpellai il medico. Mi disse che l'insofferenza per i luoghi affollati, la sensazione di inferiorità, la difficoltà a riabituarsi alla vita familiare erano sintomi diffusi fra chi usciva di prigione, ma lo meravigliava che Hamid non mostrasse entusiasmo per la rivoluzione che aveva tanto desiderato, e non gli giovasse il sostegno della sua famiglia così unita e affettuosa. Dovevo assolutamente aiutarlo a riscuotersi, a recuperare la gioia di vivere e a riprendere in mano la sua vita. Altri che erano stati liberati avevano reagito nel modo opposto, con un'eccitazione e un entusiasmo che quasi non riuscivano a tenere a freno.
Non comprendevo il vero motivo di quella depressione. All'inizio pensavo che il suo silenzio fosse legato alla malattia, ma adesso stava molto meglio. D'altra parte era difficile riabituarsi alla vita familiare, perché la nostra casa era diventata un porto di mare: si riempiva e si svuotava in continuazione di persone diverse. La madre di Hamid si era sistemata da noi. Monir, la sorella maggiore di Hamid, era venuta da Tabriz insieme ai suoi figli. Era vero che tutti ci aiutavano, ma né io né Hamid sopportavamo quel caos. Sapevo che il responsabile di buona parte delle visite era Mahmud, che pensava di aver trovato in Hamid un nuovo fenomeno da baraccone e, perché non mi lamentassi, pensava al cibo e ci mandava tutti i giorni pasti pronti dal ristorante. Ma la sua generosità non mi ingannava più. Non sapevo quali menzogne avesse raccontato, ma si comportava come se la liberazione di Hamid fosse stata opera sua e capivo che non gli sarebbe dispiaciuto farlo spogliare per mostrare ai curiosi i segni delle sue ferite.
I dibattiti e le discussioni politiche erano all'ordine del giorno. A poco a poco, si fecero risentire alcuni degli amici di sempre e le nuove reclute. Venivano a trovare Hamid per vedere da vicino l'uomo che consideravano un eroe, scrivere le sue parole nella storia del loro partito e sentir parlare dei compagni morti per la loro nobile causa. Ma Hamid non sopportava di vederli. Se ne liberava con ogni scusa possibile, e in loro presenza diveniva ancora più cupo e silenzioso.
Un giorno il medico passò a visitarlo e mi disse che la casa era troppo affollata: mio marito aveva ancora bisogno di riposo e tranquillità. Ma io non potevo cacciar via gli ospiti o chiedere ai parenti di non venire, così lo fece lui... e prima di andarsene disse davanti a tutti che se non avessimo rispettato le sue prescrizioni non si sarebbe assunto alcuna responsabilità. Se non eravamo in grado di chiudere la porta di casa nostra almeno per un po', dovevamo trasferirci in un luogo più tranquillo. Solo Hamid, io e i nostri figli. Il suo intervento mi rincuorò: aveva espresso i miei desideri e detto ciò che io non avevo osato dire.
Tutti avanzarono qualche proposta, poi se ne andarono, eccetto Mansureh. Lei era d'accordo con il dottore ed era preoccupata da tempo per quella situazione. Suo fratello era passato dal silenzio e dalla solitudine forzati a quell'invasione senza ritegno nella sua vita privata: come poteva riabituarsi alla libertà? Così ci propose di andare allo Shomal, la regione del Nord sul mar Caspio, per la convalescenza di Hamid. Lei e il marito avevano una casa lì e ce l'avrebbero lasciata senza dirlo a nessuno. Non stavo nella pelle per la felicità: quella era la decisione migliore che potessimo prendere e poi quel posto era la terra dei miei sogni. Tenendo conto della chiusura della scuola, dell'ufficio e dell'università, avremmo potuto trascorrere un lungo periodo di pace e serenità senza intromissioni.
Fu l'autunno dello Shomal a darci il benvenuto, con i suoi meravigliosi colori, il sole tiepido, il cielo terso, e un mare che cambiava colore ogni momento. La brezza leggera e fresca ci portava l'odore salato dell'acqua e rendeva ancora più piacevole sdraiarsi al sole sulla spiaggia. Restai incantata dalla vista sul terrazzo della villa. Guardai Hamid, ma lui non vedeva quella bellezza e non ascoltava le mie parole, non sentiva il profumo del mare e non si accorgeva del vento sulla faccia. Rientrò in casa indifferente e si sedette. Pensai che non dovevo arrendermi, avevo tempo, sarei riuscita ad aiutarlo... Nelle giornate soleggiate lo trascinavo fuori e lo portavo a passeggiare, a volte sulla splendida spiaggia dalla sabbia dorata, a volte nel bosco. Poi facevamo la spesa lungo la strada del ritorno. Lui mi seguiva perso nei suoi pensieri senza che gli uscisse nemmeno una parola, non sentiva le mie domande o rispondeva solo con cenni del capo, ma io facevo finta di niente. Parlavo, gli raccontavo episodi accaduti durante la sua assenza. Gli facevo notare la bellezza della natura, i paesaggi quasi fiabeschi, giocavo con i ragazzi, cantavo e ridevo. Ma non riuscivo a ottenere da lui più di qualche stanca occhiata. Avevo bandito i giornali, la radio e la televisione, perché ogni notizia alimentava la sua tensione. La sensazione di essere fuori dal mondo e di non saperne più nulla era bellissima per me che avevo vissuto in preda all'ansia per tanto tempo. Anche i ragazzi, cresciuti troppo in fretta per le drammatiche esperienze patite precocemente, avevano recuperato la gioia e i modi dell'infanzia: correvano, giocavano, ridevano e quei suoni erano musica per le mie orecchie. Dicevo a Hamid: «Era tempo che non vedevo i ragazzi così felici e allegri! Noi gli abbiamo rubato l'infanzia, ma non è troppo tardi per rimediare». Lui alzava le spalle e si girava dall'altra parte, ma io sapevo essere più testarda di lui. Continuai a coinvolgerlo nei giochi con i nostri figli e allungai le passeggiate giornaliere. Non gli veniva più il fiatone dopo un piccolo tratto. Era diventato più forte ed era anche ingrassato. Il suo corpo stava meglio, presto sarebbe stato meglio anche il suo spirito.

34.

Finalmente ricominciò a parlare. Appena capivo che era pronto a farlo lo incoraggiavo in ogni modo. In una giornata luminosa alla fine del mese di Aban organizzai un picnic. Dopo qualche ora di cammino arrivammo su una collina con una vista mozzafiato e stendemmo una coperta sul prato. Il sole splendeva maestoso, il cielo e il mare scintillavano in tutte le sfumature del blu. Di fronte a noi il verde del bosco era illuminato dalla luce dorata. La leggera brezza autunnale muoveva i rami e le foglie e ci rinfrescava. I ragazzi cominciarono a giocare. Hamid fissava un punto nel vuoto, però il suo viso aveva riacquistato colore e le sue guance si erano riempite. Senza rendermene conto mi misi a ridere. Hamid, stupito, mi chiese perché ridessi.
«Rido di te, di me, dei pensieri stupidi che mi hanno tormentata negli ultimi quattro anni...»
«Quali pensieri?»
«Lascia stare, non erano bei pensieri...»
«Voglio saperlo lo stesso.»
Mi rallegrai: per lo meno si era incuriosito. «Ho pensato che sarebbe stato meglio se anche tu fossi morto come i tuoi amici...»
Un lampo guizzò nel suo sguardo. «Allora anche tu sei convinta di questo?»
«No, non più, ma lo sono stata perché ero certa che non saresti mai tornato alla vita normale, che forse saresti morto in prigione dopo una lenta agonia, allora meglio morire in un'azione di lotta, in un attimo, senza soffrire...»
«Anch'io l'ho sempre pensato ed era una tortura per me sapere di non essere stato degno di quella morte.»
«Ma adesso è tutto diverso, non hai idea della gioia che provo a riaverti qui! In questi giorni penso spesso a Shahrzad e le sono grata di averti lasciato vivere per noi.»
Girò la testa e fissò di nuovo il vuoto. «Sono quattro anni che rifletto su questo: perché si sono comportati così? Perché non mi hanno messo al corrente? Di quale tradimento mi ero infangato per non meritare nemmeno un messaggio? Io ero addestrato per quell'operazione e se non mi avessero tolto la loro fiducia, se fossi stato con loro, forse Shahrzad e gli altri sarebbero ancora vivi! Allora il vero responsabile della loro morte sono io... Ma cosa avevo fatto per perdere la loro fede? Non so darmi una risposta...»
La sua disperazione esplose, poggiò la testa a terra e pianse senza freni, come se improvvisamente l'argine di una diga avesse ceduto. Non feci nulla per il timore di bloccare quello sfogo. Lasciai che piangesse liberamente e solo quando i singhiozzi gli tolsero il respiro, dissi: «Non ti hanno mai considerato indegno di fiducia. Eri il loro più caro amico, da sempre».
«Sì, gli unici amici della mia vita! Erano tutto per me, ero disposto a dargli tutto quello che avevo, tu lo sai, ero pronto a sacrificare perfino la mia famiglia per loro, ma non mi hanno voluto, mi hanno messo da parte, anche se avevano bisogno del mio aiuto, come un estraneo o un traditore. Come faccio adesso a continuare a vivere? La gente non si chiede perché non fossi con loro? Perché non sia morto con loro? Forse qualcuno pensa che sia stato io a fare la spia: tu non te ne accorgi, ma da quando sono uscito di prigione molti mi guardano con occhi indagatori o addirittura accusatori!»
«No, ti sbagli! Loro ti volevano bene più di chiunque altro e, nonostante avessero bisogno del tuo aiuto, si sono messi in pericolo per salvarti.»
«Non dire sciocchezze: per noi la cosa più importante era la nostra causa, avevamo seguito un addestramento per combattere e anche morire per quella causa, non c'era posto per i sentimentalismi, venivano esclusi solo i traditori e gli inaffidabili, e i miei amici hanno escluso me!»
«Ti ripeto che ti sbagli, Hamid, non è così. Io so cose che tu non sai: Shahrzad si è sacrificata per noi...»
«Stai delirando! Shahrzad era la più seria e la più convinta nelle questioni rivoluzionarie! Non avrebbe rinunciato a uno dei suoi punti di forza.»
«Tu non hai conosciuto Shahrzad come ho imparato a conoscerla io in quel periodo di convivenza. Prima di essere una rivoluzionaria, una comunista, il capo di un gruppo o un'eroina... era una donna! E desiderava ardentemente la vita familiare e la tranquillità a fianco di un marito e di un figlio. Ricordi come adorava Masuud? Masuud aveva preso il posto del figlio che aveva sempre sognato e lei, come donna, non era disposta a rendere orfano Masuud, anche se era convinta che si dovesse combattere per la libertà, anche se il suo obiettivo era la felicità di tutti i bambini e li vedeva tutti come suoi figli. Con Masuud Shahrzad ha conosciuto l'istinto materno e ha messo suo figlio sopra a tutto, come avrebbe fatto qualsiasi madre, e tutti gli altri sono passati in secondo piano. Questo accade anche nel più puro degli animi! Quando ha un figlio, una donna soffre per lui più che per qualunque altro bambino del mondo, anche se li ama tutti, anche se è disposta a sacrificarsi per loro. Shahrzad, nei mesi in cui è stata con noi, è diventata la madre di Masuud con tutta sé stessa, lo ha adottato come figlio e non voleva in alcun modo fargli del male o causargli sofferenze.»
Hamid era ammutolito, spiazzato dalle mie parole, ma ancora non ci credeva. L'immagine che aveva di Shahrzad era quella di una donna forte e battagliera, che coltivava grandi ideali, diversa da tutte le altre donne... Gli era difficile capire che essere forte e battagliera non significava perdere il proprio istinto femminile. Restò in silenzio per un po' e lessi nei suoi occhi il turbinio di pensieri mentre cercava di vedere le cose con chiarezza.
Gli ricordai che Shahrzad amava Forugh Farrokhzad e leggeva sempre le sue poesie. «Era una poetessa rivoluzionaria e battagliera, ma era una donna, e riusciva a esprimere perfettamente la profondità del dolore per la mancanza di ciò che una donna desidera al di là dei suoi ideali. Shahrzad la sentiva vicina perché diceva cose che lei non aveva il coraggio di esprimere. Un giorno, però, mi disse che invidiava la mia famiglia e la mia vita, riesci a crederci? Risposi che di certo stava scherzando... Ero io che dovevo invidiare lei: aveva tutto, era una donna completa, mentre io ero una donnetta uguale a quelle di cento anni fa, costretta a passare la propria vita tra i lavori domestici e a restare per sempre insoddisfatta. E lei, in risposta, mi recitò una poesia di Forugh Farrokhzad.»
Hamid scosse la testa incredulo, poi mi chiese se mi ricordassi quella poesia. L'avevo imparata a memoria.

Ma quale cima, quale vetta?
Cosa mi avete donato, voi, parole fatte per incantare i semplici e gli ingenui?
E se avessi infilato un fiore tra i miei capelli
al posto di questa corona di carta
forse quel fiore non sarebbe stato più incantevole?
Ma quale cima, quale vetta?
Proteggetemi, voi, lampade turbate,
o case illuminate e incredule,
là, dove sui vostri tetti infiammati dal sole
i panni appena lavati risplendono nell'abbraccio
di vapori profumati.
Proteggetemi, voi, donne semplici, piene, totali,
che con le vostre dita sottili
seguite il dolce movimento
di un feto sotto pelle,
e dalla fessura dei vostri colli di continuo l'aria si mescola al profumo di latte fresco26

«Ricordi la notte in cui doveva andarsene e continuava a stringersi al petto Masuud? Lo baciava, gli parlava e piangeva... e al momento di fuggire mi disse che dovevo aver cura della mia famiglia in tutti i modi, facendo crescere i bambini in un ambiente sano, e che Masuud era molto sensibile e aveva bisogno sia del padre sia della madre. In quel momento non compresi bene il significato delle sue parole, poi capii che non erano per me ma per sé stessa, e rispecchiavano il suo conflitto interiore.»
Mi rendevo conto che la persona che avevo descritto non era Shahrzad agli occhi di Hamid, e lui era incredulo e indignato perché gli sembrava di infangare il suo ricordo, di rinnegare la sua fede nei loro ideali. Non capiva che le due facce della sua personalità potevano convivere e che lui aveva conosciuto solo la rivoluzionaria e non la donna. Nei mesi passati con noi, Shahrzad aveva scoperto o ritrovato il suo lato femminile e materno, ma era troppo tardi per fare una scelta diversa. Però poteva ancora salvare la vita di Hamid perché Masuud non dovesse affrontare l'enorme dolore della perdita del padre.
L'espressione di Hamid era un misto di meraviglia e perplessità: forse non credeva a molte delle mie parole, ma finalmente, dopo quattro anni, riusciva a pensare ad altre possibilità, a vedere nuove prospettive, a non sentirsi più in colpa per non essere stato coinvolto nell'azione in cui i suoi amici erano stati uccisi. Fu soprattutto questo, credo, che rinnovò le sue speranze e produsse il cambiamento che aspettavo.
La voglia di comunicare prese il posto del lungo silenzio, e dopo quel giorno io e lui cominciammo a parlarci senza sosta, esaminando tutta la nostra vita passata, i nostri comportamenti e la situazione familiare. I nodi si scioglievano a uno a uno e per ciascuno si apriva una finestrella di felicità, si liberava un po' della rabbia e dei rancori repressi e cresceva la sicurezza di sé persa da anni. A volte, durante le nostre discussioni, mi guardava stupito e mi diceva che ero molto cambiata, ero più colta e matura, e parlavo come un filosofo o uno psicologo... Poteva essere tutto merito di pochi anni di università? Io ero orgogliosa di rispondergli che era stata la vita a cambiarmi, con le difficoltà e le necessità. Avevo trovato la strada giusta. Sentivo la responsabilità dei miei figli, ma anche l'importanza di realizzare i miei sogni, e i libri, l'università e il lavoro mi avevano aiutato a crescere.
Dopo due settimane Hamid si era quasi completamente ristabilito e stava lentamente tornando ad assomigliare all'uomo di un tempo. Il suo corpo riprendeva forza insieme alla sua mente. I ragazzi si erano subito accorti del cambiamento e gli stavano vicini il più possibile: lo seguivano con entusiasmo, gli ubbidivano, ridevano con lui, e il suono di quelle risa illuminava le mie giornate. Con il ritorno della salute e del gusto per la vita, si risvegliarono anche gli istinti e i desideri e, dopo tanta oscurità e privazione, le nostre notti s'incendiarono d'amore.
In due giorni di festa vennero a trovarci i genitori di Hamid insieme a Mansureh e a suo marito e furono molto felici del cambiamento di Hamid. Mia suocera continuava a girargli intorno, lo benediva e mi ringraziava per la sua guarigione, commuovendo anche gli altri. Per tutti e due i giorni piovve e fece freddo, e noi passammo il tempo a parlare e scherzare tutti insieme intorno al fuoco del camino. Bahman, il marito di Mansureh, raccontava barzellette sullo scià e il suo consigliere e Hamid rideva di cuore. Tutti erano sicuri che fosse guarito, ma decidemmo di restare lì ancora per un paio di settimane, soprattutto perché la madre di Hamid mi aveva detto di nascosto che Bibi non stava bene e che alcuni vecchi amici del figlio ancora molto attivi in politica lo stavano cercando dappertutto. Bahman si offrì di lasciarci anche la sua auto perché potessimo girare i paesini e le cittadine dello Shomal, anche se in quel periodo trovare la benzina era assai difficile.
Così trascorremmo lì altre due splendide settimane. Avevo comprato un pallone per i ragazzi e Hamid giocava con loro a pallavolo, correva e si allenava. Siamak e Masuud, che non avevano mai avuto un rapporto così stretto con il padre, lo veneravano come un idolo. I disegni di Masuud erano pieni di famigliole in mezzo ai fiori che mangiavano sotto gli alberi, giocavano o passeggiavano illuminate dal sole... Il ghiaccio tra padre e figli era sciolto e loro gli raccontavano degli amici e della scuola. Siamak si vantava delle sue azioni rivoluzionarie, parlava dei posti in cui era stato con lo zio Mahmud e di quello che aveva sentito, lasciando Hamid di stucco. Un giorno, sorseggiando del tè disteso al mio fianco, mi disse che rivedeva in loro la sua infanzia e adolescenza: erano fantastici e avevano un'energia inesauribile, non avrebbe mai pensato di poterli amare così tanto...
Gli ricordai che un tempo non sopportava i bambini e aveva reagito molto male alla notizia che ero incinta di Masuud, rifiutando ogni responsabilità nei nostri confronti. Non volevo riaprire vecchie ferite né risvegliare i ricordi amari, ma solo capire il suo punto di vista di allora. Disse: «Non volevo un figlio perché non avevo certezze, nemmeno quella di sopravvivere. Non c'erano punti fermi nel mio futuro e nella mia vita. In quelle condizioni mettere al mondo un altro figlio mi sembrava una sciocchezza e un errore ed ero convinto che ci avrebbe causato solo problemi. Non hai mai pensato che se non ci fossero stati i ragazzi, tu non avresti sofferto così tanto in questi anni e non avresti dovuto farti carico di tante responsabilità?».
«No, davvero non l'ho mai pensato. Piuttosto, se non ci fossero stati i ragazzi, non avrei avuto motivi per vivere e impegnarmi... È la loro esistenza che mi ha scossa e incoraggiata e ha reso la mia vita meno triste.»
«Sei davvero una donna particolare... e comunque ora sono molto felice di avere i nostri figli, e ti sono riconoscente per avermeli dati. La situazione è cambiata, vedo un avvenire roseo per loro e non sono più in ansia.»
Quelle parole pronunciate da lui erano come un dono inaspettato. Risi. «Allora un altro figlio non sarebbe un problema adesso...»
«Masum, non dirmi che...»
Risi di nuovo. In realtà non lo sapevo ancora, ma era una possibilità... Hamid non ne sentiva il desiderio, non era entusiasta dell'idea, ma perlomeno non era né infuriato né spaventato come un tempo. Lui stesso aveva detto che l'avvenire si prospettava roseo.
Quando finimmo di parlare di noi, cominciarono i discorsi sulla politica. Hamid voleva sapere cos'era successo mentre lui era in prigione, per quali motivi era stato liberato e perché la gente era cambiata così tanto, e io cercavo di spiegargli tutto. Gli parlai anche della mia esperienza personale in ufficio e all'università, di come quasi tutti all'inizio si tenessero alla larga da me e poi avessero cambiato completamente atteggiamento eleggendomi a simbolo, del signor Zargar che mi aveva assunta perché ero la moglie di un prigioniero politico, del signor Shirazi che era un acceso contestatore, ma non si fidava più di nessuno e si sentiva fuori luogo ovunque andasse, e poi di Mahmud che diceva di essere pronto a dare la vita per la rivoluzione.
La voglia di comunicare e riprendere contatto con la realtà cresceva in Hamid giorno dopo giorno: ascoltava sempre il notiziario, parlava con la gente per strada e nei negozi, si era fatto dei nuovi amici con cui discutere. Passarono così altre due settimane, ma non era più possibile tenerlo in quell'ambiente sicuro e asettico. Dovevamo tornare a Teheran.

35.

Quando arrivammo, la povera Bibi se n'era andata già da una settimana. Non ci avevano avvertito per non turbare la tranquillità di Hamid. Povera vecchia! La sua morte non aveva scosso la vita di nessuno, non aveva colpito nessun cuore. In realtà, lei era già morta da tempo: prima la sua vita non valeva nulla rispetto a quella dei giovani che morivano ogni giorno in manifestazioni e proteste, adesso nessuno si accorgeva della sua assenza.
Il ritorno a Teheran riportò Hamid agli anni precedenti. Libri e carte ci invasero di nuovo la casa. Le persone che lo conoscevano lo consideravano un superstite e un eroe e avevano parlato di lui ai più giovani. Grazie a loro Hamid recuperava la perduta sicurezza di sé, anche troppo: parlava come un leader e guidava la protesta. Dopo una settimana andò alla stamperia con un gruppo di seguaci fidati. Ruppero i sigilli e le catene e rimisero in funzione i macchinari rimasti per stampare opuscoli e volantini.
Siamak seguiva il padre, eseguiva i suoi ordini, si sentiva onorato di essere suo figlio. Cercava di comparirgli al fianco in ogni occasione, mentre Masuud si schermiva e prendeva le distanze. Restava con me a disegnare scene di protesta pacifica, senza tracce di sangue e di violenza.
Il giorno dell'Ashura27 molti vennero a casa nostra per andare tutti insieme alla manifestazione. Hamid si separò da noi con un gruppo di amici. I suoi genitori tornarono a casa presto, mentre io e le sue sorelle con Fati e il marito continuammo a manifestare insieme, urlando slogan fino a perdere la voce. Ero entusiasta di quella protesta di massa, ma anche preoccupata per la partecipazione totale di Hamid e per le sue reazioni: vedendo tutta quella gente dalla sua parte, come avevo previsto, si fece subito influenzare e coinvolgere senza riserve.
Dopo qualche tempo cominciai ad avvertire i cambiamenti del mio corpo: mi stancavo più facilmente e la mattina avevo un lieve senso di nausea, ma ne ero felice perché pensavo che il mio bambino, magari una bella femminuccia, sarebbe nato in una situazione migliore e anche Hamid avrebbe potuto gustare quel piacere che con gli altri figli non aveva provato di un bambino piccolo in casa. Ma non avevo il coraggio di dirglielo... Quando finalmente mi decisi a farlo reagì scherzando: «Sapevo che mi avresti dato qualche altro grattacapo, ma dopotutto anche questo è un prodotto della rivoluzione, e potrà contribuire alla causa: abbiamo bisogno di risorse umane!».
I giorni della rivoluzione furono eccitanti e ricchi di avvenimenti. Tutti erano coinvolti, sia da noi sia da Mahmud c'era sempre un gran via vai di persone, e le nostre case si stavano trasformando in circoli politici. Era ancora pericoloso perché quelle riunioni erano illegali, ma Hamid proseguiva imperterrito con coraggio e incoscienza, sicuro che le forze dell'ordine non sarebbero intervenute, perché se lo avessero catturato di nuovo avrebbero fatto di lui un eroe, e non volevano di certo correre quel rischio.
La notte urlavamo Allah-o-akbar sui tetti e andavamo a far visita ai vicini attraverso la via di fuga che anni prima Hamid aveva studiato. Passavamo le serate a discutere e scambiarci opinioni; tutti, dai bambini agli anziani, avevano una coscienza politica e parlavano apertamente con gli altri. Quando lo scià se ne andò, nel 1979, l'emozione salì alle stelle.
Mahmud aveva dato ordine di riunirci tutti a casa sua per sentire le ultime notizie e definire il nostro programma. La collaborazione tra Hamid e Mahmud era amichevole, non entravano in conflitto nelle discussioni, e si scambiavano informazioni preziose. Hamid aveva messo a disposizione di Mahmud e dei suoi amici la propria esperienza, e le forze di opposizione armata. A volte rimanevano a discutere e a pianificare fino all'alba. Con l'avvicinarsi del ritorno di Khomeini dall'esilio la collaborazione fra i loro gruppi diventò sempre più intensa e portò molti a dimenticare le inimicizie e i rancori del passato e a ricucire i rapporti. Ritrovammo anche un nostro zio che da quasi venticinque anni viveva in Germania ed era eccitato e ansioso di essere messo al corrente dei fatti, come tutti gli iraniani espatriati. Mahmud parlava persino con il marito di nostra cugina Mahbubeh e si scambiavano notizie su Qum e Teheran. E poi non badava a spese... a volte mi sembrava impossibile: era davvero lo stesso Mahmud che conoscevo?
Siamak aveva tredici anni e stava maturando in fretta. Si impegnava come un uomo accanto al padre e io lo vedevo sempre di meno. Masuud era addetto agli slogan da affiggere: a volte li scriveva su grandi fogli e li abbelliva con i suoi disegni, poi correva in strada insieme agli altri bambini. Temevo che corressero dei rischi ma non potevo fermarli, così facevo la sentinella agli angoli delle strade per permettergli di scrivere tranquillamente anche sui muri, e correggevo gli errori di ortografia... Era l'unico modo per tenere d'occhio il mio ragazzo e partecipare alle sue «attività rivoluzionarie». Masuud si eccitava molto per quelle azioni e l'idea di fare qualcosa di illegale e pericoloso con la complicità della madre gli procurava una gioia innocente e infantile. In quei giorni, la mia unica ombra di tristezza era per Parvaneh, che si stava allontanando da me perché i suoi ideali erano in conflitto con i miei. Dopo averci aiutato durante il periodo di carcere di Hamid ed essersi presa cura dei miei figli, adesso aveva tagliato i ponti con noi. La sua famiglia stava dalla parte dello scià ed era contro i rivoluzionari. A ogni discussione le differenze fra noi si accentuavano, spesso ci offendevamo a vicenda e ci salutavamo sul punto di una lite. Così cominciammo a non sentire più il bisogno o il desiderio di vederci, finché un giorno venni a sapere che avevano abbandonato di nuovo il paese. Soffrivo per averla persa, ma il dolore non spense mai la mia rabbia rivoluzionaria.
I giorni allegri ed eccitanti della rivoluzione passarono come il vento. La gioia e l'entusiasmo salirono alle stelle il giorno 22 di Bahman, l'11 febbraio. La televisione mandò in onda l'inno nazionale Ehy Iran! e la presentatrice di un programma per bambini lesse una filastrocca - Ho sognato che qualcuno arrivasse - di Forugh Farrokhzad. Andavamo di casa in casa cantando l'inno, ci abbracciavamo a vicenda, ci offrivamo dolci e ci facevamo gli auguri. Ci sentivamo liberi e leggeri, come se avessimo finalmente scosso dalle spalle un enorme peso. Le scuole e gli uffici riaprirono in fretta ma c'era molta confusione e la situazione era innaturale, le discussioni e i conflitti si moltiplicavano. Alcuni sostenevano la necessità di iscriversi all'appena fondato partito della repubblica islamica, per dimostrare l'appoggio alla rivoluzione, altri dicevano che non era necessario, visto che lo scià se n'era già andato.
Sul lavoro tutti si complimentavano con me, come se avessi fatto la rivoluzione da sola, e volevano vedere Hamid. Una volta che passò a prendermi, i miei colleghi lo trascinarono in ufficio e lo acclamarono come un eroe. Hamid si schermì: non parlò di sé ma dei programmi politici, e distribuì opuscoli e articoli rispondendo alle loro domande. I miei amici lo consideravano un uomo buono e affascinante, e io ero molto orgogliosa di lui.
In quei giorni vivevamo da vincitori e assaporavamo il gusto della libertà. Circolavano liberamente libri, manifesti, riviste che fino a poco tempo prima erano banditi. Si parlava in pubblico di tutto senza timori: la SAVAK non faceva più paura. Ma tutti quegli anni di oppressione e di silenzio forzato non ci avevano permesso di imparare a usare la libertà in modo corretto e consapevole. Non eravamo capaci di ascoltare opinioni diverse dalla nostra, non tolleravamo ideali distanti dai nostri: fu così che la luna di miele della rivoluzione durò meno di un mese, e la sua fine ci colse impreparati. I diversi ideali e le opposte posizioni, che fino a quel momento avevano fatto fronte comune contro uno stesso nemico, non avevano più ragione di restare uniti e le differenze si mostrarono giorno dopo giorno più profonde fino a portare al conflitto, fino a vedere nell'alleato di prima il nuovo nemico, del popolo, del paese o della religione. Si formavano nuovi partiti e tutti si scagliavano contro tutti.
Le visite dell'Eid didani di quell'anno passarono anche per noi fra accese discussioni e liti infuocate e una di queste ebbe come teatro la casa di Mahmud: era il rinnovato conflitto tra mio fratello e Hamid. Mahmud disse: «L'unico motivo che ha spinto la gente alla rivoluzione è stato l'islam, perciò il nuovo governo non può che essere islamico».
«Interessante: e potresti spiegarmi cos'è un governo islamico?» domandò Hamid.
«Uno che rispetta e fa rispettare le leggi dell'Islam, ovviamente!»
«Significa tornare indietro di mille anni...»
«La legge islamica è la legge di Dio: non invecchia mai e può essere usata in qualsiasi contesto storico.»
«Allora vorremmo che ci illustrassi le singole leggi: per l'economia, per la giustizia... Non ditemi che volete ricostituire gli harem, viaggiare sui cammelli, tagliare mani e piedi: anche queste sono leggi di Dio, se non sbaglio...»
«Se tagliassero le mani ai ladri non ce ne sarebbero così tanti, e con le giuste punizioni sparirebbero usurai e criminali, ma tu, miscredente come sei, cosa puoi capire delle leggi di Dio? C'è una spiegazione per ciascuna di esse...»
La discussione degenerò negli insulti. Avevano combattuto fianco a fianco, e adesso non si potevano più sopportare! Hamid difendeva la legge del popolo, la libertà, la divisione equa dei beni, la condanna a morte dei controrivoluzionari e un governo di molti e non di pochi. Mahmud lo vedeva come un senza fede, miscredente, traditore e meritevole di morte. Hamid gli diceva che era ignorante e ottuso, l'altro gli rispondeva accusandolo di essere una sporca spia e un criminale.
Ehteramsadat e i suoi figli, Ali e sua moglie si schierarono naturalmente dalla parte di Mahmud, mentre io cercavo di difendere mio marito. Mia madre non capiva nulla delle nostre discussioni, voleva soltanto che facessimo la pace. Fati e suo marito erano perplessi e non sapevano da che parte stare, ma la posizione peggiore era quella di Siamak, che non riusciva a capire chi avesse ragione. Lui aveva prima ascoltato gli insegnamenti religiosi dello zio e poi era entrato nella dimensione mentale del padre, e non si era mai sentito così confuso. Vedendo Hamid e Mahmud collaborare, aveva unito le loro due correnti di pensiero, ma ora il violento scontro di ideali e il divario incolmabile fra posizioni così lontane lo disorientavano e lo affliggevano. Non voleva più saperne di nessuno dei due. Era tornato nervoso e intrattabile. Finalmente un giorno, dopo l'ennesima lite, mise la testa sul mio petto come nella sua infanzia e scoppiò a piangere. Singhiozzando mi chiese se era vero che il papà non credeva in Dio ed era nemico di Khomeini, e che lo zio Mahmud pensava che papà e i suoi amici dovessero essere giustiziati. Non sapevo cosa rispondergli.
Il nostro stile di vita tornò agli anni precedenti. Hamid cominciò di nuovo a sparire e si dimenticò ancora una volta della famiglia e della casa. Viaggiava di continuo da una parte all'altra del paese, passava il suo tempo libero scrivendo articoli e discorsi e stampando giornali, volantini e opuscoli. Restavamo per giornate intere senza sue notizie. Non voleva che Siamak andasse con lui, e Siamak stesso sembrava non aver più una gran voglia di seguire il padre.
La riapertura delle scuole, delle università e degli uffici teneva tutti ben occupati con lo studio e il lavoro, ma in ogni luogo si assisteva a discussioni e risse per differenze d'opinione. All'università, il gruppo che arrivava per primo si conquistava un'aula, attaccava alla porta il proprio manifesto e cominciava a distribuire volantini. Ma gli studenti non erano i soli... anche i docenti presero a litigare fra loro. I muri e le porte erano coperti di accuse, slogan, foto di studenti «colpevoli» intenti a ricevere un premio o un riconoscimento da parte dello scià. Non so come riuscii a studiare, in quell'anno in cui tutto era influenzato dalle battaglie ideologiche. Poi purtroppo i disordini, il ritiro di molti docenti e la sospensione di parecchi corsi mi impedirono ancora una volta di laurearmi.
In ufficio si respirava lo stesso clima teso e ogni giorno qualcuno veniva additato come membro della SAVAK e si diffondevano nuovi pettegolezzi e voci infondate. Il licenziamento di elementi controrivoluzionari era all'ordine del giorno e ci si guardava a vicenda come traditori. Quanto a Siamak, portava a casa da scuola il giornale dei mujahidin.

36.

Mia figlia nacque nel 1978, alla fine del mese di Shahrivar. Questa volta Hamid era presente e fu lui stesso a portarmi in ospedale. Dopo la nascita della bambina mi sorrise, dicendomi che mi assomigliava più degli altri figli: aveva già le fossette sulle guance ed era davvero shirin: dolce e buffa. Propose di chiamarla Shahrzad. Ma io gli ricordai che volevamo che avesse una vita lunga e serena, diversa da quella di Shahrzad, e che avevamo deciso di darle un nome che le si addicesse.
«E quale starebbe bene a questa piccolina, secondo te?»
«L'hai appena detto tu stesso...»
Non capiva.
«Shirin», dissi convinta.
Avevo ormai imparato che la fase neonatale dura ben poco, e lei sarebbe stata sicuramente la mia ultima figlia, quindi volli godermi ogni suo istante. Siamak non mostrava molto interesse per la nuova arrivata, mentre Masuud la osservava con stupore e curiosità e non era affatto geloso. «Per quanto sia così piccola, ha tutto, è perfetta! Guarda le sue dita, minuscole ma uguali alle mie. E le narici sembrano due piccoli zero», diceva teneramente. I pochi capelli arruffati che aveva soltanto davanti lo facevano ridere. Quando tornava da scuola andava subito dalla sorellina, le parlava e provava a giocare con lei, e sembrava che Shirin gli volesse altrettanto bene, perché quando lo vedeva muoveva le piccole braccia e le gambe, e appena cominciò a camminare saltava in braccio soltanto a lui. Era una bambina sana, e assomigliava a entrambi i fratelli: era sempre sorridente e allegra come Masuud, ma vivace e irrequieta come Siamak. Le labbra e le guance erano identiche alle mie, ma aveva ereditato la pelle olivastra e i grandi occhi scuri dal padre. Ero così impegnata con lei che quasi non mi accorgevo delle assenze di Hamid. Non mi interessavo più alle sue attività, e sapevo poco anche di quello che faceva Siamak. A scuola andava bene come sempre, ma non avevo idea di come passasse il tempo libero.
Decisi di prendere un anno di aspettativa per crescere con tranquillità la mia piccolina, finire gli studi e superare gli esami per il dottorato. Avevo anche un'aiutante fissa in Parvin Khanum, che adorava Shirin e ormai era sola e lavorava poco. Sembrava che nessuno volesse più farsi cucire i vestiti, così aveva dato in affitto le stanze dall'altra parte del cortile per compensare la scarsità di lavoro. Parvin passava con me la maggior parte del tempo libero, e quando mi iscrissi per il trimestre invernale, fu entusiasta di prendersi cura di Shirin.
Ma l'università era in pieno declino. Restai molto male il giorno in cui uno dei docenti più anziani e illustri, durante le cui lezioni non si sentiva volare una mosca e al quale tutti avevano portato sempre un particolare rispetto, fu cacciato dall'università da un gruppo di studenti con la scusa che un suo libro aveva ricevuto un'onorificenza da parte dello scià. Mi colpì particolarmente che anche molti insegnanti assistessero a quello spettacolo senza intervenire e anzi deridessero il loro collega caduto in disgrazia.
Quando lo raccontai a Hamid scosse la testa: non condivideva la mia reazione.
«In una rivoluzione non c'è posto per inutili sentimenti di pietà. La pulizia è uno dei fondamenti della lotta: purtroppo questo nuovo governo non ha il potere di fare veramente piazza pulita dei nemici. Il popolo deve avanzare energicamente le sue pretese senza paura dello spargimento di sangue, ma qui non sta succedendo...»
«Come puoi dire questo? Ho visto proprio questa mattina sul giornale le foto delle persone giustiziate!»
«Ma cosa vuoi che sia la morte di una manciata di nemici! Se non l'avesse fatto, il nuovo governo sarebbe stato subito rovesciato.»
«Non dire queste cose Hamid, mi spaventi... Stanno già morendo in troppi!»
«Tu sei troppo sentimentale. Il punto è che la nostra gente non ha la cultura della rivoluzione.»
Non ci volle molto perché i disordini aumentassero con l'acuirsi delle differenze politiche e sociali fra le parti in lotta, e così le università chiusero definitivamente. Sembravo proprio destinata a non finire i miei studi! Eravamo molto lontani dalla pace e dalla stabilità. Si mormorava di una guerra alle porte e tutti sapevano degli inni alla separazione e all'indipendenza di alcune parti del paese, soprattutto del Kurdistan.
Era più di un mese che Hamid non tornava a casa e non avevo sue notizie. Riaffiorarono le preoccupazioni e l'ansia di un tempo, ma io non avevo più la stessa pazienza. Decisi di parlargli seriamente al suo ritorno.
Lo rividi dopo sei settimane, esausto, rientrare a mezzanotte. Si buttò direttamente sul letto e dormì dodici ore filate. Quando finalmente si svegliò, fece una doccia, mangiò un pranzo completo e cominciò a ridere e scherzare con i ragazzi. Mentre ero impegnata a lavare i piatti, mi guardò e mi chiese se ero ingrassata. Si era dimenticato che avevo partorito solo sette mesi prima, quindi non si ricordava nemmeno di avere una figlia! Ero furibonda. Appena la sentì piangere, corse a prenderla in braccio, non voleva ammettere di essersi dimenticato di lei, e cominciò a fare complimenti su com'era cresciuta e quanto era simpatica e carina. Masuud non aspettava altro per elencare con orgoglio le abilità della sorella: come gli sorrideva, come riconosceva tutti i membri della famiglia, come gli stringeva forte il pollice, e poi aveva già due denti e aveva cominciato a gattonare!
«Scusatemi, ma quanto sono mancato? Possibile che abbia imparato tutto questo in così poco tempo?» chiese sorpreso Hamid.
«No mio caro, prima che tu partissi le erano già spuntati i dentini e sorrideva anche a te, ma tu non te ne sei nemmeno accorto!» Quella sera non uscì di casa. Verso le dieci suonò il citofono, lui sobbalzò e corse verso il tetto. Mi sembrò d'essere tornata a molti anni prima, come se non fosse cambiato niente, e mi venne un senso di nausea.
Non ricordo chi fosse stato a suonare ma, anche se non rappresentava un pericolo, ci aveva spaventati entrambi. Guardai Hamid con amarezza. Shirin dormiva; i ragazzi volevano stare con il padre finché era alzato, ma ordinai loro con durezza di andare a letto. Poi dissi a Hamid che dovevo parlargli.
«Proprio stasera?»
«Sì, stasera, perché potrebbe non esserci un domani...»
Scherzò sulla gravità delle mie parole, ma io non mollai.
«Vedi Hamid, in tutti questi anni ho sopportato molto, non ho mai preteso nulla da te, e ho rispettato i tuoi ideali, anche se non li approvavo. Mi sono abituata a convivere con solitudine, paura, ansia, senza nessuno con cui confidarmi. Tu venivi prima di ogni altra cosa. Ho subito la barbara perquisizione in casa nostra, anni di insulti e di minacce, e la tua prigionia, da sola. Da sola ho preso sulle spalle il peso della nostra famiglia e ho cresciuto i nostri figli.»
«Quindi mi stai tenendo sveglio perché ti ringrazi. D'accordo, ti sono riconoscente: signora, sua grazia, lei è eccezionale!»
«Non scherzare Hamid! Io non ho bisogno dei tuoi complimenti e della tua riconoscenza, non sono più la ragazza di diciassette anni che ti dipingeva come un eroe, e tu non sei più un giovane con le energie necessarie per continuare a combattere. Avevi detto che se il regime dello scià fosse crollato, se la rivoluzione avesse trionfato e la gente ottenuto ciò che voleva, saresti tornato alla tranquilla vita familiare e avremmo cresciuto i nostri figli serenamente insieme. Pensa un po' anche a loro, abbiamo delle responsabilità nei loro confronti, e hanno bisogno di te. Lascia perdere la politica! Io non ce la faccio più, non ho più né la forza né la pazienza per vivere nell'ansia. Hai già fatto abbastanza per il tuo paese, ora lascia fare ai giovani. E poi, oltre alla serenità dei nostri figli, cos'altro ti ho mai chiesto? Mettili per una volta sopra a tutto il resto. Hanno bisogno di un padre, io non posso più sostituirti. Ti ricordi com'erano felici e sereni durante il periodo che abbiamo passato insieme nello Shomal? Ci raccontavano tutto, mentre adesso non so niente di cosa combini Siamak, di chi siano i suoi amici. Lui è in piena adolescenza: è un'età difficile, bisogna dedicargli tempo, seguirlo. E poi ci sono i progetti per il loro futuro, e le spese che stanno diventando ogni giorno più pesanti: io non posso più farmi carico di tutto da sola! Hai mai pensato a come abbiamo vissuto nei mesi in cui non ho lavorato? Sono finiti anche i pochi soldi che avevo messo da parte e il tuo vecchio padre non potrà aiutarci per sempre...»
«Quello che mio padre ti passa è il mio stipendio mensile!»
«Ma quale stipendio? Perché ti prendi in giro da solo? Quanto guadagna la stamperia per permettersi di dare lo stipendio a uno scansafatiche come te?»
«Allora sono i soldi il tuo problema? Posso dirgli di darti di più, così ti metterai l'animo in pace. Evidentemente servire il popolo non conta niente per te, tu hai solo preoccupazioni materiali...»
«I tuoi slogan non mi incantano più. Se veramente vuoi che aiutiamo il popolo, perché non andiamo a fare gli insegnanti nel luogo più sperduto del paese? Così lavoreremmo veramente per gli altri e daremmo un'istruzione alla povera gente. Oppure coltiviamo la terra insieme ai contadini... Non mi lamenterei se mi proponessi questo, perché io vorrei soltanto che stessimo insieme, che i miei figli avessero un padre! Sarei disposta a seguirti ovunque, a patto di rinunciare a una vita fatta di fughe e di ansia senza fine. Prendi una decisione per la tua famiglia, una volta nella vita!»
Non potevamo capirci: avevamo obiettivi troppo diversi. Mi disse con disprezzo che ero una sciocca sognatrice. Che lui non si era addestrato e non aveva sofferto per anni in prigione per mollare tutto nel momento più critico. Lui doveva difendere il popolo: la rivoluzione non aveva ancora trionfato, c'era molta strada da fare.
Gli feci notare che il nuovo governo era stato scelto dal popolo, e lui avrebbe dovuto rispettare quella scelta anche se non la condivideva, ma Hamid era convinto che il voto fosse stato estorto con l'inganno: il popolo era ignorante e sprovveduto ed era caduto in una trappola; lui doveva continuare la lotta.
Non capivo contro chi volesse lottare: lo scià non c'era più e il nuovo regime era repubblicano. Se non gli piaceva, doveva rimboccarsi le maniche, preparare un programma serio e lavorare in previsione delle prossime elezioni, anche candidarsi in prima persona se lo desiderava... Se le sue idee erano giuste la gente lo avrebbe votato.
«Sono sogni! Secondo te me lo permetteranno? E poi quale gente? Sono in maggioranza analfabeti timorati di Dio e lasceranno tutto nelle mani dei religiosi! Dovremo usare la forza: solo dopo aver rovesciato il governo potremo far capire al popolo che lo abbiamo fatto per difendere i suoi diritti, e allora la gente starà dalla nostra parte.»
«E quelli che non si metteranno dalla vostra parte? Quelli che la pensano diversamente e hanno altri ideali? Attualmente c'è un'infinità di gruppi in questo paese che dichiara di essere dalla parte giusta! E forse molti non accetterebbero le tue proposte. Che fine faranno tutti quelli che non stanno dalla vostra parte?»
«Soltanto i traditori e i despoti che vogliono opprimere il popolo saranno contro di noi, e noi avremo il dovere di eliminarli...»
«Lo stesso sistema che usava lo scià: giustiziare gli oppositori. Ma tu non volevi voltare pagina? E adesso ti metti a fare il boia, parlando di amore per il popolo! E sei convinto che staranno seduti a guardare mentre fai scoppiare una nuova rivoluzione e uccidi i tuoi nemici? Sei un illuso, e sarai tu a essere ucciso. Nessuno vuole un nuovo scià!»
Secondo Hamid non potevo capire perché non avevo una cultura rivoluzionaria. Ma io non la volevo proprio la sua «cultura», mi interessava solo proteggere la mia famiglia, cioè, per come la vedeva lui, ero egoista e superficiale.
Eravamo tornati ai vecchi tempi, ma io ero più insofferente e meno disponibile. Avrei continuato da sola per la mia strada. Sapevo per esperienza che non potevo contare su di lui e decisi di tornare al lavoro. Parvin Khanum sarebbe venuta tutte le mattine a casa nostra per occuparsi di Shirin.

37.

Il signor Zargar si stupì del mio ritorno anticipato e mi chiese perché non restavo con la mia bambina fino alla fine del permesso. Temetti che non avesse più bisogno di me, ma non era quello il problema: mi accennò a un cambiamento in atto, alla necessità di coprirmi il capo con il rusari... Non diedi grande importanza alla cosa: avevo passato metà della mia vita con indosso chador e rusari!
Ma poco dopo capii il senso più profondo delle sue parole: l'aria di libertà e di apertura che si respirava all'inizio della rivoluzione si era dissolta. Si viveva di nuovo in un clima di sospetto e alcuni miei colleghi avevano preso le distanze da me, mentre altri mi parlavano di nascosto e mi chiedevano informazioni, come se io fossi stata a capo dei rivoluzionari. Il comitato rivoluzionario nel quale ero stata eletta fu cancellato e ne furono fondati altri. Il più importante era quello della «pulizia», che sembrava avesse in pugno il destino di tutti.
Chiesi spiegazioni al signor Zargar che rise amaramente prima di raccontarmi cosa stava accadendo: persone che conoscevamo da anni erano diventate musulmani provetti in una notte, giravano con il tasbi28 in mano invocando i santi, si erano fatti crescere la barba e volevano eliminare tutti gli altri e sfruttare la situazione a loro vantaggio. Non era più possibile distinguere i veri rivoluzionari da questi sporchi approfittatori, più pericolosi per il paese dei controrivoluzionari stessi. E mi raccomandò di non dimenticarmi di dare a recitare il namaz se non volevo perdere il lavoro. L'intero ufficio era in attesa di vedere come pregavo...
Ogni giorno affiggevano alla bacheca l'elenco di coloro che erano stati licenziati e tutte le mattine ciascuno andava a verificare se c'era il suo nome e se non lo trovava tirava un sospiro di sollievo, pensando che dopotutto quella era un buona giornata.
Il giorno in cui iniziò la guerra con l'Iraq, al rumore dei primi bombardamenti ci precipitammo sul tetto dell'edificio. Nessuno sapeva cosa fosse successo. Alcuni dicevano che i controrivoluzionari avevano attaccato, altri che si trattava di un colpo di stato. Ero preoccupata per i ragazzi e corsi a casa. Da allora anche la guerra entrò a far parte della mia vita. Di notte toglievano la corrente, molti generi mancavano, il gasolio scarseggiava mentre ci avvicinavamo al freddo invernale, e io pensavo alla mia piccolina e mi sentivo sopraffare dalla paura. La sera oscuravo la finestra della stanza dei ragazzi con un pezzo di stoffa nera e accendevo una candela per stare tutti insieme intorno a un po' di luce ad ascoltare terrorizzati i rumori della notte. La presenza di Hamid sarebbe stata un grande sollievo, ma lui come sempre non era accanto a noi nel momento del bisogno. Non sapevo nemmeno dove fosse, ma avevo smesso di preoccuparmene.
La scarsità di gasolio e di benzina rendeva più difficili gli spostamenti. Parvin Khanum faceva gran parte della strada a piedi per venire da noi. Un giorno arrivai in ufficio più tardi del solito e appena entrata mi resi conto che qualcosa non andava. Il custode non rispose al mio saluto. I colleghi che mi incrociavano facevano finta di non vedermi. Quando entrai nel mio ufficio rimasi di sasso. Era tutto sottosopra: i cassetti aperti e vuotati sul pavimento, carte e documenti ovunque. Mi tremavano le ginocchia e il mio stato d'animo passava dalla paura alla rabbia, dall'umiliazione all'angoscia.
La voce del signor Zargar che mi chiedeva di seguirlo nel suo ufficio mi riportò alla realtà. Mi invitò a sedermi e mi porse una lettera. Ero stata licenziata per via dei miei presunti legami con i comunisti: ero accusata di collaborare con gruppi antirivoluzionari e di avere fatto propaganda illecita. Lui sapeva che non era vero, che non c'entravo, ma mio marito...
«Non sono responsabile di ciò che fa Hamid. Ho ripetuto mille volte che non la penso come lui. Non posso essere accusata delle sue colpe!»
«Avete ragione e potete anche inoltrare una protesta, ma dicono che si sono documentati e hanno raccolto numerose testimonianze anche su di voi. Vi accusano di aver portato vostro marito in ufficio a fare propaganda. Io mi ricordo bene come è andata, e sono dalla vostra parte, ma non posso fare nulla, anzi, sono in pensiero sia per voi sia per vostro marito. A proposito, dov'è adesso?»
Gli risposi che non lo sapevo: non avevo sue notizie da più di un mese.
Andai a raccogliere le mie cose. Trattenevo le lacrime per non mostrare la mia disperazione. Abbass Ali, il tuttofare del nostro piano, entrò con un vassoio di tè come se avesse messo piede in un luogo proibito, mi disse sottovoce che era molto dispiaciuto e mi giurò sui suoi figli che nessuno su quel piano mi aveva denunciato, che tutti mi volevano bene ed erano mortificati per l'accaduto. Ma io ero troppo amareggiata per crederci. Avevano mentito e reso false testimonianze su di me persone con cui avevo vissuto ogni giorno per sette anni, mi avevano colpito alle spalle, e adesso non avevano nemmeno il coraggio di guardarmi in faccia.
Presi la borsa e i miei documenti e mi incamminai verso l'uscita. Avevo un senso di nausea.
Camminai senza meta fino a mezzogiorno. La preoccupazione stava prendendo il posto della rabbia e dell'amarezza. Una preoccupazione molteplice: per il futuro, per Hamid e i ragazzi, per la mancanza di soldi e l'inflazione galoppante. Come ce la saremmo cavata senza il mio stipendio? Erano due mesi che la stamperia non aveva lavoro e il padre di Hamid non era riuscito a mettergli insieme uno stipendio. Avevo un'emicrania fortissima e mi trascinai a casa. Parvin Khanum mi guardò sorpresa. «Perché sei tornata cosi presto?
Stamattina sei anche andata in ufficio in ritardo per causa mia, così finirai per farti licenziare...»
«Mi hanno già licenziata! Ma non sentirti in colpa, non è per il ritardo. Non licenziano nessuno per questo, né per inefficienza, incompetenza o ignoranza. No, hanno licenziato me perché sono "impura", perché vogliono fare "pulizia"! E non importa se ho lavorato come un mulo per anni, se conosco il mio lavoro come nessun altro, se ho bisogno di guadagnare per i miei figli...»
Per qualche giorno l'emicrania non mi diede tregua, e riuscivo a dormire solo con le iniezioni di novalgina di Parvin. Hamid era appena tornato da un viaggio nel Kurdistan, ma aveva dormito a casa solo un paio di volte con la scusa che aveva da fare alla stamperia. Non avevo nemmeno avuto il tempo di raccontargli del mio licenziamento. Le notizie erano ogni giorno più inquietanti e avevo sempre più paura... Finché l'incubo si ripeté: una notte fecero di nuovo irruzione in casa nostra. Dai loro discorsi capii che erano stati anche alla stamperia e avevano arrestato Hamid e i suoi compagni. Fui costretta a rivivere il terrore e la rabbia di tanti anni prima, a rivedere quelle mani e quegli occhi estranei frugare in ogni angolo della nostra casa e della nostra vita.
Siamak, ormai sedicenne, non si limitava più a guardarli con odio, ma urlava e li insultava, mentre io lo scongiuravo di stare calmo, di non peggiorare la situazione. Masuud fissava la scena pallido e muto e non riusciva a fare niente per calmare Shirin che piangeva disperata.
La mattina dopo chiamai a casa di Hamid: tutto si stava ripetendo nello stesso, identico modo... ma la sua famiglia sarebbe riuscita a sopportare un altro colpo? Suo padre mi parlò con voce così roca e triste che mi si strinse il cuore: ancora una volta mi disse che avrebbe cercato di avere notizie di Hamid.
La casa era sottosopra ed eravamo tutti nervosi, ciascuno a modo suo: Siamak ruggiva come un leone e tirava calci e pugni alle porte e ai muri, urlando parolacce. Masuud se ne stava rannicchiato dietro il divano, a volte piangeva di nascosto, e voleva rimanere solo. Shirin, che di solito era sorridente e di buonumore, aveva risentito dell'ansia e della tensione di tutti noi e piangeva senza motivo, io ero in balia di pensieri contrastanti e di molte paure. Maledivo Hamid che ci aveva causato solo problemi e disgrazie, poi però mi angosciavo all'idea che potessero ancora torturarlo e mi tormentavo perché non avevo sue notizie... Mi rifugiai in camera mia per dare sfogo alle lacrime. Il riflesso nello specchio era quello di una donna impotente, pallida, terrorizzata. Cosa potevo fare? Se non ci fossero stati i ragazzi sarei fuggita, ma con loro come avrei potuto? Ero il capitano di una nave che stava colando a picco al quale i membri dell'equipaggio avevano affidato la loro vita, ma anch'io avevo bisogno di una scialuppa di salvataggio che mi portasse via dal disastro, il più lontano possibile, e non avevo più la forza di sostenere il peso di quella responsabilità. Sentivo Shirin piangere sempre più forte. Mi alzai, mi asciugai le lacrime con il dorso della mano e uscii dalla stanza: non avevo scelta, quella nave non poteva avere altro capitano all'infuori di me.
Presi il telefono e chiamai Parvin Khanum, le riassunsi i fatti e le chiesi se potevo portarle Shirin che nel frattempo si era calmata tra le braccia di Masuud. Siamak era ancora in preda alla rabbia per quello che ci avevano fatto, ma anche perché eravamo rimasti a guardare senza reagire. Cercai di farlo ragionare. Cosa avremmo potuto fare? Come avremmo potuto opporci? Gli ricordai di quando, da bambino, si innervosiva fino a esplodere, e allora io lo stringevo a me e lui tirava calci e pugni per sfogarsi e poi piangeva e si sentiva meglio... Poteva farlo anche adesso, se lo desiderava. Lo abbracciai. Era più alto di me e sicuramente molto più forte. Poteva liberarsi senza sforzo dal mio abbraccio, ma non lo fece. Appoggiò la testa alla mia spalla e pianse. Poi mi disse: «Beata te, mamma, che sei così calma e forte!».
Shirin si era addormentata in braccio a Masuud. Abbracciai anche lui stretto per fargli coraggio, poi li esortai all'azione. «Allora ragazzi, non possiamo perdere tempo, piangere non aiuterà vostro padre, dobbiamo muoverci. Andremo a casa di Khanum Jun e Shirin resterà da Parvin. Io devo andare da vostro nonno: cercheremo insieme qualche collegamento con papà, forse riusciremo ad avere sue notizie.»
Siamak voleva venire con me, ma gli dissi che doveva prendersi cura dei suoi fratelli. Senza il papà a casa, era lui il maschio più grande, e quindi era responsabile della famiglia. Ma non fu facile convincerlo. Non voleva vivere a casa di Khanum Jun con lo zio Ali e sua moglie, e poi sapeva che a Shirin avrebbe pensato Parvin, mentre Masuud era abbastanza grande da cavarsela da solo. Io però non volevo portarlo con me perché era ancora molto giovane e sensibile e non sapevo in quali situazioni mi sarei trovata. Allora gli dissi che avrebbe potuto aiutare suo padre parlando con Ali e chiedendogli di trovare informazioni su Hamid. Doveva andare anche dalla zia e raccontare tutto ad Agha Sadegh, e poi poteva fermarsi da loro se preferiva. Ma non volevo che parlasse con lo zio Mahmud per il momento: dopo le litigate che avevano fatto, dubitavo che sarebbe stato disposto ad aiutare Hamid.
Pensavo che in un paio di giorni molte cose si sarebbero chiarite, ma non fu così, anzi la situazione si fece più intricata e complessa, e le visite ad amici e conoscenti fatte con il padre di Hamid non portarono a nulla. Del resto, chi aveva un ruolo importante era già fuggito dal paese, altri erano disoccupati o addirittura fuggiaschi. La situazione era cambiata, non conoscevamo più nessuno che potesse aiutarci...
Cominciammo a indagare per conto nostro: andammo in tutti i commissariati, ma nessuno si assumeva la responsabilità di darci informazioni; dicevano di non sapere niente e che dovevamo parlare direttamente con il comiteh, la polizia religiosa.
Dopo due giorni di vane ricerche, mi incamminai verso casa di Khanum Jun e vi trovai i ragazzi e Fati, tutti preoccupati e in attesa. Siamak era in collera con me perché non gli avevo dato notizie. Ammisi che purtroppo non ne avevo ancora. Poi chiesi ad Ali se lui e Mahmud che avevano tante conoscenze nel comiteh non potevano cercare di scoprire dove avessero portato Hamid. Capii che Mahmud non voleva nemmeno sentir parlare di Hamid, e Ali non voleva compromettersi con un «comunista», però mi disse che avrebbe fatto qualche indagine «indiretta».
Ero stanca e delusa e avrei voluto rispondergli a tono, ma mi controllai: avevo bisogno del loro aiuto. Fati mi disse che il marito avrebbe cercato di informarsi e mi chiese di restare con loro. Tanto per il momento non potevo fare di più. Ma io non avevo ancora riordinato la nostra casa dopo la perquisizione e i ragazzi dovevano tornare a scuola. Non potevo restare. E nemmeno lasciare Shirin a Fati, anche se si era offerta di tenerla. Firuzeh, la sua bimba di cinque anni, era dolce e adorava Shirin, ci giocava come se fosse una bambola, ma Fati era incinta del secondo figlio e non volevo darle un altro peso. Chiesi aiuto come sempre a Parvin che ne fu molto felice perché anche lei adorava la mia bambina. Sarebbe stata con noi una settimana.
Riordinare la casa fu più faticoso della volta precedente. Allora il mio Agha Jun aveva mandato delle persone a darmi una mano, mentre adesso ero sola e senza il sostegno di nessuno. Mio padre mi mancava, sentivo di avere ancora bisogno di lui. Masuud venne subito a consolarmi: c'erano loro ad aiutarmi, non dovevo essere triste. Era vero, finché avevo i miei figli niente mi avrebbe abbattuta.
Questa volta avevano risparmiato la casa di Bibi e la cantina, che erano praticamente vuote, quindi ci concentrammo sul piano di sopra e in una giornata la casa riacquistò un aspetto decente. I ragazzi sarebbero tornati a scuola il giorno dopo: dovevano fare i compiti arretrati e prepararsi. Siamak era nervoso, non aveva voglia di fare niente. Lo capivo, ma le mie forze si stavano esaurendo. Dovevano saperlo.
«Lo vedete ragazzi quante cose ho da fare e quante cui pensare? Non posso farcela se non mi aiutate, se non collaborate, se aggiungete altre preoccupazioni ai tanti problemi che abbiamo! E l'aiuto più grande che possiate darmi è fare il vostro dovere diligentemente, in modo che non debba preoccuparmi anche di quello. Mi promettete di darmi questo aiuto?»
Entrambi promisero: Masuud con entusiasmo, Siamak con il broncio...
Il sabato seguente girai ancora a caccia di notizie. Adesso cercavo di farlo da sola, perché il padre di Hamid era di colpo invecchiato di anni e mi faceva una gran pena. Ma ogni volta tornavo senza risposte. L'unica possibilità che mi era rimasta era andare da Mahmud. Parlargli al telefono sarebbe stato più facile, ma tutti i membri della sua famiglia mi rispondevano che non era in casa. Dovevo bussare alla sua porta... Ehteramsadat fece gli onori di casa freddamente. Gholam Ali invece mi salutò con calore, ma poi si ricordò che non doveva farlo e se ne andò imbronciato. Ehteramsadat mi disse che Mahmud non era in casa, ma io lo avevo visto rientrare, perciò le chiesi con decisione di andarlo a chiamare: sapevo che c'era e dovevo parlargli di una cosa importante. I suoi occhi si ridussero a due fessure. Avvolse il chador intorno al corpo rotondo e uscì dalla stanza brontolando. Non ce l'avevo con lei. Sapevo che stava eseguendo gli ordini di Mahmud. Dopo due minuti tornò a dirmi che mio fratello stava pregando; risposi che lo avrei aspettato, avevo tempo.
Mahmud entrò nella stanza chiaramente infastidito e farfugliò qualcosa in risposta al mio saluto. Odiavo essere lì, ma era la mia unica speranza. Lo pregai. «Mahmud, sei il mio fratello maggiore, e a parte te non ho nessun altro. Agha Jun mi ha affidata a te perché mi dessi un sostegno, ti prego, non rendere orfani i miei figli, ti scongiuro, aiutami!»
Rispose che lui non ne sapeva niente, non decideva niente... Continuai imperterrita. «Lo zio di Ehteramsadat è una figura importante nel comiteh e nei tribunali. Concedimi un'occasione per vederlo e parlargli. Mi basta sapere dove si trova Hamid e come sta. Ti prego, portami da lui!»
«Non posso farlo: dovrei dire che quel senza Dio è mio parente, danneggerei la nostra reputazione...»
«Non c'è bisogno che gli parli tu, lo farò io, e non pretendo che lo liberino, mi basta che non lo torturino e non lo condannino a morte...» Scoppiai a piangere.
Mahmud scuoteva la testa con uno sguardo trionfante. Finalmente capivo da che parte stava il giusto. Adesso che ero in disgrazia mi ricordavo di loro e dell'esistenza di Dio. Persi la pazienza.
«Finiscila fratello, quando mai ho detto che non esiste Dio? Io non ho mai smesso di pregare. Ma ti ricordo che quando ti faceva comodo stavi con noi, e ti vantavi di avere un cognato rivoluzionario in prigione. A me non importa niente delle idee politiche di mio marito: è il padre dei miei figli e non meritiamo di non sapere nemmeno dov'è e come sta. Hai il dovere di aiutarlo!»
«Non lo farò sorella. Tuo marito si è ribellato a Dio e al profeta, è un traditore miscredente, e deve essere punito. Pensi che possano lasciarlo libero di commettere qualsiasi nefandezza? Di rovinare il paese e rinnegare la religione? E poi, parliamoci chiaro, se il governo fosse stato in mano sua ci avrebbe lasciati vivi? No, e tu lo sai bene. Hai sbagliato a venire da me. Tuo marito merita di essere giustiziato e io, che mi sono sacrificato per l'Islam e non ho mai mischiato il bene con il male, il lecito con l'illecito, non andrò da Haj Agha a difendere un criminale e a spingere un uomo puro al peccato. E lui non sarebbe comunque disposto a sporcarsi le mani e a liberare un nemico di Dio solo perché gli viene chiesto, e anche se tutto il mondo lo implorasse continuerebbe per la sua strada, quella che ritiene giusta. Credi di essere ancora ai tempi dello scià, quando potevi far uscire tuo marito di prigione con una raccomandazione? No cara, adesso ci sono la giustizia e la religione al comando, nessuno lo perdonerà!»
Sentivo montare una rabbia irrefrenabile. Mi chiesi perché fossi andata lì, perché avessi chiesto aiuto a quell'opportunista senza cuore. Rimasi in piedi a fissarlo con odio per qualche istante prima di avvolgermi nel chador e gridargli: «Dio è triste di averti creato!». Poi uscii correndo da quella casa.

38.

Dopo due settimane venimmo a sapere che Hamid si trovava nel carcere di Evin. Tutti i giorni, accompagnata da mio suocero o da sola, mi mettevo il chador e andavo a cercare qualcuno che potesse darci informazioni su di lui. Sapevo che sarebbe stato giudicato colpevole: avevano molte prove e non si poteva negare l'evidenza. Ma speravo che almeno fosse vivo. Poco più di un mese dopo il suo arresto, alla nostra ennesima vana visita al carcere, ci portarono in una stanza, e io e il padre di Hamid pensammo che ci avessero finalmente concesso di vederlo. Restammo in attesa emozionati e trepidanti. Dopo qualche minuto entrò un funzionario e buttò un pacco sul tavolo, dicendo in tono annoiato: «Queste sono le sue cose».
Lo guardai ammutolita, senza capire. Allora ci chiese infastidito: «Ma non siete i parenti di Hamid Soltani? La sua esecuzione è stata l'altro ieri e queste sono le sue cose».
Mi sentii mancare. Vidi il padre di Hamid bianco come un lenzuolo mentre si portava una mano al petto. Sarei voluta andare verso di lui, ma le mie gambe non si mossero, poi svenni. Tornai in me sentendo la sirena dell'ambulanza e aprii gli occhi. Avevano portato mio suocero in rianimazione, mentre io ero al pronto soccorso. Dovevo avvertire qualcuno e diedi all'infermiera i numeri di Fati e Mansureh che sapevo a memoria. Il padre di Hamid restò in ospedale, mentre io fui dimessa quella sera stessa.
Non riuscivo a guardare in faccia i miei figli, non sapevo come dirglielo. Non avevo la forza né di parlare né di piangere; ancora sotto l'effetto dei tranquillanti sprofondai subito in un sonno profondo. Ci vollero tre giorni perché uscissi da quello stato di confusione e mi riprendessi dallo shock e in quei tre giorni il padre di Hamid perse la lotta con la morte raggiungendo la pace. Riuscii solo a pensare: "Beato lui" e lo invidiai: si era liberato del dolore e di tutti i problemi. Le cerimonie funebri del padre e del figlio furono celebrate insieme e tutti noi potemmo dare libero sfogo alla nostra disperazione. Mi struggevo nel vedere lo sguardo perso, gli occhi gonfi e i corpi dimagriti dei miei ragazzi nelle loro camicie nere. Mi perdevo nei ricordi della vita con Hamid, mi lasciavo cullare dalle immagini dello splendido periodo trascorso allo Shomal... Della mia famiglia soltanto Khanum Jun e Fati parteciparono alle esequie. Fino al settimo giorno rimasi a casa di mio suocero. Non sapevo dove fosse Shirin, ogni tanto chiedevo di lei a Fati e lei mi rispondeva, ma non riuscivo a sentire, e dopo qualche ora rifacevo la stessa domanda.
La madre di Hamid stava male e reagiva continuando a parlare, mentre io ero ammutolita dal dolore e me ne stavo zitta in un angolo tutto il giorno. Ogni tanto stringeva a sé i miei ragazzi ed esclamava: «Hanno lo stesso odore di Hamid!». Piangeva e faceva piangere anche gli altri. Si disperava anche per il marito e diceva: «Se ci fosse stato Agha Mortezah, l'avrei sopportato». Ma poi ringraziava il cielo che non fosse lì ad assistere a tutto quello strazio.
Sapevo che i miei ragazzi stavano soffrendo e che quell'ambiente li avrebbe distrutti. Chiesi a Fati e a suo marito di portarli via di lì. Siamak non aspettava altro che di fuggire da quella casa, ma Masuud si attaccò a me, aveva paura che mi succedesse qualcosa senza di loro... Gli promisi che avrei fatto attenzione a me stessa e che li avrei raggiunti presto. Quando restai sola riuscii finalmente a versare tutte le lacrime che avevo trattenuto in loro presenza, fino a perdere il fiato.
Quando tornai a casa capii che non potevo concedermi il lusso di continuare a disperarmi. I miei problemi quotidiani erano molto più pressanti. I ragazzi erano rimasti indietro con lo studio, gli esami si avvicinavano e soprattutto non avevo nessuna fonte di guadagno. Avevo perso il lavoro, e non potevo più contare sull'aiuto del padre di Hamid... Dovevo trovare una soluzione, e in fretta.
C'erano anche altri pensieri: quella settimana, in casa di mia suocera, avevo sentito parlare dell'eredità. Una volta gli zii di Hamid, senza accorgersi della mia presenza, si erano messi a parlare della casa di Bibi in cui vivevamo noi. Fu lì che venni a sapere che la nostra casa era di loro proprietà oltre che del padre di Hamid, ed essendo morto lui, volevano venderla e dividere il guadagno. Dopo qualche giorno fui testimone anche dei discorsi tra i miei cognati. Il marito di Monir diceva: «Per legge, visto che il figlio è venuto a mancare prima del padre, nulla dell'eredità di Soltani arriverà alla famiglia di Hamid...». Stranamente, nonostante lo stato semivegetativo in cui versavo, il mio cervello riusciva a registrare tutte le parole che riguardavano me e i ragazzi.
Comunque, la sensazione di pericolo per il futuro mi tirò fuori dal lutto prima del dovuto e attutì il dolore per la perdita di Hamid. Di notte restavo sveglia in preda all'ansia. Camminavo avanti e indietro per la casa, pensavo e davo voce ai miei pensieri. Mi sembrava che tutte le porte mi fossero state chiuse in faccia. Senza lavoro, senza Hamid, senza suo padre, senza una casa, senza un'eredità con cui ricominciare, bollata a vita come moglie di un condannato a morte: come avrei potuto far crescere i miei figli e proteggerli? A volte invocavo mio padre e gli chiedevo aiuto...
Durante una di quelle notti in cui giravo come una sonnambula, sobbalzai allo squillare del telefono. Una voce lontana chiese: «Masum sei tu? È vero che Hamid è... morto?».
«Oh Parvaneh, sei tu?» Scoppiai in lacrime. «Dove sei? Da chi l'hai saputo?»
«Allora è vero! L'ho sentito stasera alla radio.»
«Sì, è vero ed è morto anche suo padre, non è riuscito a reggere il colpo e ha avuto un infarto.»
«Ma i tuoi fratelli ti aiutano adesso?»
«Non sono venuti nemmeno al funerale...»
«Per fortuna lavori e non hai bisogno di nessuno!»
«Non più, mi hanno licenziata...»
«Oh mio Dio... e adesso come farai a mantenere due figli?»
«Tre...»
«Tre?! Quando sono diventati tre? È così tanto che non ho più tue notizie?»
«Purtroppo sì, sono passati quasi tre anni, e mia figlia adesso ha un anno e mezzo!»
«La politica ci ha allontanate. Ma ti ricordi come sostenevi la rivoluzione? Ci accusavi di essere dei borghesi e di negare i diritti della gente. Secondo voi eravamo criminali da eliminare... ed ecco il risultato: sei contenta adesso? Be', comunque se hai bisogno di soldi o di aiuto chiedi pure a me...»
Le sue parole mi diedero una grande tristezza e non riuscii a rispondere. Anche la mia migliore amica di un tempo mi biasimava. Rimase anche lei in silenzio per qualche secondo, poi aggiunse: «Ti chiedo scusa Masum, perdonami, non volevo accusarti. Soffro davvero per te. Ero felice che avessi raggiunto quello che volevi, che avessi finalmente la vita che meritavi, non pensavo che le cose sarebbero finite così! Sai che ti voglio bene come a una sorella. Se non ci soccorressimo a vicenda in situazioni del genere, chi lo farebbe? Ti prego, se hai bisogno di qualcosa non esitare a dirmelo».
«Grazie, lo farò. Già il fatto che tu mi abbia chiamata mi è di grandissimo aiuto, perché mi dà coraggio e forza d'animo, le cose di cui ho più bisogno in questo momento. Non tagliare mai più i ponti con me, ti prego!»
Pensai a diverse possibilità di lavoro. La più concreta era il taglio e cucito, che avevo sempre odiato: doveva proprio essere il mio destino! Parvin Khanum mi promise che mi avrebbe aiutata e cominciai subito, ma anche il suo lavoro era incerto: aveva perso quasi tutte le clienti. Sapevo che nessun ufficio statale aveva il permesso di assumermi per il mio «passato». Le grandi imprese private avevano commissioni di selezione e io non avevo le caratteristiche adeguate. Feci qualche colloquio in piccole aziende private poco importanti, ma fu inutile. Il mercato del lavoro era a terra. Pensai di preparare i sottaceti e venderli ai negozi, o di offrirmi per cucinare dolci, torte e piatti semplici, ma come? Non avevo esperienza e non sapevo nemmeno da che parte cominciare.

39.

Un giorno mi telefonò il signor Zargar. La sua voce era più impacciata del solito. Mi chiese come stavo; sembrava gli fosse giunta da poco la notizia dell'uccisione di Hamid. Mi fece le condoglianze e mi chiese il permesso di venire con i ragazzi dell'ufficio a casa nostra. Il giorno dopo si presentò da noi con cinque colleghi. Vederli rinnovò il mio dolore e non riuscii a trattenere le lacrime. Le donne piansero con me, mentre il signor Zargar era visibilmente commosso: si mordeva il labbro inferiore e cercava di non incrociare i nostri sguardi.
Mi raccontò che aveva saputo di Hamid dal signor Shirazi, che aveva telefonato dall'America per farmi le condoglianze. Era tornato ringiovanito ed entusiasta dopo la vittoria della rivoluzione, ma quando aveva visto i cambiamenti era subito ripartito.
«E di voi cosa mi dite?»
«Forse mi licenzieranno...»
La signora Molavi intervenne: «Non hai saputo che hanno aperto un'inchiesta sul signor Zargar?».
«Inchiesta? Non ditemi che avete fatto qualcosa...»
«Sì, la stessa cosa che avevate fatto voi... e poi non sapete che il signor Zargar è un borghese dalla testa ai piedi?» rispose il signor Mohammadi, e risero tutti.
«Ce l'hanno con me perché mio zio era avvocato e io mi sono laureato all'estero. E poi mia moglie è straniera. Vi ricordate di Alahi? Non mi ha mai sopportato e così cerca di approfittare dell'occasione per liberarsi di me, ma non è detto che ci riesca... Diteci di voi adesso: cosa state facendo?»
«Sto disperatamente cercando un lavoro, ma non trovo niente, e non ho più neanche un soldo...»
La sera il signor Zargar mi chiamò di nuovo: «Non volevo dirlo davanti agli altri, ma se avete bisogno di lavoro, forse posso fare qualcosa. Abbiamo qualche articolo e un libro da correggere e battere a macchina, basta recuperare una macchina per scrivere: il guadagno non è altissimo, ma non è nemmeno male e potrebbe aiutarvi finché troverete un lavoro fisso, inshallah».
«Siete il mio angelo custode, pronto a salvarmi nel momento del bisogno! Ma come posso collaborare con quell'ufficio? Se si venisse a sapere, sarebbe un gran guaio per voi.»
«Non c'è bisogno che lo vengano a sapere, faremo il contratto con un altro nome e io vi porterò il lavoro, così non vi vedono in ufficio... Potete iniziare domani stesso.»
Non sapevo come ringraziarlo. Ma dove avrei trovato una macchina per scrivere? Quella che mi aveva dato il padre di Hamid anni prima per esercitarmi era davvero vecchia. Proprio quel giorno mi chiamò Mansureh per sentire come stavo. Era la sorella più buona e intelligente di Hamid. Le posi la questione e mi rispose che avrebbe chiesto a Bahman: forse ne avevano una in azienda che non usavano e potevano prestarmi. Mi sentii improvvisamente più leggera e pensai: "Sia lode a Dio, oggi è una buona giornata!".
Dal giorno dopo cominciai a battere a macchina, correggere bozze e fare qualche lavoretto sartoriale in casa. Parvin Khanum mi aiutava e mi sosteneva, veniva da me quasi tutti i giorni, si occupava di Shirin e cucivamo insieme. E quando faceva i conti, sapevo che mi dava più denaro di quanto avessi guadagnato. Era ancora piacente e non riuscivo a credere che non avesse trovato un altro uomo dopo Ahmad, ma quando parlava di lui i suoi occhi si riempivano ancora di lacrime. Ormai i giudizi degli altri su Parvin mi lasciavano indifferente. Dal mio punto di vista, era una donna onesta e coraggiosa, ed era corsa in mio aiuto molte più volte dei miei stessi familiari, che tanto si vantavano di aiutare gli altri. Era umana e generosa, pronta a sacrificare sé stessa e il suo profitto. Anche Fati faceva per me tutto quello che era in suo potere, ma lei stessa con due bambini piccoli e il guadagno modesto del marito aveva molte preoccupazioni. Le uniche persone intorno a me che stavano bene e si arricchivano giorno dopo giorno erano Mahmud e Ali, anche grazie al negozio di Agha Jun che era diventato di Khanum Jun. Nostra madre era via via più vecchia e stanca e immersa nei suoi pensieri. La vedevo raramente, sempre cercando di non incontrare i miei fratelli. Non partecipavo più a nessuna cerimonia familiare, finché un giorno mi chiamò felice per darmi la notizia della gravidanza della moglie di Ali, che dopo anni di attesa era riuscita a rimanere incinta, e mi invitò per il soffreh di Hazrat Abbass.
«Fatele gli auguri anche da parte mia, sapete che non verrò.»
«Non dirlo, devi venire assolutamente, lo sai che porta male voltare le spalle al soffreh... Vuoi forse che ti capitino altre disgrazie?»
«No, mamma, ma non voglio vedere quei traditori dei miei fratelli.»
«Ti prego sui bambini di non parlare così, sono sempre i tuoi fratelli, e poi il povero Ali che colpe ha? Ti posso garantire che fece il possibile per trovare notizie di Hamid. Almeno vieni per me. Sai quanto tempo è che non ti vedo? Non credi che anche la tua vecchia madre potrebbe andarsene da un giorno all'altro? Non passi a trovarmi nemmeno quando vai a casa di Parvin Khanum!» e cominciò a piangere finché non mi convinse.
Al soffreh piansi e chiesi a Dio di darmi la forza fisica e psicologica per sostenere il peso della mia vita. Lo pregai per il futuro dei miei figli. Fati e Parvin Khanum piangevano insieme a me. Ehteramsadat, piena d'oro e gioielli, mi voltava le spalle. Khanum Jun continuava a recitare preghiere con il tasbi. La moglie di Ali stava seduta a testa alta accanto alla madre, non si muoveva di un millimetro per timore di abortire e si faceva portare cibo in continuazione... Dopo che le ospiti se ne furono andate ci occupammo di riordinare, finché non tornò Agha Sadegh, che aveva portato in giro i ragazzi. Khanum Jun baciò la testa ai nipoti, li fece sedere in cortile e gli portò della zuppa. In quel mentre fece il suo ingresso anche Mahmud. Ehteramsadat, grassa come una palla, si precipitò in cortile, ma mia madre non permise loro di andarsene. Versò della zuppa per Mahmud e gli parlò sottovoce, chiaramente di me. Avevo il cuore così spezzato che non volevo far pace con nessuno, anche se sapevo che prima o poi avrei avuto bisogno degli aiuti finanziari di Mahmud. E non volevo che i ragazzi venissero a conoscenza di certi discorsi. Chiamai Siamak e gli dissi di aspettarmi in macchina con Masuud e Shirin. Khanum Jun protestò e io replicai che avevo un sacco di lavoro da sbrigare a casa. Ma Siamak voleva andare a vedere l'auto nuova dello zio Mahmud e corse fuori con il fratello e il cugino, lasciando Shirin a me...
Khanum Jun aveva pianificato alla perfezione il trattato di pace, e sembrava che anche Mahmud fosse ben disposto. A voce alta disse: «Se non si comportano da criminali e non complottano, io non ho niente contro di loro, farò finta di non aver sentito tutto quello che ci ha detto, anzi lo dimenticherò, un musulmano deve anche saper perdonare...».
Mi stavo innervosendo, ma conoscevo Mahmud, e capii che le sue parole potevano anche essere interpretate come scuse a modo suo. Khanum Jun mi chiamò per parlarmi e uscii con in braccio Shirin. L'aria di metà Esfand era mite e gradevole. Mia madre non aveva ancora finito di invitarmi alla trattativa con mio fratello, quando giunsero le urla e gli schiamazzi dei ragazzi dalla strada. Gholam Hossein, il figlio piccolo di Mahmud, si precipitò in cortile con il fiatone e gridò che Siamak e Gholam Ali stavano litigando, poi si rivolse a Mahmud: «Corri papà, Siamak sta uccidendo Gholam Ali!».
Ali, Mahmud e Agha Sadegh si precipitarono fuori. Io misi la bambina a sedere per terra, mi gettai in testa il chador e corsi dietro di loro. Mi feci strada a forza in mezzo alla folla di bambini. Ali aveva spinto contro il muro Siamak e lo insultava e Mahmud lo stava prendendo a sberle. Sapevo quanto fosse pesante la mano di Mahmud e non ci vidi più dalla rabbia. Mi avventai su di lui urlando: «Lascialo subito!». Il chador mi scivolò a terra mentre facevo da scudo a mio figlio. Tirai un pugno a Mahmud sulla spalla. Avrei voluto farlo a pezzi: era la seconda volta che si comportava in quel modo con i miei figli. Agha Sadegh si mise in mezzo per calmare le acque, ma io rimasi con i pugni serrati davanti a Siamak. Poi mi ricordai di Gholam Ali che stava seduto a un angolo della strada e piangeva. La madre gli massaggiava la schiena e bisbigliava parolacce e maledizioni. Mi gridò: «Lasciateci in pace tu e quel selvaggio di tuo figlio!». Siamak aveva buttato a terra il cugino che aveva battuto sul bordo del marciapiede. Mahmud avvicinò il viso contratto dalla rabbia al mio e con cattiveria mi disse: «Impiccheranno anche tuo figlio, vedrai. È della stessa pasta del padre e farà la stessa fine, ma al momento dell'impiccagione non potrai difenderlo tirando pugni...».
Spinsi i ragazzi nella mia vecchia macchina e per tutto il tragitto insultai e maledissi Khanum Jun, Ali e Mahmud, e mi lamentai a gran voce della mia sfortuna, della vita disgraziata che avevo, asciugandomi le lacrime mentre guidavo. A casa cominciai a camminare per le stanze come una leonessa in gabbia, mentre i ragazzi mi guardavano con occhi terrorizzati. Quando mi fui calmata mi girai verso Siamak e lo rimproverai aspramente: «Non ti vergogni? Fino a quando attaccherai gli altri come un cane rabbioso? Hai compiuto sedici anni il mese scorso: quando ti deciderai a crescere? E se si fosse fatto male seriamente? Se avesse sbattuto la testa e fosse morto? Saresti rimasto a marcire per tutta la vita in una prigione e molto probabilmente avrebbero finito per giustiziare anche te!». Scoppiai a piangere.
«Mamma, mi dispiace, ho sbagliato, ti giuro su Dio che non volevo scatenare una rissa! Ma non hai idea di quello che dicevano... prima si sono vantati della loro macchina nuova e hanno preso in giro la nostra ridendo, poi hanno detto che saremmo diventati ancora più poveri e sfortunati perché non siamo musulmani, quindi siamo senza Dio. All'inizio ho fatto finta di niente, non è vero Masuud? Ma non la volevano smettere, hanno cominciato a parlare male di papà, poi hanno mimato la sua impiccagione. Gholam Hossein ha tirato fuori la lingua con la testa piegata mentre gli altri ridevano e ha detto che non l'avevano seppellito nel cimitero dei musulmani, ma dato in pasto ai cani perché era nages. Allora non sono più riuscito a controllarmi, gli ho mollato due ceffoni in faccia e ho spinto Gholam Ali che era intervenuto in sua difesa. È caduto e ha colpito con la schiena il bordo del marciapiede. Come sarei potuto starmene lì buono e permettergli di dire qualunque cosa?» Lo guardai per un po'. Desideravo anch'io mollare due ceffoni a Gholam Hossein e il pensiero mi fece ridere. Ridemmo tutti. Masuud cominciò a imitarmi, saltò al centro della stanza e disse: «Mamma è balzata in mezzo alla strada con il suo chador per difenderci e sembrava Zorro! Piccolina com'è si fiondata di fronte allo zio Mahmud con i pugni chiusi come Mohammad Ali e ha spaventato tutti!». Imitò così bene la scena che io e Siamak ci buttammo a terra dalle risate: per fortuna non avevamo ancora dimenticato come si rideva!

Capodanno era vicino, ma io non avevo voglia di far nulla. Ero soltanto felice che quell'anno maledetto stesse giungendo al termine. In risposta a Parvaneh scrissi: «Non sai che anno ho passato, ogni giorno una disgrazia. Come direbbe il signor Shirazi: «"Trecentosessantacinque volte mi hanno messa in vendita; trecentosessantacinque volte mi hanno fatta vivere e poi mi hanno di nuovo giustiziata..."».
Parvin Khanum insistette perché cucissi dei vestiti nuovi ai ragazzi. Ma per il nostro modesto Eid non pulii la casa e non provai alcuna gioia. La madre di Hamid insistette perché per l'anno nuovo andassimo da lei: era il primo dopo la morte di Hamid e del padre e tutti i parenti si sarebbero riuniti a casa sua. Ma io non avevo voglia di vedere nessuno.
Capii che era scoccato l'anno nuovo sentendo i festeggiamenti dei vicini. Il posto vuoto di Hamid era una spina nel cuore. Avevo passato diciassette capodanni insieme con lui, e anche se spesso era mancato avevo comunque sentito la sua presenza e la sua protezione, mentre adesso ero del tutto sola e vulnerabile. Masuud stringeva fra le mani la foto del padre. Siamak si era chiuso in camera e non usciva. Shirin era disorientata. Chiusi la porta della mia stanza e piansi.
Quando arrivarono Fati, Agha Sadegh e le bambine con i vestiti nuovi facendo gran chiasso, mia sorella rimase di sasso vedendo che a casa nostra non c'era alcun segno di festa. Mi raggiunse in cucina e mi disse: «Sorella, questo non è da te... anche solo per i ragazzi avresti dovuto preparare qualcosa... Quando mi hai detto che non saresti andata a casa della madre di Hamid ho tirato un sospiro di sollievo, perché ero sicura che lì l'Eid si sarebbe trasformato in una cerimonia funebre, ma vedo che qui non è diverso... Devi farti coraggio: alzati, vestiti, e pensa che l'anno è finito, inshallah, e l'anno nuovo sarà sicuramente migliore e vi ripagherà di tutte le sofferenze».
Sospirando risposi: «Ormai non ci credo più...».

40.

Dopo Noruz si riparlò di vendere la casa. La madre e Mansureh protestarono, ma gli zii erano decisi. Il mercato immobiliare era stato in crisi durante la rivoluzione e la guerra, molti avevano perso la casa, e i prezzi erano precipitati. Adesso la situazione era migliorata, così gli zii di Hamid volevano prendere al volo l'occasione per paura di una nuova crisi. Quando mi fu comunicato ufficialmente dissi che fino alla fine degli esami dei ragazzi non mi sarei mossa, poi avrei cercato una soluzione, ma quale? Guadagnavo a malapena per mangiare, come avrei potuto permettermi un affitto? Anche la madre e le sorelle di Hamid erano preoccupate, e mi proposero di andare a vivere con mia suocera, ma sapevo che non avrebbe sopportato più di qualche ora gli schiamazzi dei ragazzi, e io non volevo che i miei figli fossero a disagio in casa loro. Alla fine, lo zio di Hamid propose di ristrutturare le due stanze e il garage dall'altra parte del cortile: avremmo potuto vivere lì e quella sarebbe stata la nostra parte di eredità. In quel modo sia la madre di Hamid sia noi avremmo avuto la nostra libertà e nello stesso tempo non saremmo stati soli, e le ragazze sarebbero state più tranquille per la madre sapendo che io vivevo vicina. Tenendo conto del fatto che io e i ragazzi non avevamo nessun diritto all'eredità del padre di Hamid, quel favore mi rese riconoscente e felice.
Con gli esami di fine anno dei ragazzi finì anche la ristrutturazione della casa, ma il comportamento sospetto di Siamak stava risvegliando in me le preoccupazioni del passato, e non mi lasciava tempo per pensare al trasloco. Il pomeriggio aveva cominciato a rientrare a casa più tardi del solito; scatenava discussioni, partecipava a dibattiti politici, leggeva i giornali e ascoltava i notiziari in televisione con crescente attenzione, manifestando simpatia per alcuni gruppi. Ma io non sopportavo più di sentir parlare di fazioni e partiti. Cercai di chiudere le porte alle notizie per proteggere i miei figli, ma così alimentavo la loro curiosità. Durante la cerimonia funebre per Hamid e il padre, avevo conosciuto i nuovi amici di Siamak, che erano venuti ad aiutarci. Sembravano bravi ragazzi, ma il loro continuo bisbigliare in segreto non mi piaceva... Le loro visite a casa nostra si fecero sempre più frequenti. Sebbene avessi sempre voluto che Siamak coltivasse le amicizie e uscisse dal proprio guscio, non avevo un buon presentimento riguardo a quei rapporti. Siamak era diventato un forte sostenitore dei mujahidin. Esprimeva il suo sostegno in ogni occasione e portava a casa i loro volantini, facendomi infuriare. Le nostre discussioni di politica finivano sempre per farci litigare e lo allontanavano da me. Un giorno decisi di affrontarlo, sforzandomi di controllare il mio stato d'animo, e mi sedetti accanto a lui. Gli parlai di suo padre e di ciò che avevamo dovuto subire a causa delle sue attività politiche, delle torture che avevano inflitto a lui e ai suoi amici, delle difficoltà e dell'amarezza delle loro vite, della morte di molti di loro; poi gli chiesi di promettermi che non sarebbe entrato in nessun gruppo o partito...
Siamak, serio e con una voce che si era fatta ormai da uomo, mi rispose: «Ma cosa stai dicendo mamma? Come puoi chiedermi questo? Sono tutti in politica, non c'è nessuno nella mia classe che non faccia parte di qualche gruppo, e la maggior parte dei miei compagni fa parte dei mujahidin, e sono davvero dei bravi ragazzi! Pregano Dio e in più protestano per la libertà e i diritti del popolo».
«Quindi sarebbero una via di mezzo tra tuo padre e tuo zio? Allora stanno commettendo il doppio degli errori!»
«No, sono molto diversi da loro. E poi sono ottimi amici, mi guardano le spalle, e se non stessi dalla loro parte rimarrei solo. Non capisci?»
«Capisco che... non puoi vivere senza essere legato a qualcosa o a qualcuno!»
Si mise sulla difensiva e si imbronciò. Avevo sbagliato tattica e avevo perso il controllo. Abbassai la voce e lasciai che le lacrime mi rigassero il viso. Gli chiesi scusa, gli dissi che non avevo alcuna intenzione di ferirlo, ma non sopportavo il pensiero di avere ancora problemi a causa della politica. Lo supplicai di farsi da parte. Ottenni la promessa che non si sarebbe legato ufficialmente a nessun gruppo, ma non poteva evitare di essere almeno un sampot, un simpatizzante.
Non riuscivo a controllarlo da sola. Chiesi ad Agha Sadegh, con cui era molto in confidenza, di tenerlo d'occhio e di parlargli. La situazione peggiorava di giorno in giorno. Venni a sapere che vendeva giornali all'angolo della strada. Era calato nei voti e passò per un pelo gli esami finali. Agha Sadegh mi disse di stare attenta. Avevano in mente una grande manifestazione e avevano già ricevuto le direttive da seguire. Quel giorno tenni Siamak sotto stretta sorveglianza e mandai Masuud a fare la spesa per non farlo uscire. Si mise a innaffiare le piante tenendo d'occhio la mia finestra, e io mi facevo vedere impegnata, ma da dietro la tenda di bambù lo controllavo a mia volta. Cercò di uscire di nascosto, ma arrivai alla porta prima di lui. Mi affrontò con rabbia. «Smettila, voglio uscire! Perché mi tratti come se fossi un bambino? Mi hai stufato, lasciami in pace!» Mi afferrò il braccio per tirarmi via dalla porta.
«Dovrai passare sul mio cadavere se vorrai uscire!»
Cercò di spostarmi: era molto più forte di me, ma Masuud venne in mio aiuto e Siamak lo aggredì con la rabbia che non poteva riversare su di me. Gli tirò calci e pugni mentre lo insultava e gli intimava di non impicciarsi.
Cominciai a piangere. Pensavo che come figlio maggiore sarebbe stato il mio sostegno, avrebbe preso il posto del padre per me, ma mi rendevo conto che preferiva un branco di sconosciuti alla sua famiglia.
«Perché non posso uscire?»
«Perché ti amo, perché non voglio perderti come ho perso tuo padre!»
«Perché allora non hai ostacolato l'attività di papà, che era un comunista?»
«Ci ho provato, ho fatto di tutto per fermarlo, ma non ci sono riuscita. Tu però sei mio figlio e devi rispettare la mia autorità.»
Gli si riempirono gli occhi di lacrime, mi guardò per un attimo con rabbia e rientrò in casa. Dopo un quarto d'ora dissi a Shirin di andare a dargli un bacio per rallegrarlo, ma Siamak la scacciò in malo modo.
Cercai di parlargli di nuovo. «Figlio mio, comprendo benissimo come sia sublime fare parte di un gruppo, pensare ad atti eroici, avere sogni belli e puliti per la liberazione della gente e dell'umanità... Ma tu hai idea di quello che c'è dietro e di come andrà a finire? Cosa pensi di riuscire a cambiare andando al macello? Ci sarà sempre qualcuno che si insedierà al potere dopo aver ucciso gli oppositori.»
«No, tu non capisci, tu non conosci il mio gruppo. Loro non sono così, loro vogliono l'equità nella società.»
«Tesoro mio, anche gli altri affermavano la stessa cosa! Hai mai visto qualcuno che dichiari che il suo scopo è prendere il potere? Il problema è che tutti questi gruppi pensano che la giustizia possa esistere solo con loro al governo, e non esitano a liberarsi di oppositori e dissidenti.»
«Ma mamma, hai letto almeno un loro libro? Hai mai sentito un loro comizio?»
«No, mi fido del tuo giudizio... però vorrei che sapessi anche cosa dicono gli altri: hai letto i loro libri e sei stato ai loro comizi?»
«No, non è necessario, so di cosa parlano.»
«Non puoi saperlo con certezza se non verifichi di persona. Come puoi dire di aver trovato la strada giusta per cui sacrificheresti la tua stessa vita se non l'hai nemmeno confrontata con le altre? Forse altri gruppi si pongono obiettivi più giusti... Quante ideologie puoi dire di conoscere a fondo? Per esempio, hai mai letto i libri di papà?»
«No, la sua non era la strada giusta, i suoi compagni erano senza religione, forse contro Dio stesso!»
«Però anche lui affermava di lottare per la salvezza del popolo e per la giustizia. E aveva scelto quella strada dopo aver cercato a lungo e letto molti libri. E adesso tu che sei suo figlio e che non hai neanche un decimo della sua cultura dici che ha sacrificato la sua vita per una causa sbagliata... Può darsi che tu abbia ragione, e anch'io la penso così, ma se fosse vero significherebbe anche che tutta la sua esperienza e la sua cultura non lo hanno aiutato... Come puoi essere certo di non sbagliare tu che non conosci ancora bene la politica, se lui stesso si è lasciato manovrare? Pensaci, figlio mio: la vita è la cosa più preziosa che hai, non puoi metterla a repentaglio senza assolute certezze, e non potresti più tornare sui tuoi passi se lo facessi.»
Per fortuna, quel giorno ero riuscita a fermare Siamak. Nel pomeriggio arrivarono infatti le prime notizie di morti e arresti, la situazione si faceva più critica di ora in ora e molti amici di Siamak fecero quella fine. I capi del gruppo erano spariti, probabilmente in fuga, mentre i giovani morivano... Tutti i giorni veniva letta in televisione la lista dei nomi e l'età dei giustiziati. Io e mio figlio ascoltavamo inorriditi l'interminabile elenco delle vittime di quella carneficina. Quando sentivamo un nome familiare, Siamak ruggiva come un leone in gabbia. Pensavo ai genitori di quei ragazzi, ed egoisticamente ringraziavo Dio per essere riuscita a impedire a Siamak di unirsi a loro.
La gente aveva un comportamento strano: alcuni non osavano fare commenti, altri erano indifferenti, altri ancora erano contenti della situazione. Quel popolo fino a poco tempo prima unito e compatto era adesso profondamente diviso. Un giorno incontrai uno dei miei vecchi colleghi che era diventato un affermato uomo politico. Mi chiese come stavo perché mi vedeva giù. E io di rimando mi stupii che non fosse preoccupato per la situazione, ma lui mi rispose che secondo lui le cose andavano esattamente come era giusto che andassero. Allora ringraziai dentro di me il signor Shirazi, che con le sue poesie mi aveva dato le migliori risposte.
Traslocammo agli inizi dell'estate. Lasciare quella casa con diciassette anni di ricordi alle spalle non fu facile. Ogni suo mattone aveva un significato per me e ravvivava un ricordo nella mia mente. Ricordi che, per quanto amari, sembravano più belli con il passare del tempo. Chiamavamo ancora il salotto «stanza di Shahrzad» e i locali al piano sotto «casa di Bibi». Ogni angolo di quella casa odorava di Hamid, e continuavo a trovare cose sue negli angoli più improbabili. Avevo passato i migliori giorni della mia vita tra quelle quattro mura. Ma dovevo cercare di essere fredda e razionale. Decisi di vendere alcuni oggetti, regalarne altri e buttare via quelli inservibili. Fati mi consigliò di tenere le cose migliori, come i divani che avevo comprato all'inizio della rivoluzione, quando speravo ancora in una tranquilla vita familiare, perché forse avrei trovato una casa più grande in seguito. Ma adesso non mi servivano più e non avevo posto per tenerli. Dubitavo che avrei potuto permettermi un'abitazione più grande e di certo non avrei dato ricevimenti nella nuova casa. Perciò decisi di tenere solo le cose essenziali, dimenticando i sentimentalismi...
La nostra nuova casa era costituita da due stanze comunicanti e un ex garage che ora fungeva da cucina e soggiorno. Il bagno e la doccia erano esterni alla casa. In una delle due stanze dormivano Siamak e Masuud e nell'altra ci sistemammo Shirin e io. Riuscimmo a fare stare i letti, le scrivanie dei ragazzi e il mio tavolo da lavoro nelle due camere, mentre il televisore, qualche poltroncina e un tavolino trovarono posto in salotto. Tutte e tre le stanze davano sul cortile, che era ampio e aveva due grandi aiuole rettangolari e un hoz rotondo al centro. Dall'altra parte del cortile c'era la casa della madre di Hamid.
Portarono via tutti i mobili e la vecchia abitazione si svuotò. Al momento di lasciarla ne percorsi ancora tutti gli ambienti, passai le mani su tutte le pareti e le salutai: erano state testimoni silenziose della mia vita. Andai sul tetto per l'ultima volta attraverso la via di fuga di Hamid, che portava alla casa del vicino. Innaffiai gli alberi vecchi del cortile, davanti alle finestre della casa di Bibi. Quanta vita era trascorsa tra le mura di quella casa ormai silenziosa. Parole, liti, avvenimenti. Mi asciugai le lacrime. Con un senso di oppressione al cuore chiusi la porta e mi congedai da quel lungo capitolo della mia esistenza, dicendo per sempre addio anche alla giovinezza.
I ragazzi erano abbattuti e infastiditi per quel cambiamento e manifestarono la loro contrarietà brontolando e negandomi qualsiasi collaborazione al momento del trasloco. Siamak se ne stava sdraiato sul letto senza parlare e si copriva gli occhi con un braccio. Masuud era seduto in cortile e fissava un punto indefinito, tracciando di tanto in tanto qualche segno con un improvvisato gessetto di cemento. Per fortuna Shirin era con Parvin Khanum e quindi non dovevo preoccuparmi anche per lei. Lo sguardo triste dei ragazzi mi deprimeva più di ogni altra cosa e quella apatia mi faceva impazzire. Da sola non avevo più la forza di fare niente, ma non potevo costringerli ad aiutarmi, senza contare che Siamak non aspettava altro che un pretesto per litigare. Mandai giù il magone e decisi di cambiare tattica. Andai dal panettiere che aveva appena cominciato a sfornare il pane del pomeriggio. A casa stesi un tappeto in cortile e portai fuori punir, pane, frutta e tè. Chiamai i ragazzi: sapevo che erano affamati, perché avevano mangiato solo un panino prima di lasciare la vecchia casa. Tardarono un po', ma l'odore del pane fresco ebbe la meglio... si avvicinarono furtivamente come gatti e cominciarono a mangiare. Non parlai finché non ebbero la pancia piena. Poi ci provai.
«Vedete ragazzi, lasciare la nostra casa è stato molto difficile anche per me, forse più che per voi, perché lì ho passato la parte migliore della mia vita, e tra quelle mura sono rimasti i miei ricordi più belli, ma non avevamo altra scelta. Pensate però che la vita continua, voi siete giovani e all'inizio della vostra strada, e un giorno avrete una casa più grande e più bella di quella che abbiamo lasciato. Non potete abbattervi per così poco.»
Siamak tirò fuori il motivo principale della sua rabbia: «Non avevano il diritto di prenderci la casa!».
«Perché no? La casa era loro, erano d'accordo di non venderla fino alla morte della madre, ma quando lei se n'è andata hanno deciso di dividersi l'eredità. Era un loro diritto.»
«Però eravamo noi a occuparci di Bibi, loro non venivano mai a trovarla, non passavano nemmeno a salutarla!»
«Be', vivevamo noi con lei, era logico che fossimo noi a occuparcene.»
«E non riceveremo nessuna eredità nemmeno da parte del nonno...»
«Così è la legge... quando un figlio muore prima del padre, la sua famiglia non ha diritto a niente.»
«Perché la legge è sempre contro di noi?» chiese Masuud.
«Smettiamo di lamentarci. Non abbiamo bisogno di nessuna eredità. E poi ci hanno lasciato una parte della casa del nonno e hanno speso tanti soldi per sistemarla. Qui per adesso non abbiamo problemi, che differenza fa che non sia di nostra proprietà? Non dobbiamo neanche pagare l'affitto, e questa è una gran cosa per noi. Quando sarete più grandi, deciderete delle vostre vite e costruirete il vostro futuro. Non dovete contare su un'eredità, ma sulle vostre forze. Andrete all'università, diventerete medici o ingegneri, e avrete un'abitazione bellissima, altro che la nostra vecchia casa! La vostra sarà nuova, moderna, arredata con stile, e io andrò di casa in casa per il vostro khastegari come le mamme di un tempo... e che belle ragazze vi troverò! Mi siederò e dirò: "I miei due figli sono uno medico e l'altro ingegnere, sono belli, intelligenti e hanno una casa che sembra un castello e una bella macchina", e le ragazze cadranno ai vostri piedi da ogni parte...»
I ragazzi cominciarono a sorridere.
«E allora signor Siamak preferisce la bionda o la mora?»
Avevo centrato il bersaglio. Ridendo rispose: «La mora...».
E Masuud: «Io la voglio con gli occhi azzurri...».
«Azzurri come quelli di Firuzeh?»
Siamak rise. «Stupido, ti sei fatto scoprire!»
«Cosa dici? Firuzeh è come una sorella per me.»
«Hai ragione, Firuzeh adesso è come una sorella, ma quando crescerete potrebbe diventare tua moglie...»
Lo abbracciai e me lo strinsi al petto, pensando: "Oh, quello che farò per i vostri matrimoni!". E quel pensiero ebbe un effetto positivo anche sul mio umore, dandomi una nuova carica di energia.
«Allora ragazzi, secondo voi come dovremmo sistemare la nuova casa?»
«Lo dici come se fosse chissà cosa!»
«Molto dipende come la si sistema, aspetta e vedrai come ce la invidieranno! Alcuni prendono un monolocale in una cantina umida e riescono a renderlo piacevolissimo... più comodo di un castello. L'arte è questa, non andare a vivere in una reggia già bella e pronta. Ogni casa mostra il carattere e il gusto delle persone che ci vivono.»
«Ma questa è talmente piccola...»
«Non è vero. Abbiamo due stanze e un salotto, e poi un cortile grande e bello che potremo usare per tutta la primavera e l'estate. Lasciate che pianti un po' di fiori e vedrete che spettacolo! Riverniceremo Yhoze ci metteremo i pesciolini rossi. E ci godremo i pomeriggi assolati all'aria aperta rinfrescandoci alla fontanella.»
Ero riuscita a far tornare il buonumore ai ragazzi. Dovevo approfittarne. Lasciai loro la stanza più grande che furono liberi di sistemare secondo il loro gusto e gli chiesi di trasportare le cose più pesanti, mentre al resto avrei pensato io. Masuud, che era l'artista di casa, si sarebbe occupato del cortile per decidere come realizzare le aiuole, quali e quanti fiori comprare, che colori scegliere. Siamak invece doveva installare l'antenna del televisore, tirare il cavo del telefono dalla casa della nonna e mettere i bastoni per le tende. Avevamo tenuto il grande letto in legno di Bibi: aveva bisogno di una rinfrescata, ma era perfetto per il cortile, avremmo potuto dormirci nelle notti calde sotto le stelle. Non era fantastico?
I ragazzi si erano fatti coinvolgere e avevano cominciato ad avanzare proposte. Masuud voleva cambiare le tende della loro stanza perché quelle vecchie erano troppo scure. Avremmo comprato insieme una bella stoffa allegra e colorata e avrei cucito le tende nuove e i copriletti coordinati. La stanza si sarebbe trasformata...
E così i ragazzi finirono per accettare la piccola casa e tutti ci adeguammo alla nuova sistemazione. Anzi, ci ambientammo perfettamente in brevissimo tempo, e dopo un mese avevamo il cortile pieno di fiori, e due stanze comode e confortevoli. Parvin Khanum fu contenta di quel trasloco, perché le era più facile venire a trovarci. La nonna era felice di averci a casa sua, si sentiva meno sola e non aveva più paura. Quando si spegnevano le luci e si udiva la sirena che annunciava i bombardamenti, ci precipitavamo da lei e cantavamo tutti insieme finché il pericolo era passato. I ragazzi si erano ormai abituati anche alla guerra: faceva parte della loro quotidianità.
Il signor Zargar mi portava regolarmente del lavoro da sbrigare e passava a trovarci spesso. Era buono e premuroso. In quegli incontri abbandonava la formalità dei rapporti d'ufficio: eravamo diventati ottimi amici, e ci confidavamo a vicenda. Anche lui era rimasto solo, la moglie e la figlia erano tornate in Francia all'inizio della guerra e lui non sapeva cosa fare. Un giorno mi disse che aveva ricevuto una lettera dal signor Shirazi. Il tono della lettera era triste e nostalgico, Shirazi si struggeva per la lontananza dall'Iran, e Zargar temeva che quello stato d'animo avrebbe finito per distruggerlo. Gli aveva mandato anche una lunga poesia piena di dolore per il suo esilio.
Quella notizia mi impensierì molto, e a ragione. Poco tempo dopo, infatti, il nostro amico dal cuore spezzato ci lasciò. Partecipai al funerale organizzato dalla famiglia e sperai che avesse finalmente raggiunto quella pace che non era riuscito a ottenere nella vita terrena.
Il signor Zargar mi presentò ad alcune case editrici che mi diedero altro lavoro a casa, finché riuscì a trovarmi un posto fisso nella redazione di una rivista che mi garantiva uno stipendio sicuro tutti i mesi. Non era alto, ma potevo arrotondare con gli incarichi che svolgevo a casa.
Iscrissi i ragazzi alla scuola vicino a casa: all'inizio ci andarono con il broncio perché avevano perso i vecchi compagni, ma dopo un mese non parlavano nemmeno più della vecchia scuola. Siamak aveva trovato un sacco di amici e Masuud, che andava d'accordo con tutti, fu subito benvoluto. Shirin aveva tre anni, era sempre allegra, chiacchierava disinvolta con tutti e si divertiva un mondo a salire sulle spalle dei fratelli. Avevo deciso di iscriverla all'asilo vicino a casa, ma Parvin Khanum non me lo permise. Non voleva che spendessi per l'asilo i soldi faticosamente guadagnati e volle continuare a occuparsi lei della bambina.
Mi stavo adeguando al nuovo ritmo di vita. C'era la guerra, e ci giungevano notizie orribili, ma mi sembrava tutto molto distante da noi ed ero così occupata che se non fosse stato per la sirena d'allarme, non mi sarei nemmeno ricordata della guerra. Quando bombardavano, ero sempre con i miei figli e questo mi toglieva ogni preoccupazione. Ero convinta che sarebbe stato il miglior modo di morire: tutti insieme, nello stesso luogo e nello stesso momento... I ragazzi non erano ancora in età da leva militare, e non dubitavo che la guerra sarebbe finita prima d'allora... quanti anni poteva durare?! Per fortuna loro non ardevano dal desiderio di andare a combattere. Cominciavo a illudermi di aver superato tutte le difficoltà: le cose andavano abbastanza bene e mi sembrava di poter crescere i miei figli con serenità.

41.

Passò qualche mese: ci furono parecchi attentati e morti, le attività politiche si trasferirono nei sottoscala, la maggior parte degli oppositori scapparono, la guerra proseguiva e io ero preoccupata per il destino dei miei figli maschi. Sembrava che le mie parole e gli avvenimenti intorno a noi avessero definitivamente distolto Siamak dalla politica. Non aveva più rapporti con i suoi amici mujahidin, o almeno così mi fece credere. All'inizio della primavera, mentre i ragazzi si preparavano per gli esami, cominciai a parlargli del concour e delle università che avrebbero riaperto a breve. Volevo che fossero così presi dallo studio e dai progetti per il futuro da non avere il tempo di pensare ad altro. Le mie preoccupazioni si erano rinnovate.
Una notte stavo scrivendo a macchina come al solito. Shirin dormiva, la luce della stanza dei ragazzi era ancora accesa, quando un rumore di colpi alla porta mi fece sobbalzare. Siamak e Masuud uscirono dalla camera e ci guardammo sorpresi per un istante prima di andare alla porta. La aprii poco, ma qualcuno la spalancò con forza, mi mise un foglio davanti agli occhi e mi spinse da parte. In due rincorsero Siamak che stava correndo verso la casa della nonna, lo bloccarono in cortile e lo fecero mettere in ginocchio con la forza. Un altro mi trattenne, impedendomi di raggiungerlo. Il più anziano ordinò a Masuud di mettermi il chador.
Non riuscivo a calmarmi. Cosa volevano fargli? Quando lo trascinarono via gli corsi dietro urlando che mio figlio era innocente e scongiurandoli di dirmi dove lo stavano portando. Un pastar di mezza età provò pena per me e, mentre i suoi colleghi poliziotti se ne andavano, mi bisbigliò: «Lo portiamo a Evin, ma non gli faranno niente, non aver paura...».
Spinsero Siamak su una macchina e partirono. Io e Masuud gli corremmo dietro fino alla fine della via, mentre i vicini guardavano da dietro le tende. Quando la macchina svoltò l'angolo mi afflosciai in mezzo alla strada e Masuud dovette trascinarmi a casa. Il pallore, gli occhi terrorizzati e la voce supplice di Siamak che gridava «Mamma, ti prego fa' qualcosa!» mi tormentavano. Passai la notte insonne, tremando nel mio letto. Non potevo sopportarlo: aveva solo diciassette anni, ed era veramente innocente. Il suo unico crimine poteva essere stato vendere giornali agli angoli delle strade. Perché erano venuti a prenderlo? Aveva interrotto da tempo i suoi rapporti con i vecchi compagni, almeno così pensavo...
La mia vita sembrava una continua replica, ma ogni volta la mia capacità di sopportazione diminuiva. La mattina seguente cercai di farmi coraggio, mi preparai e svegliai Masuud. Gli dissi di non andare a scuola, doveva aspettare l'arrivo di Parvin e affidarle Shirin, e poi avvertire la zia Fati dell'accaduto. Io sarei andata da Mahmud: forse per Siamak avrebbe fatto quello che si era rifiutato di fare per Hamid, dopotutto era suo zio e l'aveva visto crescere...
Masuud mi trattenne. «Mi dispiace mamma, non volevo dirtelo, ieri pomeriggio ho visto proprio uno dei pastar che sono stati da noi: era nella nostra via e non era solo... stava parlando con lo zio Mahmud e guardavano in direzione di casa nostra.»
Sentii la testa che mi girava. Non poteva essere vero... Mahmud aveva denunciato persino suo nipote?! Uscii di casa come impazzita e mi precipitai da lui. Tirai calci alla porta come un'invasata finché Gholam Hossein e Mahmud aprirono spaventati. «Tu, lurido bastardo, ci hai portato i pastar in casa? Li hai mandati a prendere il mio Siamak, non è così?»
Mi guardò freddamente. Mi aspettavo che negasse, che inventasse delle scuse o si indignasse per le mie accuse, ma mi sbagliavo. Con voce fredda quanto il suo sguardo rispose: «Tuo figlio era un mujahid, non è vero?».
«No, mio figlio non ha ancora l'età per scegliere. Ha già cambiato idea molte volte e non si è mai iscritto a nessun gruppo.»
«Questo è ciò che pensi tu, sorella. Hai nascosto la testa sotto la sabbia per non vedere... ma io l'ho trovato a vendere giornali di propaganda all'angolo della strada!»
«E allora? Ti sembra un motivo per mandarlo in prigione?»
«Ho fatto solo il mio dovere! Non vedi i crimini che commettono? Io non posso sacrificare la religione e la mia salvezza eterna per tuo figlio. Non lo farei nemmeno per il mio! Era mio dovere denunciarlo. Il resto lo deciderà il tribunale della giustizia islamica... Se è veramente innocente come dici, lo libereranno.»
«E se si sbagliano? Mio figlio dovrebbe morire per un errore? Come puoi convivere con la tua coscienza?»
«Se anche si sbagliassero la responsabilità sarebbe del tribunale, non mia, e se ciò avvenisse tuo figlio diventerebbe un martire e andrebbe in paradiso... il suo spirito me ne sarà riconoscente.»
Lo odiai con tutta me stessa. Individui come Mahmud stavano distruggendo l'Islam e allontanando la gente dalla religione, perché commettevano qualunque crimine in suo nome. Gli sputai in faccia e me ne andai.
Anche Ali rifiutò di aiutarmi. Disse che era dispiaciuto, che voleva bene a Siamak, ma non poteva fare niente per lui. Aveva il marchio di mujahid stampato in fronte e nessuno sarebbe intervenuto in suo favore: i mujahid avevano ucciso molta gente, non lo sapevo?
«Questi sono i vostri ometti», gridai a mia madre, «brave persone che collaborano a mandare a morte il nipote, un ragazzo innocente di diciassette anni, e tu mi dici che siamo dello stesso sangue...»
In quello stesso momento arrivarono Sadegh e Fati con il loro bambino appena nato. Tornai a casa con loro. Fati piangeva, mentre Sadegh si mordicchiava nervosamente i baffi. Fati era preoccupata anche per lui: temeva che dicessero che era un mujahid, perché gli era capitato un paio di volte di litigare con Ali e Mahmud.
Sadegh mi accompagnò al carcere di Evin in cerca di notizie, ma fu inutile. Cosa potevo fare, a chi mi potevo rivolgere? All'improvviso Fati ebbe un'idea. «Mahbubeh! Suo suocero è un religioso, uno importante, lei ne parlava sempre e diceva che era un grand'uomo...»
Mi sembrò come una zattera per un naufrago: mi ci aggrappai subito. Masuud mi accompagnò, prendendosi cura di me come di una bambina. Sul pullman dormii con la testa sulla sua spalla e mangiai i biscotti che lui aveva portato.
Arrivammo a casa della zia che era già sera. Si stupì molto della nostra improvvisa visita a quell'ora, e soprattutto si spaventò vedendo la mia espressione disperata.
Scoppiai in lacrime: «Zia, salvatemi voi, sto perdendo anche mio figlio!».
Mezz'ora dopo Mahbubeh e Mohsen, suo marito, erano lì. Mahbubeh aveva ancora la gioia di vivere e l'allegria dei tempi andati. Era soltanto un po' ingrassata e aveva uno sguardo più maturo. Suo marito, un uomo colto e di bell'aspetto, sembrava compassionevole. Il loro atteggiamento rispecchiava amore e rispetto reciproci. Piansi raccontandogli tutto e lui mi confortò con dolcezza e mi disse parole rassicuranti - che era impossibile che facessero del male a Siamak sulla base di un'accusa così debole e che mi avrebbe condotto da suo padre l'indomani per avere aiuto. Mi calmai un po'. La zia mi convinse a mangiare una cena leggera. Mahbubeh mi portò dell'acqua e un calmante. Finalmente mi addormentai dopo ventiquattro ore insonni, amare e faticose.
Il suocero di Mahbubeh era un signore buono e comprensivo. Si dispiacque per le mie lacrime e mi rincuorò. Chiamò alcuni conoscenti, prese qualche appunto che porse a Mohsen e lo incaricò di accompagnarmi e farmi da guida. Tornammo a Teheran. Continuavo a pregare, a fare richieste e promesse a Dio... Mohsen riuscì a ottenere un incontro per l'indomani alla prigione di Evin. Il responsabile del carcere lo salutò amichevolmente e gli disse che Siamak era un semplice simpatizzante, e non erano arrivate prove contro di lui. La legge doveva fare il suo corso, ma lo avrebbero sicuramente liberato. Infine chiese a Mohsen di portare i suoi saluti a Haj Agha.
Quelle parole mi permisero di sopravvivere e continuare a sperare nei dieci mesi successivi, bui e dolorosi. Ogni notte avevo incubi in cui mio figlio veniva torturato e mi svegliavo terrorizzata. Una settimana dopo l'arresto di Siamak mi guardai allo specchio e mi vidi invecchiata, pallida e magra. Notai una ciocca di capelli bianchi che non mi sembrava di aver visto prima.
Mi tenevo in costante contatto con Mahbubeh e attraverso di lei con il marito e il suocero. Una volta partecipai a una riunione che i responsabili del carcere avevano organizzato per i genitori dei giovani reclusi. Chiesi di Siamak. Lo conoscevano bene e mi dissero di nuovo di non preoccuparmi: lo avrebbero liberato.
Nel frattempo le università avevano riaperto. Speravo di riuscire finalmente a terminare gli studi: mi mancava davvero poco. Ma mi risposero che non ero idonea a frequentare l'università perché ero stata moglie di un comunista ed ero madre di un mujahid. Non potevo prendere parte alle lezioni né tantomeno ottenere la laurea in un'università islamica. Tutti i miei sacrifici erano stati buttati al vento.

42.

Era un inizio di Esfand illuminato da un sole tiepido. L'aria aveva perso il rigore dell'inverno e si avvertiva già l'odore fresco della primavera.
Sadegh Khan aveva portato via la mia auto per una revisione e dovetti andare al lavoro a piedi. Mi impegnai a fondo tutta la mattina per non pensare a Siamak. Nel pomeriggio mi chiamò Fati e mi disse che dovevo assolutamente passare da lei: Mahbubeh era a Teheran e sarebbe andata a casa sua, forse aveva qualche notizia. La voce di mia sorella mi sembrò innaturale e mi spaventai. Dopo il lavoro presi subito un taxi e andai a casa sua. Non riusciva a nascondere l'eccitazione. Anche Shirin e Masuud erano lì, ma non sapevano niente. Finalmente Fati mi rivelò che avrebbero liberato Siamak entro Capodanno e Sadegh aggiunse «forse anche prima». Era una bellissima notizia, ma era attendibile? Da chi l'avevano saputo? Era stata Mahbubeh a dirlo a mia sorella. Era fatta: inshallah, avrebbero rilasciato Siamak entro pochi giorni. Balzai in piedi: dovevo andare subito a casa a riordinare, a preparare, non sapevo nemmeno io cosa, per il ritorno di mio figlio...
Fati mi trattenne.
«È meglio che aspetti qui, sorella, prendila con calma! Da un momento all'altro potrebbero tornare Mahbubeh e suo marito. Sono andati alla prigione a informarsi. Può darsi che lo liberino questa sera stessa...»
Mi stava dando le notizie con il contagocce, come una medicina a un ammalato, e vedendomi impallidire mi portò subito un tranquillante, che doveva aver preparato per me da tempo...
Non passò molto che sentii Masuud gridare: «Siamak!» e lo vidi entrare. Non sapevo se il mio cuore avrebbe retto a quell'ennesima emozione. Lo abbracciai. Era dimagrito e molto più alto. Mi sentii mancare il respiro e lo strinsi a me di nuovo. Gli tastai il viso, le mani, gli occhi. Era veramente lui? Il mio bellissimo Siamak?
Masuud pianse a lungo tra le braccia del fratello. Aveva condiviso con me le pene di quel drammatico periodo e mi aveva dato coraggio e speranza. Mi chiesi come fosse riuscito a trattenere tutte quelle lacrime fino ad allora.
Shirin saltò in braccio a Siamak sorridente ed emozionata. Chiamai subito Haj Agha e lo ringraziai di cuore ripetutamente. Passammo due giorni a far visita ai parenti, mentre Mansureh e Manijeh si occupavano della nonna che diventava sempre più svampita e non distingueva Siamak da Hamid. Avevo fatto tanti voti che non sapevo quale adempiere per primo. Andammo in pellegrinaggio al santuario dell'imam Reza, poi a Qum e dalla zia e Mahbubeh. Ringraziammo di persona Mohsen e il mio angelo custode Haj Agha. Mi sentivo rinata. Se avevo i miei ragazzi, nulla poteva abbattermi.
Siamak si avvicinava ai diciannove anni. Nonostante avesse perso l'ultimo anno, non era indietro rispetto ai coetanei perché aveva iniziato la scuola con un anno di anticipo. Doveva finire il liceo, ma non lo ammisero a causa dei suoi trascorsi politici. Io che desideravo una brillante carriera scolastica per i miei figli, dovevo accettare che Siamak non prendesse nemmeno il diploma. Anche per lui quell'esclusione fu un duro colpo e lo rese furibondo. Non volevo che restasse a casa senza occupazioni, perché temevo ancora l'influenza dei vecchi amici, anche se sembravano non interessarlo più. Prese la decisione di cominciare a lavorare. Sapeva quanto faticavo e risparmiavo per la famiglia e voleva essermi d'aiuto, ma cosa poteva fare? Non aveva né un capitale da investire in un'attività né un diploma da spendere in un lavoro d'ufficio. Oltretutto la guerra non era ancora finita e mi sembrava sempre più vicina: entro un anno sarebbe dovuto partire per il servizio di leva.
Un giorno passò a trovarmi Mansureh e le parlai delle mie preoccupazioni per il futuro di Siamak. Era venuta proprio per quel motivo: tutti i componenti dell'ultima generazione della sua famiglia avevano frequentato l'università. Non potevamo permettere che Siamak non prendesse nemmeno il diploma. Sapevo che avrebbe potuto seguire i corsi serali e dare l'esame da privatista, ma lui si era messo in testa di lavorare perché, anche se avesse preso il diploma, poi non gli avrebbero permesso di frequentare l'università e quindi a cosa gli sarebbe servito?
Ma Mansureh aveva in mente ben altri progetti. «Non so come reagirai, cara Masum, a ciò che sto per dirti, ti prego solo di non farne parola con nessuno, qualunque sia la tua decisione...»
La guardai con stupore in attesa che continuasse.
«Sai bene che il mio Ardeshir ha preso il diploma da un anno e adesso dovrebbe assolvere il servizio militare. Ma questa guerra sembra non voler proprio finire e io non sono disposta per nulla al mondo a mandarlo lì! E lui, lo ricorderai, è sempre stato un fifone sin da piccolo, morirebbe per il terrore ancor prima che per una pallottola, e così abbiamo deciso di farlo partire...»
«Farlo partire? E come? I ragazzi della loro età non hanno il permesso di lasciare il paese.»
«Il problema è proprio questo: dovremo fargli passare illegalmente la frontiera. Abbiamo trovato una persona che vuole duecentocinquantamila toman e ho pensato che potremmo mandare via i ragazzi insieme, perché si prendano cura l'uno dell'altro quando saranno lontani. Cosa ne pensi?»
L'idea mi piaceva per il futuro di Siamak, ma non sapevo se sarei riuscita a procurarmi tutti quei soldi. Mansureh però mi disse di non preoccuparmi. Sarebbero stati felici di contribuire loro, purché i ragazzi andassero insieme. Siamak era in grado di cavarsela anche da solo, ma Ardeshir era più timoroso e sarebbe stato felice di partire con lui.
«Ma dove andranno?»
«Ci siamo informati: quasi ovunque in Europa accettano i rifugiati politici. Potranno completare gli studi, e gli daranno anche un piccolo stipendio per mantenersi. Sei preoccupata per i soldi o hai altri dubbi?»
«No, non è per i soldi, sarei disposta a indebitarmi fino al collo per garantire un futuro a mio figlio, ma voglio essere sicura che sia la soluzione giusta, vorrei pensarci un po' e parlarne con lui. Dammi una settimana di tempo, per favore.»
Ero molto combattuta. Da una parte volevo dare a Siamak possibilità migliori di quelle che avrebbe avuto in Iran, dall'altra mi chiedevo se fosse giusto affidare un ragazzo così giovane a un trafficante che dopotutto era un criminale, e non sapevo nemmeno quanto fosse pericoloso attraversare il confine. E poi mi spaventava l'idea di mandarlo da solo in un paese straniero, forse molto lontano: chi l'avrebbe aiutato se avesse avuto bisogno?
Il giorno seguente avevo un appuntamento di lavoro con il signor Zargar. Lui si era laureato fuori dall'Iran e avrebbe potuto darmi un parere utile. Gli posi la questione. Rifletté un po' prima di rispondermi: «Non ho esperienza di espatrio illegale e non so fino a che punto sia pericoloso, ma so che è diventata una pratica comune. Su questo sarebbe giusto che prendesse lui stesso una decisione. Ma se lo accettano come rifugiato, e con il suo trascorso in prigione sono certo che lo faranno, non avrà problemi economici e potrà completare gli studi nelle migliori condizioni. Il rischio più serio che corre è restare in balia della solitudine e della nostalgia e cadere in depressione. Succede di frequente ai ragazzi della sua età: non riescono più a studiare, e nemmeno a condurre una vita normale, e a volte arrivano al suicidio. Non voglio spaventarvi ma è giusto che lo sappiate. La cosa migliore sarebbe avere qualcuno dall'altra parte disposto ad aiutarlo in tutto e per tutto, qualcuno che possa proteggerlo e che sia in grado di riempire almeno in parte il vuoto per la vostra assenza e per la lontananza da casa.»
L'unica persona che conoscevo fuori dall'Iran e della quale mi fidavo ciecamente era Parvaneh. La chiamai da casa di Mansureh, temevo che tenessero sotto controllo il nostro telefono, e le parlai del progetto. Rispose con gioia e grande entusiasmo. Dovevo assolutamente farlo: si sarebbe presa cura lei di Siamak come di un figlio. Quell'accoglienza così calorosa mi alleggerì il cuore. Era giunto il momento di porre la questione a Siamak. Non sapevo come avrebbe potuto reagire. Entrai nella stanza dei ragazzi. Lui era disteso sul letto con lo sguardo al soffitto. Masuud studiava seduto alla scrivania. «Vorrei parlarvi», dissi con tranquillità. Siamak si alzò per metà e Masuud chiuse il libro girandosi verso di me.
«Dobbiamo prendere una decisione riguardo al futuro di Siamak.»
«Non mi sembra che ci sia mai concesso di prendere decisioni, piuttosto ci vengono imposte...» rispose amaramente.
«Sto pensando di mandarti all'estero.»
«Bella questa! E dove pensi di trovare i soldi? Ci vorrebbero almeno duecentomila toman per passare il confine e altri duecentomila per arrivare al paese che concede l'asilo politico.»
«E bravo, che precisione: da chi l'hai saputo?»
«Mi sono informato molte volte... non sai quanti dei miei amici se sono già andati!»
«Non lo sapevo! Perché non me ne hai parlato?»
«Che dire? Sapevo che non potevi permettertelo e che ci saresti rimasta male.»
«I soldi non sono importanti, farei di tutto per procurarmi la somma necessaria per te, ma devo sapere che cosa vuoi fare veramente.»
«Voglio andare all'estero a studiare e costruirmi il futuro!»
«Non hai paura della solitudine e della nostalgia? E sei pronto ad affrontare il rischio di attraversare il confine illegalmente?»
«Sicuramente sentirò la vostra mancanza, ma sarebbe peggio restare qui a vedere te che batti a macchina e cuci tutto il giorno, senza poter fare nulla né per voi né per la mia vita. E quanto al rischio, non credo sia maggiore che fare la leva durante la guerra, o sbaglio?»
Aveva ragione, l'anno successivo sarebbe stato costretto a partire per il servizio militare, e non c'erano segnali che la guerra stesse per finire.
«Se ti permetterò di andare, dovrai promettermi di rispettare alcune condizioni e di tenere sempre fede alla tua parola.»
«Quali?»
«Primo: non dovrai entrare in nessun gruppo politico, dovrai mantenere sempre la tua indipendenza intellettuale. Secondo: dovrai studiare fino al più alto livello possibile, e diventare una persona onorata. Terzo: non dovrai mai dimenticarti di noi, e dovrai tendere la mano a tuo fratello e a tua sorella se avranno bisogno di te.»
«Non c'è bisogno che tu mi chieda di giurare. Sono d'accordo su tutti questi punti.»
«È facile dirlo, ma è altrettanto facile dimenticarsene...»
«Come potrei dimenticarmi della mia famiglia e dei miei obiettivi? Voi siete tutta la mia vita e il mio unico desiderio è poter ripagare un giorno tutte le tue fatiche e i tuoi sacrifici. Stai sicura che studierò con costanza e non avrò nulla a che fare con la politica... La verità è che ormai ne ho la nausea!»
Parlammo per ore del viaggio, dei soldi e dei programmi futuri. Siamak sembrava rinato. Era emozionato e pieno di speranze, ma anche preoccupato e ansioso. Vendetti due tappeti, i gioielli che mi erano rimasti e perfino la mia fede e il braccialetto di Shirin. Chiesi in prestito un po' di denaro a Parvin Khanum, ma era ancora poco. Il signor Zargar, che conosceva i miei problemi prima ancora che gliene parlassi, un giorno venne a casa nostra con cinquantamila toman, dicendo che erano stipendi arretrati: sapevo che non era vero e gli dissi che volevo restituirglieli. Allora mi propose di scalarmeli dagli stipendi successivi. Alla fine riuscii a mettere insieme i duecentocinquantamila toman necessari e li portai a Mansureh.
Fu molto sorpresa che mi fossi procurata quella somma in così breve tempo. Aveva pensato di darmene lei centomila: disse che allora sarebbero serviti per i primi due mesi che i ragazzi avrebbero passato in Pakistan.
«Grazie Mansureh, te li restituirò.»
«No, non devi, questi soldi sono vostri, spettano ai tuoi figli. Se Hamid fosse morto una settimana più tardi avreste avuto diritto alla vostra parte di eredità.»
Il trafficante era un ragazzo giovane e magro dalla pelle olivastra con un vestito da contadino, che si faceva chiamare in codice «signora Mahin». Eravamo d'accordo che i ragazzi si sarebbero tenuti pronti e al suo segnale sarebbero partiti per Zahedan. Lui gli avrebbe fatto passare il confine con l'aiuto di alcuni amici, li avrebbe portati alla città di Koveiteh e poi all'ufficio più vicino dell'ONU. Avrebbero dovuto indossare pelli di capra e passare il confine insieme alla mandria. Sentire quelle storie mi faceva tremare, ma cercavo di non mostrare a Siamak la mia paura. Lui era molto emozionato, ma più che spaventarlo quelle storie aumentavano la sua eccitazione.

43.

La notte che giunse il segnale, i ragazzi partirono per Zahedan con Bahman Khan, il marito di Mansureh. Al momento degli addii mi sentii come se mi stessero mutilando. Non sapevo se fosse la scelta giusta. Se n'era appena andato e io ero già triste per la sua lontananza e in preda all'ansia per i rischi che avrebbe corso. Quella notte piansi e pregai Dio per mio figlio. I primi tre giorni passarono nell'angoscia, finché non giunse la notizia che avevano attraversato il confine.
Dopo dieci giorni riuscii a parlargli: erano arrivati a Islamabad e si erano sistemati. La sua voce suonava lontana e infelice. Masuud era triste e i miei pianti notturni lo facevano stare ancora peggio. Mansureh era più affranta di me: non si era mai separata neanche un giorno da suo figlio e non riusciva a darsi pace. In apparenza cercavo di infonderle coraggio, ma in realtà parlavo per me stessa quando le dicevo che dovevamo essere forti per dare un futuro migliore ai nostri figli e sopportare il dolore della lontananza, sapendo che era il prezzo da pagare per la loro felicità e la prova tangibile del nostro amore.
Quattro mesi dopo, una sera, Parvaneh telefonò e mi passò Siamak. Lanciai un urlo di gioia: era arrivato alla meta. Parvaneh mi assicurò che lo avrebbe tenuto d'occhio, però lui sarebbe dovuto restare per un periodo nel campo dei rifugiati. A differenza di molti altri che non facevano nulla, Siamak cominciò subito a imparare la lingua, frequentò una scuola e si fece ammettere all'università. Continuò a studiare alla facoltà di ingegneria meccanica e non dimenticò mai la sua promessa. Parvaneh si era organizzata perché Siamak trascorresse le vacanze a casa loro, in modo che avessi sue notizie tutti i giorni. E lei mi metteva al corrente dei suoi progressi. Ero felice e orgogliosa. Sentivo di aver compiuto il mio dovere verso di lui.
Lavoravo sempre con energia, e ripagavo i debiti. Masuud adesso si prendeva cura di me e della nostra vita come un padre, mentre continuava a studiare, e le sue premure mi riempivano di gioia. Shirin rallegrava la nostra casa con il suo chiacchiericcio, la sua dolcezza e le sue birichinate. La tranquillità aveva finalmente preso piede nella nostra vita, anche se sapevo che c'erano ancora problemi irrisolti, soprattutto la guerra che sembrava eterna. In quei giorni in cui avevo imparato di nuovo a ridere, il signor Zargar mi chiese di sposarlo. Sapevo che la moglie francese e la figlia se n'erano andate dal paese, ma non che avevano già divorziato. Il signor Zargar era un uomo saggio e buono, ideale da ogni punto di vista. L'unione con lui avrebbe potuto risolvere gran parte dei miei problemi economici. E non mi era indifferente: l'avevo sempre considerato un uomo splendido oltre che un amico fidato e gli volevo bene. Potevo raccontargli tranquillamente tutto quello che avevo nel cuore. Era tempo che sapevo del suo interesse nei miei confronti. Forse avrebbe potuto darmi l'amore e le attenzioni che non avevo mai ricevuto da Hamid. Era il terzo uomo che mi chiedeva di sposarlo dalla morte di Hamid. Negli altri due casi avevo dato una risposta negativa senza un attimo di esitazione. Ma con lui non sapevo come comportarmi. Quel matrimonio sarebbe stato perfetto da un punto di vista sia pratico sia sentimentale. Ma Masuud mi teneva d'occhio ed era irrequieto, finché una volta mi disse senza preamboli: «Mamma, noi non abbiamo bisogno di nessuno, vero? Posso darti io tutto quello di cui hai bisogno, perciò puoi dire a quel signor Zargar di non girarti intorno, perché non posso sopportarlo...».
Capii che non potevo rischiare di rompere l'equilibrio così faticosamente raggiunto e non dovevo concedere la mia attenzione a nessun altro all'infuori dei miei figli. Dovevo essere tutto per loro, anche il padre che avevano perso, e riempire quel vuoto solo con il mio affetto, non con la presenza di un estraneo. Io sarei stata felice della compagnia del signor Zargar, ma avrei deluso e messo in imbarazzo i miei figli. Perciò, dopo qualche giorno, gli dissi di no, scusandomi a lungo e pregandolo di non rompere per questo la nostra bella amicizia.
Gli eventi della mia vita avevano uno strano andamento: prima mi assestavano un colpo, poi mi concedevano un po' di respiro. E ormai sapevo che più il periodo di pace era lungo più sarebbe stato pesante il colpo successivo. Perciò avevo finito per vivere i momenti di tranquillità in vigile attesa...
Con la partenza di Siamak avevo risolto uno dei miei maggiori problemi, e anche se a volte la nostalgia per lui era insopportabile, non mi pentii mai di averlo fatto partire e non gli permisi mai di tornare. Parlavo con la sua foto e gli scrivevo lettere lunghissime per restare in contatto e tenerlo al corrente di tutti i fatti della nostra famiglia.

44.

Masuud era sempre calmo e buono, non mi causava mai problemi e anzi cercava di risolvere quelli che avevamo, e il periodo irrequieto e difficile dell'adolescenza passò per lui senza scosse. Si considerava il responsabile di casa e faceva di tutto. Dovevo stare attenta a non approfittarmi del suo altruismo e della sua disponibilità, a non pretendere troppo da lui, che era ancora così giovane per quanto più maturo della sua età. E lui si preoccupava per me, non voleva che lavorassi troppo, aveva paura che mi ammalassi. Io gli dicevo che il lavoro non fa ammalare nessuno - la stanchezza si dissolve con una buona dormita e un giorno di riposo alla settimana. Erano la disoccupazione, la depressione e i pensieri inutili che facevano ammalare le persone.
Era per me amico e confidente oltre che figlio. Ci dicevamo tutto, prendevamo tutte le decisioni insieme. Eravamo una famiglia completa. Aveva ragione, non avevamo bisogno di nessun altro. L'unico mio timore per lui era che un giorno gli altri si sarebbero approfittati della sua bontà. Già la sorellina gli faceva fare di tutto con qualche moina. Masuud la proteggeva come un padre. La iscriveva a scuola, andava a parlare con gli insegnanti, la accompagnava e la riportava a casa. Durante i bombardamenti la teneva stretta a sé. Non ero per niente contenta che crescessero in quella situazione, ed ero sempre più preoccupata e spaventata dal proseguire della guerra. Ogni anno mi ripetevo: «Anche quest'anno finirà e non toccherà a Masuud».
La notizia del martirio di molti giovani che conoscevo mi aveva scioccata, e stetti ancora peggio quando seppi che quella sorte era toccata anche a mio nipote, Gholam Ali. Non dimenticherò mai il nostro ultimo incontro. Rimasi spiazzata nel vederlo sulla porta di casa nostra. Erano anni che non lo incontravo. Non so se per la divisa militare o per lo sguardo, mi sembrò molto più vecchio della sua età. Comunque non era più il Gholam Ali che conoscevo. Gli chiesi se fosse successo qualcosa.
«Deve succedere qualcosa perché io venga a trovarvi?»
«No tesoro, sei il benvenuto, è che non ci sono abituata...»
I ragazzi non erano in casa. Mi sembrò un po' in imbarazzo. Gli versai del tè e cercai di farlo sentire a suo agio chiedendogli della famiglia. Ma non feci commenti sulla sua divisa e sulla sua partenza per il fronte. Non ero in grado di affrontare l'argomento. La guerra ai miei occhi era un baratro di orrore, da cui sgorgavano solo lacrime e sangue, morte e dolore. Improvvisamente mi disse: «Zia, sono venuto a chiedervi halaliyat29».
«Perché, cosa avresti fatto? E poi, cosa dovrebbe accaderti?»
«Sapete bene che sono stato al fronte e sono qui in licenza. Ma devo tornare, così è la guerra, e poi inshallah, forse sarò degno del martirio... il mio ultimo desiderio.»
«Cosa vai dicendo? Sei nel pieno della giovinezza. Che Dio non porti mai quel giorno! Non posso accettare le tue parole. Pensa alla tua povera madre, credi che approverebbe? Non sai che il rispetto per i genitori è il tuo primo dovere?»
«Certo che lo so, ma la loro approvazione l'ho già ottenuta. All'inizio mia madre piangeva, non voleva darsi pace. Allora l'ho portata all'asilo dei profughi, le ho mostrato la disperazione di quella gente che ha perso i propri cari, la casa e tutta la sua vita, e non ha più niente. Le ho detto che è mio dovere di musulmano proteggere la mia famiglia, il mio paese e la mia gente. Le ho chiesto se riteneva giusto ostacolare questo dovere. Mia madre crede fermamente, secondo me la sua fede è molto più salda di quella di mio padre. E infatti mi ha risposto: "Chi sono io per respingere un ordine divino? Mi rimetterò alle Sue decisioni...".»
Gli dissi che prima poteva almeno finire gli studi, poi avrebbe fatto quello che riteneva giusto. E magari nel frattempo la guerra sarebbe finita e lui avrebbe potuto costruirsi una vita e una famiglia.
Con un sorriso sarcastico rispose: «Come mio padre, intendete? Sapete meglio di chiunque altro, zia, com'è mio padre... interessato ai soldi e al profitto, a mettere in mostra la sua merce e ottenere il guadagno più alto. Io non voglio diventare così... Il fronte è l'unico posto in cui mi avvicino a Dio. Non avete idea di come ci si senta. Tutti disposti a sacrificare la propria vita, tutti insieme per lo stesso obiettivo. Lì è la vera fede senza etichette e senza orpelli. Lì ho conosciuto i veri musulmani, che non danno valore alle cose materiali e al denaro. Accanto a loro trovo la pace e mi sento vicino a Dio».
Ascoltavo a testa bassa le parole di quel giovane idealista sicuro di aver trovato la verità.
Il silenzio fu di nuovo rotto dalla voce triste di Gholam Ali: «Ultimamente, quando andavo con papà in negozio, mi dispiaceva vedere come si comportava. Mi sorgevano dubbi su ogni cosa, soprattutto sulla sua fede in Dio. Voi non venite più a casa nostra, non avete visto quella nuova... è ricca, enorme, piena di stanze inutili, ma è frutto di frodi ai danni della povera gente, capite? Non so come mio padre possa vantarsi di essere musulmano, come possa pregare in quella casa. Io non voglio diventare come lui...».
Quella sera lo convinsi a fermarsi a cena. Quando si alzò per il namaz, vidi la purezza delle sue intenzioni e della sua fede e tremai per lui. Invidiavo la sua forza, e il suo modo di interpretare Dio mi commuoveva.
Al momento dei saluti mi baciò sulle guance e mi sussurrò all'orecchio: «Pregate perché diventi un martire...».
Realizzò il suo desiderio, e io versai lacrime per lui per molto tempo; ma neanche la sua morte mi convinse a rimettere piede in casa di Mahmud. Khanum Jun era in collera con me e diceva che avevo un cuore di pietra. Ma era più forte di me. Dopo qualche mese incontrai Ehteramsadat. Era invecchiata e spezzata dal dolore. Quando la vidi, cominciai a piangere: non sapevo come fare le condoglianze a una madre che aveva perso il figlio. Ma lei mi disse: « Mio figlio è un martire, non servono le condoglianze...».
Khanum Jun mi spiegò che solo così poteva sopravvivere: la fede l'aiutava a sopportare l'immenso dolore. Sapevo che Ehteram era sincera. Ma ero convinta che Mahmud si sarebbe approfittato del martirio del figlio per farsi pubblicità e incrementare gli affari. Mia madre si scandalizzò per le mie parole. Non era mai stata obiettiva riguardo ai suoi figli maschi. E io volevo aprirle gli occhi.
«Smettetela di mentire a voi stessa, mamma, sapete benissimo che il denaro halal non si ottiene così! Anche Amu Abbass è un mercante e ha iniziato a lavorare molto prima di mio fratello. Ma non si è arricchito come Mahmud, e possiede solo il suo negozio. E di Ali cosa mi dite? Ha appena cominciato ed è già pieno di soldi... Ho sentito che si è comprato una casa da qualche milione!»
«Te la prendi anche con Ali? Per fortuna i miei figli sono più furbi di altri. Spesso Dio aiuta quelli che sono con lui. Ma anche quando il destino è nero come il tuo, è Dio che ha voluto così... Non devi essere così invidiosa!»
Per parecchio tempo non andai più a trovare mia madre. Anche quando passavo da Parvin Khanum, non me la sentivo di bussare alla sua porta. Forse aveva ragione, forse ero davvero invidiosa. Ma non potevo accettare che si arricchissero alle spalle della gente in guerra e in difficoltà. Per me quello era peccato, e non volevo più avere niente a che fare con loro.
La mia vita scorreva tra fatiche quotidiane e costanti preoccupazioni per il futuro, ma era relativamente tranquilla nonostante la guerra e la scarsità di denaro.
La madre di Hamid morì di cancro un anno dopo la partenza di Siamak. Aveva desiderato andarsene da quando era rimasta sola. Sentivo che forse era stata lei stessa ad accelerare con la forza della mente il corso della malattia. Nonostante la scarsa lucidità degli ultimi tempi, nel testamento non si dimenticò di noi e si fece promettere dalle figlie che non ci avrebbero mai lasciati senza casa. Sapevo che Mansureh aveva un ruolo attivo a nostro favore, cercò in tutti i modi di esaudire il desiderio della madre e si oppose alle altre sorelle. Suo marito, che era ingegnere edile, fece buttare giù velocemente la casa dei genitori di Hamid e costruire un nuovo complesso di quattro piani. Durante i lavori la nostra parte di cortile non venne toccata per non costringerci a spostarci, ma vivemmo due anni fra polvere e rumori assordanti, finché la bellissima casa nuova fu pronta. Ogni piano aveva due appartamenti da centocinquanta metri quadri ciascuno, tranne il terzo, costituito da un unico appartamento di trecento metri dove andò a vivere Mansureh. A noi fu riservato un appartamento al primo piano che dava sul parcheggio, e quello accanto al nostro ospitava l'ufficio del marito di Mansureh; il secondo piano andò a Manijeh, che abitava uno dei due appartamenti e aveva dato in affitto l'altro. Monir Khanum, che possedeva il quarto piano, lo affittò tutto. Quando Siamak seppe che avevamo un appartamento solo andò in collera e al telefono mi disse: «Dovevano darti anche l'altro, per permetterti di affittarlo e aiutarti con le spese. È solo la metà di quanto ti spetta!». Era ancora e sempre combattivo. Risi.
«Tesoro, non vuoi proprio darti pace? Questo appartamento è un segno di riconoscenza e di affetto da parte loro, potevano benissimo non darci nulla, non abbiamo diritti secondo la legge. Pensa che senza alcuna spesa siamo diventati proprietari di una casa di nuova costruzione, bella e pulita. Dovremmo essere soddisfatti e riconoscenti, non ti pare?»
Il nostro appartamento fu il primo a essere pronto, in modo da poter liberare le stanze dall'altra parte del cortile e permetterne la ristrutturazione. Finalmente avevamo tre camere da letto e ognuno di noi poteva avere una stanza tutta sua. Io mi liberai della chiassosa compagnia di Shirin e lei si liberò del mio ordine e delle mie continue lamentele... Masuud era soddisfatto della sua camera grande e luminosa e avrebbe accolto ancora volentieri Siamak come compagno di stanza.
Gli anni passavano in fretta. Masuud era giunto all'ultimo anno di liceo, ma la guerra proseguiva. Ogni anno veniva promosso a pieni voti, e a volte, anche se ero orgogliosa di lui, mi sentivo mancare il respiro e dicevo, scherzando solo a metà: «Che fretta hai figlio mio? Perché non prendi il diploma con un paio d'anni di ritardo?!».
Avrei voluto che il suo liceo durasse fino alla fine della guerra... Ma lui voleva crescere, lavorare, essere di sostegno alla famiglia. E poi mi promise di farsi ammettere all'università per rimandare il servizio di leva. Ma io sapevo che la politica influenzava anche le scelte delle università ed ero molto preoccupata.
Alla fine ottenne il diploma con il massimo dei voti e partecipò al concour. Entrambi sapevamo che con i nostri precedenti familiari le possibilità di essere ammesso erano scarse, ma non ce lo confessavamo. A volte, un po' per farmi coraggio un po' per darsi forza diceva: «Dopotutto io non ho nessun precedente penale. E a scuola erano molto soddisfatti di me. Al momento della decisione mi difenderanno...».

45.

Come prevedevo non fu ammesso. Piansi con lui, e non riuscivo a consolarlo. Vedevo svanire le mie speranze per il suo futuro, e lui era frustrato e colpito da quell'ingiustizia. Il mio unico pensiero divenne quello di proteggerlo. Entro pochi mesi si sarebbe dovuto presentare per il servizio militare. Siamak e Parvaneh mi chiamarono e mi dissero di mandarlo da loro a ogni costo. Ma lui non voleva lasciare sole me e sua sorella. E poi era impossibile trovare i soldi, avevo finito da poco di pagare i debiti per la partenza di Siamak.
In realtà i soldi non erano il problema principale: avrei dovuto trovare una persona affidabile, non potevo dare in mano mio figlio a chiunque e questo non era facile. Avevo ancora il numero di telefono che avevo chiamato per Siamak. Telefonai e dissi il nome in codice «signora Mahin» come avevo già fatto una volta. L'uomo che rispose cominciò a farmi domande con un accento che non riconoscevo. Capii che era una trappola. Non diedi nessuna informazione e riattaccai il telefono. Chiesi aiuto a Bahman Khan, il marito di Mansureh, che aveva accompagnato suo figlio e Siamak a Zahedan. Indagò per un po' e venne a sapere che la banda era stata arrestata e che nell'ultimo periodo i controlli alle frontiere erano diventati molto più severi. In molti casi i ragazzi venivano arrestati, e a volte il trafficante scappava con i soldi, abbandonandoli in mezzo al deserto. Non sapevo cosa fare. L'unica mia certezza era che non volevo che mio figlio andasse a morire in guerra. Ma Masuud non collaborava.
«Mamma, due anni di militare non sono la fine del mondo! Hanno tutti l'obbligo di farlo, è per la salvezza del nostro paese, quindi ci andrò anch'io, e quando avrò finito prenderò un passaporto e con poche spese uscirò legalmente dal paese.»
Non riuscivo a convincermi. Cosa avrei fatto se gli fosse successo qualcosa? Lui insisteva che andare a militare non significava per forza essere uccisi: la maggior parte tornavano sani e salvi. Ogni scelta comportava dei rischi e l'espatrio illegale era altrettanto pericoloso... ma io avevo sempre in mente Gholam Ali.
Masuud si stupiva che avessi perso il mio coraggio, quello che dimostravo a ogni bombardamento, quando dicevo che le probabilità di essere colpiti erano pari a quelle di un incidente stradale; mi rimproverava di essere diventata irrazionale, di non comportarmi come le madri degli altri ragazzi... Non capiva che la mia paura si dissolveva se eravamo tutti insieme, se potevo proteggerli: sarei stata più tranquilla solo se fossi potuta andare al fronte con lui...
Finiva sempre per prendermi in giro e liquidare le mie preoccupazioni con un bacio sulla fronte. Così il giorno tanto temuto giunse e lui fu mandato in caserma per il periodo d'addestramento insieme a migliaia di altri ragazzi. Mi sforzai di essere ottimista e di restare calma. Notte e giorno pregavo che quella dannata guerra finisse, e i nostri figli tornassero all'abbraccio delle loro famiglie. Durava da sette anni, ma fino a quel momento non avevo mai sentito il pericolo così vicino. Ogni giorno si tenevano marce funebri per i martiri. Molti tornavano mutilati, e in ogni luogo incontravo madri nella mia stessa situazione. Era come se le conoscessi tutte. Avevano negli occhi il mio stesso terrore, e ci facevamo coraggio a vicenda sapendo di mentire.
Anche il periodo di addestramento giunse al termine, ma non accadde nessun miracolo e la guerra non finì. I miei sforzi di mandarlo nel luogo meno pericoloso possibile furono inutili. Il giorno in cui partì per il fronte, gli dissi addio stringendo le piccole mani di Shirin e senza riuscire a trattenere le lacrime. In quell'uniforme sembrava più grande. I suoi occhi chiari e bellissimi ci guardavano preoccupati. Mi diceva che dovevo essere forte, e salutarlo senza disperazione, dovevo infondergli coraggio come facevano le altre madri. Le guardai, e vidi le loro lacrime disperate dietro i visi asciutti... Baciò Shirin e cercò di farla ridere. Gli promisi di essere in forma al suo ritorno e gli feci promettere di tornare... Lo seguii con lo sguardo finché mi fu possibile, come per imprimermi ogni sfumatura della sua espressione nella mente e corsi dietro al treno finché scomparve.
Mi ci volle qualche settimana per accettare la partenza di Masuud, ma non riuscivo ad abituarmi al vuoto che aveva lasciato. Oltre alla nostalgia, oltre alla preoccupazione per i pericoli che lo minacciavano, sentivo la mancanza dei piccoli gesti di ogni giorno. La sua assenza mi fece capire quanto mi era stato prezioso nelle incombenze quotidiane e quanti pesi mi aveva tolto dalle spalle. Pesi che ora rendevano ancora meno sopportabile la mia vita senza di lui. Adesso che dovevo sbrigare tutte le mie faccende da sola, capivo il valore del suo aiuto, e ogni cosa che facevo me lo ricordava, stringendomi il cuore. Quando Hamid era stato giustiziato avevo sofferto molto e sentito la sua mancanza perché gli volevo bene, ma la sua morte non aveva avuto ripercussioni sul nostro ritmo di vita, perché lui stava poco in casa con noi e non si era mai assunto nessuna responsabilità. Ma quando manca qualcuno che ha un ruolo attivo nella tua vita, che è presente e sempre pronto ad aiutarti, il senso di vuoto è molto più profondo e l'assenza più difficile da sopportare.
Passarono tre mesi: avevamo imparato a vivere senza Masuud. Shirin, che era sempre stata una bambina vivace e allegra, rideva meno, e spesso di sera trovava qualche motivo per piangere. Io riacquistavo la calma solo nella preghiera e nel dialogo con Dio. Mi sedevo per ore a pregare e mi dimenticavo di tutto quello che mi circondava. A volte non mi accorgevo nemmeno che Shirin si era addormentata senza aver cenato davanti alla TV... Masuud telefonava appena poteva. Parlare con lui era un dono che spegneva la mia ansia per qualche ora.
Poi rimasi senza sue notizie per due settimane e fui presa dal panico. Chiamai a casa delle famiglie dei suoi amici che erano partiti per il fronte con lui. La madre di Faramarz, seria e razionale, mi disse che era troppo presto per preoccuparsi. Erano soldati, non avevano il telefono sempre a portata di mano... Bisognava aspettare almeno un mese.
Un mese senza notizie di un figlio al fronte era difficile da sostenere, molto. Ma io aspettai. Mi tenevo occupata, riempivo il mio tempo con il lavoro, forzavo la mia mente a collaborare. I mesi diventarono due, e allora mi decisi ad andare all'ufficio militare. Rimasi esitante di fronte alla porta con il terrore di ciò che avrebbero potuto dirmi, ma non avevo altra scelta. Dovevo entrare. Mi fecero strada in una stanza affollata. Uomini e donne dai volti pallidi, con gli occhi iniettati di sangue per le notti insonni erano in fila in attesa del loro turno per sapere finalmente che fine avevano fatto i loro figli. Quando toccò a me, mi tremavano le ginocchia. Raccolsi le ultime forze e chiesi di Masuud. Il battito del cuore era così forte nelle mie orecchie che non riuscivo a sentire le voci intorno a me. Il militare sfogliò il suo registro e mi chiese che legami avessi con il soldato Masuud Soltani. Chiusi e aprii la bocca un paio di volte prima di riuscire a dire che ero sua madre. Sembrò contrariato e mi invitò a sedermi. Poi mi chiese dove fosse il padre. Deglutii e cercai di fermare le lacrime. «Suo padre è morto. Qualunque cosa sia successa dovete dirla a me.» Mi invitò a stare calma, a non preoccuparmi... poi disse che non sapevano dove fosse Masuud.
Com'era possibile? Loro l'avevano mandato in guerra e non sapevano dove?
«Vedete, cara signora, c'è stata operazione in quella zona, alcune parti della frontiera sono state riprese e altre cedute. Noi purtroppo non abbiamo notizie di tutti i nostri soldati, stiamo ancora cercando...»
«Ma se siete riusciti a riprendervi delle zone, avrete sicuramente trovato... qualcosa.» Non volevo dire «dei cadaveri», ma lui comprese al volo.
«No signora, non abbiamo trovato nessun cadavere con le caratteristiche e la medaglia di riconoscimento di vostro figlio. Stanno ancora esplorando la zona e non mi è arrivata nessuna notizia in merito.»
Un paio di madri mi aiutarono ad alzarmi dalla sedia. Madri che come me erano in attesa di quelle notizie. Una signora si fece tenere il posto in fila e mi accompagnò all'uscita. Quando arrivai a casa, Shirin non era ancora tornata da scuola. Camminai per le stanze vuote chiamando i miei ragazzi e l'eco dei loro nomi si diffondeva per la casa: «Siamak? Masuud?». Alzavo la voce, come se si fossero nascosti, per farli rispondere. Aprii l'armadio. Strinsi forte a me i vecchi vestiti e li annusai. Non so cosa accadde dopo. Shirin aveva chiamato le zie che erano arrivate con un medico. Mi iniettò qualche calmante. I miei incubi ricominciarono.
Sadegh Khan e Bahman Khan continuarono ad andare in quell'ufficio al posto mio a chiedere notizie. Qualche settimana dopo dissero che il nome di Masuud era stato inserito nella lista dei soldati scomparsi. Cosa significava? Era svanito nel nulla?! Mio figlio, giovane e bello, poteva essersene andato senza lasciare traccia come se non fosse mai esistito? Non era possibile. Dovevo fare qualcosa. Mi ricordai di un collega che aveva trovato il figlio in un ospedale mesi dopo la scomparsa. Non potevo restare seduta ad aspettare il corso della burocrazia. Passai la notte a lottare con i miei pensieri e la mattina avevo deciso: sarei andata al fronte a cercarlo. Rimasi mezz'ora sotto il getto dell'acqua fredda per eliminare i postumi dei tranquillanti. Mi vestii e mi guardai allo specchio: come erano diventati bianchi i miei capelli! Poi comunicai la mia decisione a Parvin Khanum che mi era stata accanto in tutti quei giorni bui.
Mi disse che non potevo farlo, non me lo avrebbero permesso. Ma avrei potuto cercarlo negli ospedali, nessuno poteva impedirmelo, risposi.
Mi propose di farmi accompagnare da qualcuno. L'unico cui avrei potuto rivolgermi era Sadegh, ma non volevo che lasciasse il lavoro per accompagnarmi, e non potevo certo chiedere l'aiuto dei miei fratelli...
Partii con un treno pieno di soldati. Nel mio scompartimento, però, trovai dei compagni di sventura: un uomo e una donna alla ricerca del figlio, anche se loro almeno sapevano che era rimasto ferito ed era ricoverato in uno degli ospedali di Ahvaz. La primavera in quella zona era torrida e solo lì vidi veramente, dopo quasi otto anni, i segni tangibili della guerra: sofferenza, catastrofe, devastazione. Nessun viso sorridente, nessun movimento rilassato. Tutti correvano, ma i loro gesti erano meccanici, identici, come quelli dei becchini. Nei loro occhi inquieti solo rabbia e ansia. Tutti quelli con cui parlai erano feriti o avevano perso qualcuno. Visitai gli ospedali con i signori Farahoni conosciuti in treno: loro trovarono il figlio che aveva una ferita sul viso. La scena del loro incontro mi fece male. Mi dissi che avrei riconosciuto Masuud anche se avesse perso tutta la faccia; pregai di trovarlo vivo, ferito, senza gambe o senza braccia, ma vivo, per poterlo stringere di nuovo a me. Impazzivo nel vedere i mutilati e i feriti, tutti troppo giovani, tutti sofferenti, e partecipavo dentro di me al dolore di ogni madre. Dio mio, chi avrebbe dovuto rispondere di tutto quello? Chi ne era responsabile? E noi, come avevamo fatto a non accorgercene? Chiamavamo guerra i saltuari bombardamenti sulla città, mentre da otto anni i soldati vivevano in quello stato. Cercai ovunque. Poi trovai un militare che conosceva Masuud e lo aveva visto la sera dell'operazione in cui molti erano morti o rimasti feriti. Ma lui era svenuto, e non sapeva più niente degli altri. Nessuno fu in grado di darmi una risposta su quello che era successo a mio figlio. La parola «scomparso» mi rimbombava nella testa, il mio dolore si era fatto troppo pesante. Tornai a casa. Mi precipitai in camera di Masuud e tirai fuori in fretta i suoi vestiti. Alcune camicie erano stropicciate: cominciai a stirarle, come se fosse la cosa più importante da fare. E più le stiravo, più trovavo piegoline nascoste e ricominciavo da capo. Fuori dalla stanza Mansureh non smetteva di parlare, ma non la ascoltavo, sapevo solo che era lì, come in un angolo del mio cervello. All'improvviso sentii le sue parole a Fati: «Sta impazzendo. Sono due ore che stira una camicia di Masuud. Sarebbe meglio sapere che è morto, almeno potrebbe sfogare tutto il suo dolore...». Mi precipitai fuori dalla stanza come un cane rabbioso e le urlai: «Se mi dicessero che è morto mi ucciderei. Se sono ancora viva è perché so che è vivo anche lui!» Ma sentivo di essere prossima alla follia.
Parlavo da sola, e il mio interlocutore fisso era Dio. Il mio rapporto con lui si era trasformato. Non mi importava più nulla della mia vita. Ero una vinta che non aveva più nessuna speranza di salvezza, e riservavo il mio ultimo coraggio per dirgli tutto ciò che pensavo. Bestemmiavo, lo vedevo come un idolo che aveva bisogno di vittime sacrificali e io dovevo offrirgli uno dei miei figli. Cercavo di scegliere uno di loro, e a volte mandavo Siamak, altre Shirin al posto di Masuud, poi ero sopraffatta dal senso di colpa e dal ribrezzo per me stessa e ricominciavo a perdermi nel dolore.
Non mi curavo più della mia persona. Parvin Khanum doveva spingermi a forza sotto la doccia... Khanum Jun ed Ehteramsadat cercavano di confortarmi, mi parlavano della ricompensa di Dio per i martiri nell'aldilà. Mia madre mi esortava ad accettare il volere di Allah. Ma io non mi rassegnavo. Avevo già sofferto abbastanza per tutta la vita: non gli bastava? Ero andata a trovare mio marito in prigione per anni, avevo lavato i suoi vestiti sporchi di sangue, avevo rischiato di perdere un figlio, ero stata sola, avevo lavorato giorno e notte, mi ero sacrificata per crescere i ragazzi. Solo loro mi rendevano felice e non mi importava di nessun altro, nemmeno di Dio.
Ehteramsadat piangeva. «Non bestemmiare, Masum, Dio ti sta mettendo alla prova.»
«Fino a quando dovrò superare esami? Perché Dio mi mette sempre alla prova? Vuole mostrare la sua onnipotenza a una povera disperata come me? Non voglio superare le sue prove, voglio mio figlio. Che mi ridia mio figlio e poi mi bocci pure!»
Ehteramsadat era scandalizzata dalle mie offese a Dio. E poi mi parlava delle altre madri, di tutte quelle che avevano perso un figlio e anche più di uno... ma a me non importava. Le disgrazie degli altri non mi facevano sentire meglio, anzi stavo male anche per loro, anche per lei. E stavo impazzendo perché mio figlio era scomparso a diciannove anni e non avevo nemmeno un cadavere da abbracciare.
Avevo perso il conto dei giorni e dei mesi, prendevo montagne di calmanti e antidepressivi e annaspavo in un continuo stato di dormiveglia.
Una mattina mi svegliai con la bocca secca e la gola riarsa. Assonnata e con la testa che sembrava esplodermi mi trascinai in cucina per bere. Shirin stava lavando i piatti. La guardai stupita. Non lo faceva mai e odiava i lavori domestici. Le chiesi perché non era a scuola.
Mi guardò sorpresa. Lessi nel suo sguardo che mi compativa, ma anche che era ferita, quando mi disse: «È un mese che la scuola è finita, mamma!».
Rimasi di sasso. Com'era possibile? E io dov'ero? E gli esami di fine anno... aveva dato anche quelli? Sì, ma io non me n'ero accorta.
La guardai. Era dimagrita, pallida e aveva uno sguardo triste. Mi ero persa a tal punto nel mio dolore e nella mia rabbia da dimenticarmi di mia figlia. E anche lei stava male come e forse più di me. La abbracciai e la mia piccola si rifugiò fra le mie braccia, cercando di nascondersi, come se desiderasse da tempo quel momento. Piangevamo tutte e due. «Perdonami, tesoro, perdonami. Non avevo il diritto di dimenticarmi di te!» Fu Shirin a scuotermi dall'apatia e dal dolore. Aveva bisogno di me, del mio amore e della mia attenzione. Anche lei era mia figlia e avevo il dovere di vivere per questo. Giurai a me stessa che non avrei più affrontato i miei problemi con tanto egoismo. Dovevo muovermi.
Ricominciai la vita di tutti i giorni. Cercavo di rimanere il più possibile in ufficio a lavorare perché in casa non riuscivo a concentrarmi. Decisi di non piangere di fronte a Shirin. Lei aveva bisogno di una vita normale e serena. Era una bambina di nove anni, e ne aveva già viste abbastanza. Chiesi a Mansureh di portarla al mare. Ma lei non voleva lasciarmi sola e non ebbi altra scelta che partire con loro. La villa di Mansureh era la stessa di dieci anni prima, e il mare aveva la bellezza fulgida di allora. Tutto mi riportava ai giorni migliori della mia vita e rendeva vivi ancora una volta quei dolci ricordi.
Risentivo le voci dei ragazzi che giocavano e si rincorrevano sulla sabbia, lo sguardo appassionato di Hamid su di me. Stavo seduta ore a ricordare e le immagini erano così vivide che una volta mi chinai a raccogliere una palla per lanciarla ai miei uomini che giocavano insieme... Era passato tutto così in fretta! La dolcezza e la serenità che mi aspettavo dalla vita familiare si erano esaurite in quella manciata di giorni e il resto era stato dolore e tristezza.
In ogni angolo di quel luogo prendeva vita un ricordo. A volte aprivo le braccia per stringere i miei cari. E quando me ne accorgevo mi guardavo intorno spaventata al pensiero che qualcuno mi avesse vista così. Una sera mi sedetti in riva al mare, naufragando nei miei pensieri, e sentii la mano di Hamid sulla spalla. Percepivo chiaramente la sua presenza. Gli dissi: «Hamid, non hai idea di quanto sia stanca!».
Mi strinse la spalla, posai la testa sulla sua mano, mi accarezzò i capelli... finché la voce di Mansureh mi fece sobbalzare. «È un'ora che ti sto cercando. Cosa fai quaggiù?»
Fino a che punto un sogno poteva sembrare reale? Sentivo ancora il calore della sua mano sulla spalla. Forse ero al confine della pazzia, e come si stava bene! Avrei potuto arrendermi per sempre a quelle visioni e continuare fino alla fine a vivere nei miei sogni, a godere della libertà dei matti senza sentire più alcuna responsabilità. Ero sul ciglio di un burrone, a un passo dal lasciarmi andare. Solo il pensiero di Shirin impedì la mia caduta e mi spinse a rientrare nella realtà. Capii che dovevo tornare a casa: quel posto con tutti i suoi ricordi era pericoloso, era impossibile opporre resistenza a quei sogni. Il terzo giorno preparai la valigia e feci ritorno a Teheran.

46.

Un giorno caldo del mese di Mordad, alle due del pomeriggio, sentii urla di allegria echeggiare per i corridoi. Qualcuno aprì la porta del mio ufficio e urlò: «La guerra è finita!».
Come avevo desiderato quella stessa notizia solo un anno prima... Era tempo che non facevo più visita a nessun ufficio di reclutamento. Mi trattavano con un certo riguardo da quando Masuud era scomparso, ma il loro rispetto mi faceva stare peggio degli insulti che mi avevano rivolto come madre di un mujahid e moglie di un comunista. Non potevo proprio sopportarlo.
Era passato più di un mese dalla fine della guerra. Le scuole non avevano ancora riaperto. Alle undici del mattino si spalancò la porta del mio ufficio ed entrarono Shirin e Mansureh ansiose e trafelate. Mi alzai spaventata. Ormai avevo sempre paura di chiedere cosa fosse successo. Shirin si gettò tra le mie braccia. Piangeva e non riusciva a parlare. Mansureh mi guardò fissa e disse solo «È vivo, è vivo!». Mi accasciai sulla sedia. Mi appoggiai allo schienale e chiusi gli occhi. Se era un sogno volevo restare così per sempre... Shirin mi schiaffeggiò dolcemente la faccia con le sue piccole mani per farmi tornare in me e intanto mi pregava di alzarmi, di muovermi, di parlare. Aprii gli occhi. Allora rise di cuore. L'avevano chiamata dalla commissione, e le avevano detto che il nome di Masuud era sulla lista dei prigionieri di guerra stilata dall'ONU. Mansureh aveva richiamato per accertarsi che non ci fossero errori: era proprio il suo nome e tutti i dati corrispondevano al mio Masuud. Gli scambi di prigionieri sarebbero avvenuti presto...
Non ricordo cosa feci. Credo che mi misi a ballare come una matta e a baciare il pavimento. Per fortuna c'era Mansureh. Mandò via tutti dalla stanza, perché non fossero testimoni della mia follia. Dovevo muovermi, andare da qualche parte, in un luogo sacro, da un santo... A Mansureh venne in mente il mausoleo di Emamzadeh Saleh. Avevo paura, dovevo farmi perdonare tutte le bestemmie che avevo pronunciato nella mia disperazione, altrimenti quella improvvisa fortuna sarebbe scivolata via come l'acqua tra le dita. Chiesi perdono a Dio molte volte e in molti modi, promisi di recitare tutte le preghiere che avevo dimenticato, di fare la carità ai poveri... e mi scusavo, e gli spiegavo i motivi delle mie bestemmie: «Quando la miseria e la sventura superano il limite, le persone non hanno più nulla da perdere e allora si dimenticano di te, o peggio ti insultano. Fai pure di me quello che vuoi, ma ti prego: non mettermi più alla prova servendoti dei miei figli!».
Quando guardo indietro a quei giorni, mi rendo conto che ero veramente impazzita: parlavo con Dio come fa un bambino con il suo compagno di giochi e cercavo di stabilire delle regole alle quali nessuno dei due potesse sfuggire! Durante il giorno mi capitava più volte di sentire che dovevo ringraziare Dio e mostrargli la mia riconoscenza perché non si dimenticasse più di me. Come un innamorato che fa pace con l'amata dopo una lunga separazione, mi sentivo scettica e ottimista allo stesso tempo.
La gioia era tornata ad abitare la nostra casa. Il suono della risata di Shirin ricominciò a echeggiare tra le sue pareti. Correva, giocava. Mi gettava le braccia al collo e mi baciava. Ero ancora preoccupata per Masuud, ma era tutto diverso. Sapevo che essere prigioniero di guerra comportava mille difficoltà e umiliazioni. Sapevo che lui in quel posto poteva essere torturato. Ma tutto sarebbe passato. L'importante era che fosse ancora vivo. Ora ogni giorno passava nell'attesa trepidante della sua liberazione. Tenevo la casa pulita e in ordine. Sistemavo i suoi vestiti. Ogni mese sembrava più difficile di quello precedente, ma la speranza di rivederlo mi teneva in piedi, finché una notte d'estate lo riportarono a casa.
Dal giorno prima la via era illuminata, con tanti striscioni che dicevano BENTORNATO, MASUUD. Aleggiava un odore di dolci e di fiori e io sentivo di nuovo il profumo intenso della vita. La casa era piena di persone, molte delle quali sconosciute. Quando vidi Mahbubeh e il marito mi commossi, e quando mi accorsi che era venuto anche Haj Agha avrei voluto baciargli le mani. Da quando aveva aiutato Siamak, ai miei occhi era un santo. L'organizzazione e l'accoglienza degli ospiti era affidata a Parvin, Mansureh, Fati e Firuzeh, che era diventata una splendida adolescente. Io non riuscivo a fare altro che restare in febbricitante attesa. Il giorno prima Fati mi aveva fatto tingere i capelli, in onore di mio figlio. Non avevo protestato: ero disposta a tutto per lui! Firuzeh rideva e diceva: «Sembra il matrimonio della zia, sembra una sposa!». Era proprio così. Anzi molto meglio, non ero certo stata felice e riconoscente il giorno del mio matrimonio... Indossai un meraviglioso abito verde. Masuud amava quel colore. Per Shirin avevo comprato un vestitino rosa. Nel pomeriggio ci vestimmo e ci sedemmo ad aspettare. Arrivarono anche Khanum Jun, Ali e la sua famiglia insieme a Ehteramsadat e ai suoi figli. Ehteram era annichilita dal lutto che aveva cercato di accettare in nome della religione. Cercavo di non guardarla. Mi vergognavo che mio figlio fosse ancora vivo come di una colpa... Dissi a Khanum Jun che sarebbe stato meglio non farla venire. Ma aveva voluto lei. E poi mia madre non capiva la mia preoccupazione. «Pensi che possa invidiarti? Ma se è la madre di un martire! Vale molto più di te e sarà ricompensata nell'aldilà...»
Forse aveva ragione, forse la sua fede era così forte da riuscire a tenerla in piedi e io ero molto più debole di lei. Cercai di non pensarci più, ma continuai a nascondermi al suo sguardo... Ero sempre più impaziente. Quando arrivò erano le nove di sera passate. L'emozione fu più forte di tutti i calmanti che avevo preso. Svenni. Ma l'attimo in cui aprii gli occhi fu meraviglioso: ero tra le sue braccia.
Masuud era diventato più alto, ma era smunto e pallido. Il suo sguardo era cambiato e sembrava più adulto. Dai suoi incubi notturni capivo quanto avesse sofferto, ma lui non mi raccontava niente. Scoprii più tardi che era caduto nelle mani del nemico gravemente ferito ed era stato ricoverato in vari ospedali. Zoppicava e aveva ancora ferite non completamente rimarginate che gli causavano febbre e dolore. Dopo un periodo di cure per migliorare le sue condizioni generali, si sottopose a un delicato intervento alla gamba, che per fortuna andò bene. Mi prendevo cura di lui come di un bambino. Quando dormiva, mi sedevo vicino e non riuscivo a smettere di guardare il suo bel volto, ormai da uomo, che nel sonno appariva innocente come quello di un bimbo. Gli avevo dato il soprannome di Khodadad, dono di Dio. Me lo aveva davvero donato una seconda volta.
Riacquistò la salute fisica, ma non quella dello spirito: la sua allegria era scomparsa, non disegnava più, non aveva nessun progetto per il futuro. A volte i suoi compagni d'armi e di prigionia venivano a trovarlo. Allora si rianimava un po', per poi sprofondare di nuovo in sé stesso. Li pregai di non lasciarlo solo. Erano di età diverse e gli volevano tutti un gran bene. Uno di loro, di nome Agha Maghsudi, aveva circa cinquant'anni e Masuud lo rispettava molto. Mi sembrò un uomo buono e di esperienza e decisi di chiedergli cosa pensasse dell'apatia di Masuud. Mi disse di non preoccuparmi. Quasi tutti i soldati attraversavano quella fase, soprattutto quelli che avevano visto la guerra da vicino come lui. Il tempo lo avrebbe guarito. Il rimedio migliore era tenerlo impegnato.
Decisi di spingerlo a riprendere gli studi. C'erano dei posti riservati agli «eroi di guerra» all'università. Ma lui non sembrava interessato. Non aveva voglia né di studiare né di sostenere esami, e nemmeno di ragionare. Ed era convinto che comunque non sarebbe stato ammesso all'università. Gli dissi che adesso era un suo diritto, che c'era una legge che prevedeva l'ammissione per gli ex soldati. Era un segno di riconoscenza e una forma di ringraziamento per chi aveva combattuto e sofferto per il paese. Ma lui non voleva trattamenti di favore...
La mia costanza però ebbe la meglio, con l'aiuto decisivo di Firuzeh. Lei stava finendo la scuola, e parlando con entusiasmo della scuola a Masuud, mostrandogli i suoi libri, riuscì a far rinascere in lui la voglia di studiare, mentre il suo affetto e la sua bellezza gli facevano tornare la gioia di vivere. Studiavano insieme, parlavano, ridevano. Da parte mia li spingevo a uscire e ad andare in giro insieme. Tutti questi stimoli furono un balsamo per lo spirito di Masuud e accelerarono la sua ripresa. Fu ammesso alla facoltà di architettura, il suo sogno di sempre. Mi congratulai con lui e lo abbracciai. Rise, dicendo che sapevo come lui che non se lo meritava, ma ne era felice lo stesso...
La disoccupazione era un altro cruccio di Masuud. Si vergognava di farsi mantenere ancora da me; diceva che alla sua età un giovane doveva lavorare. Temetti che lasciasse l'università per cercarsi un lavoro; così, tramite una buona conoscenza, gli procurai un colloquio in un ministero. Passò facilmente la selezione e fu assunto. Anche l'ultimo ostacolo era superato... Il marchio negativo della nostra famiglia era finalmente cancellato. Adesso tutti lo desideravano e lo tenevano in considerazione, fino a metterlo su un piedistallo, anche se lui si schermì sempre davanti alle attenzioni esagerate.
A me venivano riservati gli onori che spettano alla madre di un ex prigioniero di guerra, e questo mi fruttò addirittura nuove opportunità di lavoro, che spesso ero costretta a rifiutare... Quel cambiamento nei nostri confronti mi faceva sorridere e riflettere sull'incostanza del mondo che mi circondava.

47.

La vita procedeva tranquilla. I miei figli erano sani e studiavano con successo. Non avevo più problemi economici: il mio stipendio era discreto e quello di Masuud decisamente buono; Siamak si era laureato, lavorava ed era sempre pronto ad aiutarci. Dopo la fine della guerra Parvaneh cominciò a tornare in Iran più spesso. Quando ci incontravamo, tutti gli anni passati l'una lontana dall'altra svanivano d'incanto e tornavamo ai giorni della nostra adolescenza. Era ancora la stessa Parvaneh allegra e senza peli sulla lingua, e le sue battute e le sue smorfie continuavano a farmi morire dalle risate. Sarei stata sempre in debito con lei. Per dieci anni si era presa cura come una madre di mio figlio e Siamak passava ancora tutte le vacanze a casa loro. Parvaneh mi descriveva la sua crescita e i suoi cambiamenti. Io chiudevo gli occhi e cercavo di vedere con la mente ciò che lei mi raccontava.
Siamak mi mancava da morire. Era l'unica ombra di tristezza sul volto sereno della mia vita. Da due anni mi chiedeva di andarlo a trovare in Germania, ma le preoccupazioni per Masuud e per Shirin che era ancora piccola non me l'avevano permesso. Quell'anno sentii che non potevo più aspettare. Le sue foto stavano diventando quelle di un estraneo...
Man mano che la data della partenza si avvicinava diventavo sempre più elettrizzata ed emozionata. In viaggio per la Germania, mi chiesi come avessi potuto sopportare dieci anni di lontananza da mio figlio. I problemi che avevo dovuto affrontare avevano talmente assorbito le mie energie, che mi era capitato di non guardare per giorni la sua foto. Hamid diceva che i mali della mente, la tristezza sentimentale e la nostalgia sono tipici di un'esistenza borghese, che non deve affrontare il problema dello stomaco vuoto, e non soffre per le disgrazie degli altri. Forse aveva ragione. Ma quella nostalgia non mi aveva mai abbandonato, nemmeno quando soffrivo la fame; l'avevo solo lasciata in un angolo della mente per risolvere i miei problemi più urgenti, e ora avevo il diritto di sentire più acuto che mai il desiderio di rivedere mio figlio.
Al momento dei saluti, Shirin era nervosa. Con tutta la sfacciataggine possibile mi disse: «Non mi dispiace che tu te ne vada, mi dispiace che non mi abbiano dato il visto!».
Aveva quattordici anni, ma si credeva una donna, e pensava di poter dire tutto ciò che le passava per la mente... Nonostante le sue proteste, la affidai a Masuud, Fati e Mansureh e partii.
Quando uscii dall'aeroporto di Francoforte, mi guardai intorno con l'animo in subbuglio, finché un uomo giovane e bellissimo si mise di fronte a me. Lo fissai in volto. Soltanto il suo sguardo e il suo sorriso mi erano familiari, e le ciocche di capelli ricci sulla fronte mi ricordarono Hamid. La maggior parte delle foto che coloravano la mia casa mostravano un adolescente snello e irrequieto, ma adesso davanti a me c'era un uomo alto, affascinante, educato, che mi aspettava a braccia aperte. Posai la testa contro il suo petto e lui mi strinse forte: che sensazione meravigliosa trovare riparo tra le braccia del proprio figlio come una bambina. La mia testa gli arrivava alla spalla. Respirai a fondo l'odore del suo corpo e cominciai a piangere. Di gioia. Passò un po' prima che mi accorgessi di una ragazza graziosa intenta a scattarci foto. Siamak me la presentò. Non riuscivo a crederci: era Leyli, la figlia di Parvaneh. La abbracciai. Anche lei era cresciuta e molto più bella che nelle foto che mi avevano mandato. Mi sorrise con il cuore.
Salimmo a bordo della piccola auto di Siamak. Parvaneh ci stava aspettando per il pranzo. Poi saremmo partiti per la città dove lui lavorava, a due ore da Francoforte.
Fui felice di sentire che il suo farsi non aveva traccia dell'accento tedesco.
«Come avrei potuto dimenticare la mia lingua, mamma! E poi qui ci sono tanti iraniani, e la zia Parvaneh risponde solo se le si parla in farsi, facendo impazzire anche suo marito e le ragazze, non è vero Leyli?»
Già prima di arrivare a casa di Parvaneh, avevo capito che fra loro c'era molto più di un'amicizia.
Parvaneh aveva una casa piacevole e accogliente e ci diede il benvenuto con grande gioia. Suo marito mi parve invecchiato, ma come poteva essere diversamente? Erano più di quattordici anni che non lo incontravo...
I ragazzi erano tutti cresciuti. Laleh parlava farsi con un forte accento tedesco, mentre Ardalan, il terzo figlio che era nato lì, lo capiva ma non lo sapeva parlare. Parvaneh insistette molto perché restassimo da loro, ma noi decidemmo di partire quella sera stessa per la città di Siamak e di tornare per il fine settimana successivo. Avevo bisogno di quei giorni di intimità con lui per imparare a conoscerlo di nuovo. Dio solo sa quanto avevamo da raccontarci. Ma quando fummo soli, non sapevo da dove cominciare, come gettare un ponte su tutti quegli anni di distanza... Per un po' chiacchierammo dei parenti e del tempo, e io risposi alle sue domande. Poi, finalmente, il senso di estraneità si dissolse e cominciammo a parlare con più calore di noi stessi. Mi raccontò delle difficoltà dopo la separazione, della fuga oltre il confine, dell'ingresso all'università, dello studio e del lavoro. Io gli parlai di Masuud, della guerra, dei giorni in cui lo credevo morto, e del suo ritorno; e allo stesso modo di Shirin, di quello che combinava, delle sue risposte pronte e taglienti, della sua testa calda che la faceva assomigliare più a lui che a Masuud. Le nostre parole erano un fiume in piena.
Lunedì tornò al lavoro, e io girai per le strade della città. Mi stupirono la bellezza e la maestosità di alcuni luoghi, e risi al pensiero di come ognuno di noi creda di trovarsi al centro del mondo. Imparai a fare la spesa senza conoscere la lingua. Cucinavo per mio figlio e restavo ad aspettarlo. Quando tornava dal lavoro uscivamo insieme e lui mi mostrava ogni giorno un posto nuovo, senza mai smettere di parlarci. Lasciammo da parte in fretta le discussioni sulla politica. Lui era stato così lontano dai problemi e dalle condizioni reali del nostro paese che ne parlava in termini anacronistici, riportandomi con la mente agli anni iniziali della rivoluzione. Una volta mi chiese offeso perché ridessi.
«Non prendertela, tesoro, è che alcune cose che dici sono buffe... come le parole delle radio straniere.»
«Spiegati meglio!»
«Come te, mischiano fatti veri a fantasia, usano termini che non hanno più senso. Si capisce che sono commenti di qualcuno che ormai vive lontano dall'Iran. A volte sono così distanti dalla realtà che fanno veramente ridere, altre sono irritanti... a proposito, simpatizzi ancora per i mujahidin?»
«No, a dire il vero non posso proprio accettare certe cose che hanno fatto... per esempio la guerra contro i soldati iraniani. E penso che se fossi stato con loro avrei potuto trovarmi davanti Masuud, e allora cosa avrei fatto? È un incubo che a volte mi sveglia la notte!»
«Sia ringraziato Dio, sei maturato...»
«Non così tanto, non illuderti! Adesso penso molto a papà, al fatto che è stato un grande uomo e noi dovremmo andarne fieri. Qui ci sono molti che la pensano come lui e mi vogliono bene. Mi dicono cose di papà che non ho mai saputo. Vorrebbero conoscere anche te per parlare di lui.»
Lo guardai scettica. Era ancora influenzabile. Non volevo sminuire l'immagine che si era fatto del padre e l'orgoglio che provava per lui, ma le sue parole denotavano una personalità immatura. Doveva ancora imparare a ragionare di testa sua.
«Vedi, figlio mio, non ho proprio voglia di prender parte a queste recite. Sai bene che non ero d'accordo con tuo padre, un uomo onesto, sì, ma guardava le cose da un'unica prospettiva. Per lui e per quelli che la pensavano come lui, il mondo si divideva in due: con loro o contro di loro, e chi era contro era brutto e cattivo. Questa visione coinvolgeva tutto, persino l'arte. Soltanto gli artisti che condividevano la loro fede politica erano veri artisti, gli altri costituivano un branco di ignoranti. Arrivava a litigare con me perché mi piacevano un cantante o un poeta che non erano comunisti. E io mi sentivo in colpa, ma non potevo farci nulla, perché giudicavo le canzoni e le poesie, non le idee. Non si potevano avere gusti e posizioni personali. Ti ricordi il giorno in cui Taleqani30 morì? I nostri vicini di casa erano sostenitori di un gruppo di sinistra e non sapevano come comportarsi. Cercarono per tutto il giorno i vari capi per sapere se dovevano essere in lutto! E quando arrivò la conferma che il defunto era un protettore del popolo, cominciarono a piangere e a disperarsi... Ecco, io non potrei mai comportarmi così e non vorrei che lo facessi tu. Desidero che tu riesca sempre a vedere sia gli aspetti positivi sia quelli negativi di una posizione o di un'opinione, ragionando con la tua testa, coltivando i tuoi ideali, e attraverso la lettura e la ricerca d'informazioni, per prendere la decisione che ti sembra più giusta. Sostenere acriticamente un'ideologia comporta un legame vincolante, ti rende prevenuto rispetto al diverso, incapace di avere opinioni tue e ti fa vedere sempre una sola faccia della medaglia. Se incontrassi i tuoi amici, direi queste cose anche a loro, ed elencherei gli errori di tuo padre e dei suoi compagni...»
«Mamma, ma cosa dici? Noi dobbiamo tenere vivo il suo ricordo! Lui era un eroe...»
«Sono stanca di giocare agli eroi. E i ricordi del passato sono così amari che non me la sento di rievocarli. Lascia perdere e guarda al futuro. La vita è davanti a te... perché vorresti crogiolarti nel passato? E lascia che ti dica un'altra cosa: non mi piacciono affatto questi sostenitori postumi!»
Non so se comprese o semplicemente accettò la mia posizione, fatto sta che accantonammo le questioni politiche e tornammo a quelle personali. Gli chiesi di raccontarmi di Parvaneh e della sua famiglia, ed ebbi conferma di ciò che avevo intuito. «Non hai idea di quanto Leyli sia intelligente e buona. Studia economia aziendale, quest'anno dovrebbe laurearsi e incominciare a lavorare...» mi disse in tono entusiastico come per caso.
«Ti piace?»
«Sì... come hai fatto a capirlo?»
Scoppiai a ridere. «L'ho capito all'aeroporto... le mamme afferrano al volo le situazioni!»
«Vorremmo fidanzarci, ma ci sono degli ostacoli.»
«Quali ostacoli?»
«La sua famiglia. La zia Parvaneh è fantastica, in questi anni mi ha curato come un figlio, e so quanto mi vuole bene, ma in questa faccenda sta dalla parte del marito. Sembra che a Khossroh Khan il nostro rapporto non piaccia: ci impone molti limiti, non ci permette di vederci tranquillamente... Sembra un iraniano di cento anni fa, come se non avesse studiato e vissuto tutti questi anni in Germania.»
«Ma voi cosa vorreste?»
«Fidanzarci, semplicemente...»
Gli promisi di parlare con Parvaneh per capire qual era il problema.
In realtà Parvaneh non aveva nulla in contrario, anzi sarebbe stata felice del loro matrimonio.
«Siamak è come un figlio per me. È iraniano, parla la mia stessa lingua, posso confidarmi con lui. Ho sempre temuto di non poter stringere alcun vero rapporto con la famiglia di mio genero se mia figlia sposasse un tedesco. Inoltre, conosco Siamak da ogni punto di vista: è tuo figlio, e tu sei la mia più cara amica, sono stata testimone della sua crescita, so che è un bravo ragazzo, intelligente, lavoratore, che potrà avere successo e un futuro brillante, e cosa più importante, so che lui e mia figlia si amano.»
Risi. «Ma allora dov'è il problema? Sembra che Khossroh Khan non la pensi come te!»
«Già, il problema è un altro. È la differenza di mentalità fra noi e loro... Noi siamo ancora iraniani, non riusciamo ad accettare i costumi di qui, ma i ragazzi ci sono cresciuti e vogliono comportarsi come i loro coetanei tedeschi. Vogliono un fidanzamento lungo... e noi lo accetteremmo di buon grado se significasse aspettare qualche tempo prima di sposarsi per conoscersi meglio e mettere via i soldi necessari. Ma loro non si accontentano di questo: vorrebbero convivere come fanno i giovani di qui, per poi magari lasciarsi dopo qualche anno, a volte addirittura dopo avere avuto un figlio insieme!»
Non potevo credere che avessero intenzioni del genere, ma Parvaneh mi tolse ogni illusione.
«Mi dispiace dirtelo, ma è così, mia cara. Tutte le sere Leyli litiga con il padre proprio per questo. E lui non riesce ad accettarlo, punto e basta, non posso dargli torto - e non credo che piaccia neanche a te!»
Ero esterrefatta. Certo che non mi piaceva, e adesso capivo una certa freddezza di Khossroh Khan nei nostri confronti. Rabbrividii al pensiero che i nostri parenti scoprissero una cosa del genere! Mi stupivo di Siamak: possibile che avesse dimenticato completamente le sue origini, la sua cultura? Parvaneh mi chiese di provare a parlare con loro. Annuii. Quanto erano diversi i mondi intorno a noi...
Quella notte parlammo fin quasi all'alba. I ragazzi dissero che desideravano avere una profonda conoscenza reciproca prima del matrimonio, e che dopotutto si trattava di un documento, un futile pezzo di carta, che nulla aveva a che fare con l'amore. Noi difendemmo il valore di una famiglia stabile, di un'unione ufficiale, del rispetto fra marito e moglie. Alla fine si giunse a un accordo: i ragazzi avrebbero fatto quella «cosa stupida e inutile che era sposarsi» soltanto per noi, ma se avessero capito un giorno di non essere fatti l'una per l'altro si sarebbero separati.
Si sposarono prima della mia partenza, e così la felicità del mio soggiorno in Germania fu coronata dal loro matrimonio. Era fantastico che mio figlio avesse sposato la splendida figlia della mia migliore amica!
Mi ero divertita così tanto che non avrei più voluto tornare. Il ricordo dolce di quel viaggio mi accompagnerà sempre, e le immagini più belle sono immortalate sulle foto che mi sorridono dalle cornici sparse per la casa.

48.

Gli anni sereni passavano rapidamente. Con un battito di ciglia, Shirin arrivò all'ultimo anno di liceo e Masuud alla fine dell'università. Da tempo Masuud si era fatto più silenzioso. Era impegnato con la tesi di laurea e le sue responsabilità in ufficio erano cresciute, ma capivo che c'era qualcosa di cui non riusciva a parlarmi. Avevamo sempre avuto molta confidenza, ma non volevo forzarlo, e aspettai che fosse pronto ad aprirsi. Finalmente, una sera in cui Shirin era alla festa di compleanno di un'amica, venne a sedersi accanto a me e capii cosa lo turbava. Senza preamboli mi chiese: «Mamma, se volessi andarmene da casa soffriresti molto?».
Perché mai voleva andarsene? Risposi diplomaticamente: «Prima o poi tutti i figli si separano dai genitori, ma molto dipende dal motivo della separazione...».
«Il matrimonio...»
«Vuoi sposarti? Questo sì che è un buon motivo. Sono davvero felice che tu ti sia deciso a questo passo: era uno dei miei desideri!»
Avevo pensato molto al suo matrimonio, erano anni che desideravo che si sposasse con Firuzeh: loro due si erano piaciuti sin da piccoli.
Si rallegrò che io fossi d'accordo, ma era preoccupato che potessero non accettarlo come pretendente.
«Certo che accetteranno! Ti hanno sempre amato e un paio di volte mi hanno fatto intendere che aspettavano che ti facessi avanti... Anche Firuzeh non è mai riuscita a nascondermi il suo segreto: glielo leggevo negli occhi. Sarà una sposa meravigliosa!»
«Firuzeh? Non parlavo affatto di lei... è come una sorella per me!» rispose Masuud freddamente scurendosi in volto.
Mi sentii gelare. Com'era possibile che mi fossi sbagliata? Che quel rapporto così intimo e affiatato, quegli sguardi così intensi, quella confidenza così profonda fossero solo fraterni? Mi pentii di aver parlato senza riflettere e cercai di controllare le mie reazioni. Dissi: «Allora... chi è?» ma la delusione traspariva chiaramente dalla mia voce.
«È la cugina di Ramin. Ha ventiquattro anni, è bella e appartiene a una famiglia dignitosa e rispettabile...»
«A quanto pare sai molte cose di loro, vuol dire che me l'hai tenuto nascosto a lungo, mascalzone! Perché non me ne hai parlato prima?» Risi. Volevo rimediare alla freddezza del mio primo approccio.
Si rallegrò della mia risata come un bambino e cominciò a raccontare. La conosceva da tre mesi e da un mese si erano dichiarati il loro amore... Gli dissi che mi sembrava un periodo troppo breve per pensare già al matrimonio. Masuud mi ricordò gli usi del nostro paese, dove ci si sposava senza nemmeno conoscersi, ma io non li avevo mai approvati e volevo che fosse assolutamente convinto del passo che stava per fare.
«Hai ragione, figlio mio, però ci sono due tipi di matrimonio: quello tradizionale, organizzato dai genitori, nel quale gli sposi si conoscono appena e, se sono fortunati, si ameranno con il tempo. Ma non è più la regola: oggi spesso i giovani scelgono il secondo tipo di matrimonio, che è quello per amore. Si frequentano, imparano a conoscersi, non pongono condizioni economiche o di interesse e si assumono la completa responsabilità della loro scelta. Mi sembra che voi rientriate nella seconda categoria... ma questo implica che vi conosciate bene, che siate consapevoli del carattere e della personalità dell'altro, sicuri del vostro amore per poter far fronte alle difficoltà. Come possono bastare tre mesi per tutto questo?»
Masuud reagì male. Mi disse che filosofeggiavo troppo e che non capivo niente dell'amore. Dopotutto io avevo conosciuto mio marito dopo il matrimonio... Ladan, così si chiamava la sua fidanzata, diceva che «l'amore è come una mela che ti cade in grembo: capita in un istante». Non era una visione meravigliosa? Non era sensibile e affascinante? Dovevo vederla prima di esprimere giudizi...
Mi sentivo triste. Io tanti anni prima sarei morta per amore: come osava dirmi che non ne sapevo nulla? Tutte le mie ferite erano state per amore.
Scoprii che non poteva aspettare perché lei aveva altri pretendenti e temeva che presto i genitori l'avrebbero fatta sposare e loro si sarebbero persi per sempre. Gli dissi che anche quella poteva essere una prova della forza dei loro sentimenti: se era davvero innamorata di lui, non avrebbe acconsentito a sposare un altro...
«Mi hai detto che è una ragazza colta e intelligente, e la sua famiglia sembra disponibile, molto diversa dall'Agha Jun e dalla Khanum Jun della mia giovinezza. Se lei dirà di non volersi sposare con altri, capiranno e non la obbligheranno di sicuro. Per me è stato diverso, mi hanno costretta con la forza, ma i tempi sono molto cambiati.»
«Ti sbagli! La nostra cultura, le nostre tradizioni restano sempre le stesse. Ancora oggi per le famiglie l'unico scopo nella vita di una ragazza è il matrimonio: i genitori di Ladan insistono perché si sposi da quando aveva diciotto anni, e lei si è sempre opposta!»
«Allora potrebbe opporsi ancora per un anno...»
Sembrava che non la volessi come nuora per partito preso, ma in fondo non la conoscevo, non l'avevo neanche vista. Volevo solo che aspettassero a prendere una decisione così importante, ma non sembrava possibile, e così dovetti acconsentire a prendere un appuntamento con la sua famiglia per incontrarla.
Ero disorientata: sentivo che era ingiusto oppormi al volere di mio figlio. Come potevo essere ostile a quella ragazza prima ancora di averla vista? Era la prima volta che Masuud mi chiedeva qualcosa con tanta insistenza. Poi pensavo a Firuzeh, Fati e Sadegh Khan e mi si stringeva il cuore. Quella notizia sarebbe stata un brutto colpo per loro.
«Sei certo che non potete aspettare?» gli chiesi infine.
«No, mamma. Suo padre è stato molto chiaro. Ha detto che se nessun altro si fa avanti entro la fine della settimana, Ladan dovrà sposare il pretendente con cui stanno trattando.»
Non avevo altra scelta. Quando li chiamai, mi sembrò che fossero in attesa della mia telefonata, quasi come se mi conoscessero. Masuud era felice come se gli avessi tolto un peso dalle spalle e mi propose di andare insieme a prendere Shirin. Non ne avevo voglia, avevo un mucchio di lavoro da sbrigare, ma non volevo oscurare la sua gioia. In macchina continuava a parlare. Ma io non riuscivo a sfuggire al pensiero di Fati e Firuzeh. Continuavo a chiedermi come fosse possibile. Non era stata la presenza di Firuzeh a riportarlo alla vita? A fargli ritrovare l'amore per lo studio? Cosa poteva essere successo? Come potevo essermi sbagliata, io che conoscevo mio figlio meglio di chiunque altro?
Shirin, con l'acume e la furbizia di sempre, si accorse subito del diverso stato d'animo di Masuud, che cambiò prontamente discorso. Ma quando la sorella disse che voleva fare una festa per invitare a casa le amiche, lui sorrise e le propose di invitarle a un matrimonio.
Shirin lanciò un'occhiata inquisitrice al fratello e a me, prima di esclamare: «Matrimonio? Matrimonio di chi?».
«Il mio, naturalmente. Non ti piacerebbe che mi sposassi?»
«Be', dipende da chi è la ragazza...»
«Noi non la conosciamo, ma loro si amano...» risposi al posto di Masuud.
«Non mi dire che è quella sfacciata che chiama cento volte al giorno... è lei, Masuud? Ci avrei scommesso che c'era sotto qualcosa! Hai capito mamma? Quando pensavamo che fosse un maniaco...»
Masuud arrossì vistosamente. «Ma cosa dici? È così timida che non riesce a parlare quando non sente la mia voce e allora riattacca!»
«Timida?! Veramente parla, eccome se parla... Mi dice: "È in casa Masuud Khan?" e quando le chiedo: "Chi lo desidera?" risponde con una vocina che fa venire i nervi: "Lo richiamerò io!". Mi è sembrata pomposa e vanitosa...»
«Adesso basta! Mamma, dobbiamo ordinare dei fiori per dopodomani, e ricordati di indossare un vestito elegante.»
Lo guardai stupita. «Sembri molto esperto, come se avessi fatto altri khastegari!»
«Veramente mi ha spiegato Ladan cosa fare, in modo da piacere anche ai suoi genitori...»
«Vengo anch'io!»
«No, non si può, verrai la prossima volta!»
«Certo che posso! Si dà il caso che io sia la sorella dello sposo, dovrò pur vederla anch'io e dare la mia approvazione!»
«Non quando la sorella dello sposo è una bambina...»
«Bambina? Ho diciotto anni! Mamma, ti prego, digli qualcosa!»
«In effetti, Masuud, di solito ci vanno la madre e le sorelle dello sposo al khastegari. E lei non è più una bambina. Alla sua età io ero già mamma!»
«No mamma, questa volta è meglio di no. Verrà la prossima.» Il muso, il pianto e la rabbia di Shirin non smossero Masuud dalla sua decisione. Sembrava che stesse ubbidendo a degli ordini...
Il cesto dei fiori era così grande che quasi non ci stava in macchina. Mi sembrò eccessivo e lo dissi a Masuud. Ma anche quella era stata un'indicazione di Ladan, perché lui superasse tutti gli altri concorrenti...
La loro casa era grande e antica. Le stanze erano arredate con pezzi d'antiquariato. Non avevo mai visto tanti vasi di porcellana nemmeno in un negozio. Divani stile impero con le gambe di legno, i braccioli dorati e un rivestimento giallo o rosso carminio. Quadri enormi, riproduzioni di opere d'arte famose, in vistose cornici intarsiate. Tende scarlatte con la bordatura color oro. Sembrava un albergo lussuoso e un po' pacchiano più che un'abitazione...
La madre di Ladan era una donna della mia età, truccata e con i capelli tinti di biondo. Indossava un paio di sandali con il tacco alto e non portava le calze. Continuava a fumare. Suo padre era un uomo gentile con i capelli brizzolati. Teneva la pipa in un angolo della bocca mentre parlava incessantemente della sua famiglia, dei loro antenati famosi, della gente importante che conoscevano e degli innumerevoli viaggi all'estero che avevano fatto... Per lo più io ascoltavo. Quella serata per me doveva essere di conoscenza reciproca, e anche se loro si aspettavano che introducessi la questione che gli stava a cuore, pensavo seriamente che fosse troppo presto!
La madre volle farmi vedere la casa a tutti i costi, e anche se mi schermii, mi spinse letteralmente persino nelle camere da letto... ero imbarazzata, mi sembrava di violare la loro vita privata, e nello stesso tempo una sorta di curiosità cattiva mi fece proseguire. Ebbi conferma di ciò che avevo già visto: tende spesse e costose e mobili pretenziosi ovunque.
Tornando a casa, Masuud mi chiese infastidito perché non avessi parlato del matrimonio. Risposi che era solo il primo incontro...
Shirin mi chiese subito com'era andata, e si sedette sul mio letto a gambe incrociate, in attesa.
«Tu fammi delle domande precise e io vedrò di risponderti», le dissi.
«Com'era lei?»
Per quanto cercassi di ricordarmi una sua caratteristica particolare, non mi venne in mente niente. «Be', è abbastanza piccola, e piuttosto in carne!»
«Una grassona! E poi?»
«Credo che abbia la pelle chiara, ma era molto truccata e le luci del salotto erano soffuse... Gli occhi dovrebbero essere marroni, i capelli sono tinti di un castano dorato e li portava raccolti.»
«E com'era vestita?»
«Una gonna nera aderente che arrivava al ginocchio e una giacca con motivi neri, rosa e viola.»
«Uau, niente male... E come sono mammina e papino?»
«Non parlare così, non mi piace affatto! I suoi genitori sembrano persone a modo. Sua madre deve avere la mia età, si tiene molto bene ed era molto elegante. E la casa è piena di vasi, quadri e mobili antichi.»
«Quando tornò dalla guerra, quel signorino di mio fratello era diventato un gran musulmano. Se mi truccavo andava su tutte le furie e mi diceva di indossare bene il rusari... e adesso vuole sposare una ragazza del genere? Come farà a dirlo a tutti i suoi amici hezbollah!»
Le confessai che anch'io ero sorpresa, mi sembrava che mio figlio fosse cambiato, e non potevo dire che quella famiglia mi fosse proprio piaciuta.
A ogni visita la differenza fra noi e loro diventava più evidente, e mi rendevo conto che quei due giovani non stavano affatto bene insieme, ma Masuud sembrava non accorgersene. Era così infatuato che aveva perso la lucidità. Però aveva paura di parlarne con me, e io non dicevo nulla in attesa che prendesse lui l'iniziativa. Nessuno di noi faceva commenti, ci limitavamo a frasi come «domani verranno loro da noi» oppure «ci ha invitati la sorella maggiore di Ladan»; io non mi opponevo a quegli incontri, non esprimevo giudizi e continuavo ad ascoltare i loro discorsi. Così venni a sapere che la mehrieh31 della figlia più grande era di qualche centinaio di monete d'oro che poi lo stesso sposo aveva raddoppiato, che la cugina di Ladan che si era sposata da poco aveva comprato un anello di diamanti, e aveva speso una fortuna per l'abito da sposa... Ma era chiaro che molte delle cose che raccontavano non erano vere perché si contraddicevano a vicenda. Una volta non riuscii a trattenermi e commentai con malignità: «Beati voi che in queste poche settimane avete partecipato a così tanti matrimoni!». Ammutolirono e si guardarono sorpresi.
Stavano cominciando a perdere la pazienza, perché io non mi decidevo a fare la richiesta ufficiale di matrimonio, e discutevano su quale fosse tra l'estate e l'autunno la stagione migliore in cui sposarsi. Non sapevo cosa fare. Per quanto mi sforzassi di capire lei e la sua famiglia, quella ragazza non mi piaceva affatto e non riuscivo a stringere alcun rapporto con gente che parlava solo di soldi, cerimoniali e vestiti. Non volevo scatenare una lite con Masuud, e non volevo dirgli quello che pensavo per paura che si chiudesse a riccio e si mettesse sulla difensiva. Doveva arrivare da solo a capire quanto fossero male assortiti come coppia.
Su pressione di Ladan, un giorno Masuud mi affrontò. «Fino a quando pensi di portare avanti questo gioco, mamma?»
«Quale gioco?»
«Quello di procrastinare la decisione, di non parlare di matrimonio...»
«Cosa vorresti che dicessi esattamente?»
«Comincia con la tua opinione...»
« E tu che opinione hai? Anche tu hai fatto conoscenza da poco con la famiglia di Ladan. Come ti sono sembrati?»
«A me non importa niente della sua famiglia. Io amo lei!»
«Ma lei è cresciuta in quella famiglia e ha l'impostazione culturale e l'educazione che le hanno dato.»
«E cosa c'è di sbagliato nella loro impostazione culturale? Mi pare che siano persone come si deve e hanno anche classe da vendere!»
Rimasi in silenzio per qualche istante. Quella espressione non faceva parte del suo vocabolario.
«Cosa vuole dire secondo te avere classe da vendere? E da cosa deduci che sono persone come si deve? Dai vasi di porcellana e dai mobili antichi? Dal fatto che seguono la moda e non parlano d'altro e criticano il loro prossimo?»
«Mamma, tu stessa tieni all'apparenza! Mi rimproveravi perché la mia camicia non si abbinava mai ai miei pantaloni e andavi in giro a cercare mobili e accessori per la casa!»
«Amare la bellezza e rendere accogliente la propria casa sono qualità positive e sintomo di gioia di vivere e io le condivido. Ma dico anche che il modo di vivere rappresenta il modo di pensare e la cultura delle persone. Non hai visto che non ci sono libri a casa loro? Non ti sei accorto che quando parlano di un'opera d'arte è per il suo valore materiale e non culturale? Mi piacerebbe conoscere la loro linea di pensiero...»
«E perché mai?»
«Per tutta la vita sono stata condizionata dalle idee politiche e religiose e dal modo di pensare degli altri. Per questo vorrei sapere chi ho davanti e sarebbe utile anche a te. Per esempio, Ladan ti ha mai parlato di qualcosa che ha letto? Ti ha espresso le sue opinioni in qualche campo? Figlio mio, tu sei un artista, sei cresciuto fra i libri. Condividete l'interesse per l'arte? E poi, con l'importanza che dai alla religione soprattutto dopo il periodo di prigionia, come potrai convivere con una famiglia che della religione conosce soltanto il soffreh del santo Abol Fazl, e lo considera una specie di cerimonia nuziale? Loro stanno dalla parte dello scià e sperano che torni suo figlio Valiahd, ma non perché rispecchia i loro ideali, semplicemente perché a quei tempi si potevano bere alcolici e stare in bikini sulla spiaggia... Con il nostro passato e la nostra storia non abbiamo punti di contatto con questa famiglia. Mio caro Masuud, questa ragazza non c'entra nulla con te. Non si vestirà mai come vorrai tu. E ogni volta che dovrete prendere una decisione litigherete.»
«Se è per questo, indosserebbe anche il chador per me!»
«Te l'ha detto lei? E tu le hai creduto? E se anche fosse, non sarebbe comunque giusto. Se ha una sua opinione, non dovrebbe rinunciarvi così facilmente e diventare schiava delle tue idee religiose!»
«La verità è che non ti piacciono, punto e basta.»
«No, non è questo, tesoro, sono sicuramente brave persone, forse migliori di noi, ma sono così diversi... e poi questa decisione riguarda la tua vita e il tuo futuro e per me questo vale più di qualsiasi altra cosa.»
«Mamma, io la amo! Quando parla mi sento strano, i suoi gesti e la sua risata mi incantano, non avevo mai visto una ragazza così femminile. È diversa dalle altre...»
Lo guardai stupita. Aveva ragione, perché non l'avevo capito prima? Per Masuud quella ragazza era intrigante perché era diversa da tutte le donne con le quali aveva avuto a che fare nella sua vita. Noi tenevamo nascosta la nostra femminilità, mentre lei la mostrava. Quella ragazza aveva gesti armoniosi, persino la sua voce al telefono preannunciava grazia e sensualità. Non poteva che essere attraente per un uomo, tanto più se era un ragazzo semplice come Masuud, che non aveva mai incontrato ragazze così. Ma io come potevo fargli capire che si trattava di desiderio e non d'amore? E che sicuramente non era un fondamento solido sul quale basare il rapporto di una vita? Se glielo avessi detto lo avrei perso per sempre. Allora cambiai tattica.
«Il mio desiderio più grande è la felicità dei miei figli. E credo che la felicità stia in un matrimonio fatto d'amore, fiducia, comprensione e stima. Perciò farò quello che desideri anche se è contrario al mio pensiero. L'unico favore che ti chiedo è che restiate fidanzati per almeno un anno. In questo arco di tempo avrete modo di conoscervi meglio, e noi potremo mettere da parte un po' di soldi per un ricevimento di nozze come quello che ci hanno chiesto. Avrai notato almeno che i loro desideri sono piuttosto costosi... Questa è la mia unica condizione!»
La famiglia di Ladan protestò, ma quando mi videro ferma sulla mia decisione furono costretti ad accettare. Ero sicura che la loro preoccupazione per il fidanzamento lungo non dipendesse da scrupoli morali o religiosi, ma dal timore che il matrimonio potesse non aver luogo. Naturalmente vollero organizzare una festa di fidanzamento sontuosa, e invitare tutti i parenti a conoscere il futuro sposo. Non potevo più nascondere la faccenda, ma come avrei fatto a raccontare la storia di quel khastegari a Fati, Firuzeh e Agha Sadegh?
Una mattina mi recai a casa loro. Iniziai parlando del volere di Dio e del destino... Fati mi ascoltava attenta e non capiva. Poi mi chiese di parlare chiaro. Le dissi che avevo sempre desiderato chiedere in sposa Firuzeh per Masuud, ma sembrava che quello non fosse il volere di Dio. Fati si oscurò in volto.
«Sentivo che era successo qualcosa... è davvero Dio a non volerlo o siete voi?»
«Ma cosa stai dicendo, Fati? Io voglio bene a Firuzeh quanto alla mia Shirin, il loro matrimonio era il mio più grande desiderio, pensavo che fosse già tutto prestabilito!
Ma Masuud è impazzito e dice di essere innamorato di un'altra. Mi ha costretta ad andare a chiederle la mano e ora si fidanzeranno...»
Vidi l'ombra che si era immobilizzata davanti alla porta con in mano il vassoio del tè. Firuzeh mi fissava chiedendomi con gli occhi «perché?».
Delusione e amarezza trasparivano dal suo viso. Ma presto si aggiunsero anche rabbia e rancore. Corse verso la sua stanza. Fati si girò e mi guardò con freddezza.
«Sin da quando era bambina avete detto che Firuzeh sarebbe stata di Masuud. E avevano un bellissimo rapporto. Non puoi dire che Masuud non tenesse a Firuzeh e che non l'amasse!»
«Certo che l'amava, ma adesso dice che era un amore fraterno... Fati cara, qualsiasi cosa tu dica, non posso che darti ragione. Anch'io sto impazzendo! L'unica cosa che sono riuscita a fare è stata quella di rimandare questo matrimonio assurdo. Siamo d'accordo che rimarranno fidanzati per un anno. E spero che finalmente mio figlio apra gli occhi.»
«Ma cosa stai dicendo sorella? Si è innamorato e basta... non possiamo farci nulla. Inshallah che abbiano una vita felice insieme, e tu non puoi pensare alla loro separazione ancora prima del loro fidanzamento come una suocera malevola!»
«Non hai idea di quanto io ci stia male, Fati. Se avessero almeno una cosa in comune, non sarei cosi dispiaciuta, ma sono talmente diversi! Non dico che sia una ragazza cattiva, ma non c'entrano niente con noi, se verrai al fidanzamento te ne accorgerai tu stessa, anzi vorrei avere un tuo parere perché io ormai sono prevenuta. Shirin poi non la sopporta proprio: se Masuud sapesse quello che dice su di lei, taglierebbe definitivamente i ponti con noi.»
«Ma sorella, dovrà pur avere qualcosa che la rende desiderabile agli occhi di Masuud!»
Decisi di andare a parlare a Firuzeh. Bussai dolcemente alla porta e la aprii piano. Era stesa sul letto, gli occhi azzurri arrossati dal pianto. Appena mi vide si voltò per non mostrarmi il viso rigato di lacrime. Stavo male, non sopportavo di veder soffrire quella ragazza così dolce e meravigliosa. Mi sedetti sul bordo del letto, le accarezzai la schiena. Dissi: «Masuud non ti merita, aspetta e vedrai come si pentirà. Quello che ci perde è soltanto lui. Quello stupido sta buttando via la possibilità di una vita felice. Tutte le mie speranze erano puntate su di te. E un vero peccato che lui non ti meriti».
Le sue spalle tremavano, ma non diceva nulla. Conoscevo bene il dolore per la sconfitta in amore e non potevo fare niente per lenirlo. Mi alzai, stanca e abbattuta, e tornai a casa.
Alla cerimonia di fidanzamento, da parte nostra parteciparono le zie di Masuud, oltre a Khanum Jun, Fati, Sadegh Khan e Parvin Khanum. Masuud era bello e affascinante in un completo elegantissimo e stava in piedi accanto a Ladan che, appena uscita dal parrucchiere, indossava un abito di pizzo e aveva dei fiorellini tra i capelli. Shirin stizzita disse: «Che bella cravatta ha il nostro sposo! Ma non era proprio lui a dire di odiare la cravatta perché è come un guinzaglio? Guarda come gliene hanno messo uno al collo senza difficoltà... Ah, se lo vedessero i suoi colleghi in questo momento!32»
Facevo del mio meglio per apparire allegra, ma non provavo alcuna bella sensazione. Pensavo ai miei sogni per il matrimonio di Masuud. Avrebbe dovuto essere una delle più belle serate della mia vita...
Shirin brontolava in continuazione, non c'era una cosa che le andasse bene e quando qualcuno faceva ai fidanzati gli auguri di una vita felice insieme si girava dall'altra parte storcendo il naso...
Masuud ci guardava deluso e io non sapevo cosa fare.
Non erano passati tre mesi dal fidanzamento di Masuud che Firuzeh si sposò. Sembrava che io fossi l'ultima persona ad avere ricevuto la notizia. Mi sentii stringere il cuore. Firuzeh era così bella, colta e intelligente che non dubitavo che avesse file di pretendenti, ma non avrei mai pensato che si sarebbe sposata così in fretta! Andai a trovarla e le dissi: «Tesoro, perché così in fretta? Concediti del tempo per apprezzare e amare seriamente qualcun altro, qualcuno che sappia capire il valore di un gioiello come te!». Ma lei mi rispose con una risata amara. «No zia, non proverò mai più lo stesso sentimento per qualcun altro e ho dato il via libera ai miei genitori di scegliere un ragazzo che secondo loro vada bene per me, e devo dire che Sohrab non mi dispiace affatto: è un bravo ragazzo, buono e intelligente, e sono certa che un giorno me ne innamorerò e mi dimenticherò di tutto il resto.»
«Certo, ma perché non aspetti un anno anche tu? Non credo che lo stupido fidanzamento di Masuud possa durare ancora a lungo, si stanno già facendo sentire i primi problemi...»
«No zia, anche se Masuud si presentasse qui adesso, gettandosi ai miei piedi, se rompesse il suo fidanzamento e mi chiedesse di sposarlo, non lo accetterei. Era un idolo per me e quell'idolo è crollato: niente sarebbe più come prima.»
«Perdonami se ti ho detto queste cose... forse hai ragione tu, ma non hai idea di quanto desiderassi averti come nuora!»
«Magari non fosse stato così! Dal giorno in cui ho aperto gli occhi mi sono vista come vostra nuora e moglie di Masuud! E ora mi sento come una donna che è appena stata tradita dal marito sotto i suoi stessi occhi, mentre in realtà il povero Masuud non ha fatto nulla, non mi doveva niente, non aveva mai preso un impegno con me, e ha il diritto di scegliere chi vuole. Sono state le tue parole a illudermi!»
Fortunatamente Sohrab era davvero un bel ragazzo, buono e intelligente, era cresciuto in una famiglia come si deve e stava completando gli studi in Francia. Un mese dopo il matrimonio partirono per Parigi e io li accompagnai all'aeroporto insieme a Fati e alla sua famiglia. Desideravo il meglio per loro, ma avevo il cuore stretto.
Il fidanzamento di Masuud e Ladan durò soltanto sette mesi. Era come se mio figlio si fosse svegliato improvvisamente da un sonno profondo.
«Non avevamo nulla da dirci. Io parlavo di architettura, disegno e arte, del mio pensiero sulla religione e la cultura, e lei non capiva niente, anche se all'inizio aveva mostrato interesse e passione per le stesse cose. In realtà pensava soltanto al suo aspetto, all'acconciatura e ai vestiti, non gliene importava niente nemmeno dello sport. Non hai idea di quanto fossero stupidi e infantili i suoi discorsi! Riuscivo ad attirare la sua attenzione soltanto quando parlavo di soldi. Anche la sua famiglia è così: interessata solo all'apparenza. La loro idea di dignità è completamente diversa dalla nostra!»
Quella decisione mi fece tirare un sospiro di sollievo, ma ero molto dispiaciuta che Masuud avesse perso Firuzeh, soprattutto perché sentivo una nota di rimpianto e di rimorso anche nella sua voce. Probabilmente era stato proprio il matrimonio di Firuzeh a dargli il primo scossone e a spingerlo a svegliarsi, ma era troppo tardi. Masuud si attaccò di nuovo al lavoro e allo studio. Il suo rapporto con Shirin tornò come prima e la nostra famiglia recuperò la normalità.
Masuud si sentiva in colpa per avermi fatto tribolare e per il modo in cui mi aveva trattata in quei mesi e voleva rimediare. Un giorno tornò a casa tutto eccitato e mi disse: «Mamma ho una notizia fantastica per te: ti ho sistemato il lavoro!».
Cosa significava? Io ero a posto con il lavoro...
«Intendevo dire che ho sistemato tutto perché tu possa terminare gli studi. So che hai sempre sognato di laurearti e di continuare con una specializzazione. Non dimenticherò mai la tua espressione quando ti cacciarono dall'università. Il vicerettore è uno dei miei ex compagni di trincea, gli ho parlato, e hanno accettato di riammetterti in modo che tu possa dare gli ultimi esami che ti sono rimasti e laurearti. Poi potrai studiare anche per il dottorato, e da come ti conosco sono certo che te la caverai alla grande!»
Nella mia mente si riversarono simultaneamente pensieri opposti. Non avevo più sperato di ottenere quel pezzo di carta, ma non provai nessuna gioia a quella notizia.
Dissi: «All'università avevo una compagna di nome Mahnaz che teneva una frase incorniciata sul muro. La frase diceva: "Tutto quello che volevo l'ho ottenuto il giorno in cui non lo desideravo più"».
«Vorresti dire che non ti interessa più la laurea?»
«Sì, tesoro, ti sei preso disturbo per niente...»
«Ma perché?»
«Perché?! Mi hanno privata dei miei diritti per tutti questi anni. Persino dello stipendio che mi guadagnavo faticosamente e che era necessario alla nostra famiglia in quegli anni di difficoltà e penuria. E ora vorrebbero raccomandarmi e farmi un favore! No, non ne ho più bisogno. Adesso tutti riconoscono le mie capacità. Spesso correggo anche i testi di chi è arrivato al dottorato. Sono stimata da tutti, nessuno mi chiede più quel pezzo di carta e parlarne mi fa anche un po' ridere!»

49.

Quello stesso anno Shirin fu ammessa alla facoltà di sociologia. Ero felice e orgogliosa del fatto che tutti e tre i miei figli fossero riusciti a entrare all'università. Shirin strinse presto nuove amicizie e io, per tenerla d'occhio, la incitavo a invitare i suoi amici a casa nostra. Così ero certa che fosse al sicuro, riuscivo a conoscere chi frequentava e cercavo di creare un ambiente sano intorno a lei. Casa nostra divenne il rifugio di tutti i suoi amici, e anche se questo comportava più pulizie, pranzi e cene, ne ero soddisfatta e lo accettavo di buon grado.
Due anni dopo, all'inizio dell'inverno, nacque la prima nipotina mia e di Parvaneh. Per la sua nascita andai in Germania. Era una neonata bellissima e dolce che chiamarono Doma, Io e Parvaneh ne eravamo innamorate, le cambiavamo i pannolini e spesso finivamo per discutere se assomigliasse più a Siamak o a Leyli... La gioia e la pace mi riempivano l'anima. Nonostante fossi diventata nonna, mi sentivo più felice di quando ero giovane. Quando la bambina ebbe due mesi, nonostante separarmi da lei fosse veramente difficile, non ebbi altra scelta che tornare in Iran per il Noruz, perché non potevo lasciare ancora soli Shirin e Masuud. Al ritorno trovai dei cambiamenti, primo fra tutti un nuovo amico di Shirin che non avevo mai visto prima. Si presentò con il nome di Faramarz e mi spiegò che stava prendendo la specializzazione. Dopo i soliti convenevoli dissi ridendo: «Ti do il benvenuto in questo covo di laureandi in sociologia... Non capisco come tu faccia a sopportarli!».
«Eh, è dura...» rispose con un sorriso, ma guardava Shirin con occhi pieni di ammirazione.
Dopo che se ne furono andati, Shirin mi chiese cosa pensassi dei suoi amici. Risposi che li conoscevo già quasi tutti e avevo poco da dire...
«E allora dimmi cosa ne pensi di quelli che non avevi mai visto!»
«Vediamo... non mi pare di avere mai visto la ragazza alta che sedeva sul divano e il ragazzo che le era accanto...»
«Non sbagli, lei è Neghili e il lui è il suo fidanzato. Sono davvero bravi ragazzi, si sposeranno il mese prossimo e siamo stati invitati anche noi.»
«Sì, sembrano proprio una bella coppia...»
Avevo capito che aspettava il mio commento su Faramarz, ma mi divertivo a stuzzicarla e volevo vedere quanto avrebbe resistito prima di esplodere.
«Possibile che tu non abbia notato un ragazzo grande e grosso?»
«Ce n'era più d'uno, mi pare: a quale ti riferisci?»
«Faramarz! Quello che ha detto che sei ancora molto bella e che da giovane dovevi proprio essere una bella ragazza...»
«Gran bravo ragazzo!» esclamai scoppiando a ridere. «Anche lui non mi sembra male...»
«Tutto qui?»
«Cosa pretendi che abbia capito da un incontro così breve? Parlami un po' di lui e vedrò di farmene un'idea.»
«Dunque... è il secondo di tre fratelli. Ha ventisette anni, è colto, sua madre è una professoressa di liceo e suo padre è ingegnere ed è spesso via per lavoro. Lui stesso frequenta ingegneria e lavora nello studio del padre.»
«E allora cosa c'entra con voi "sociologi", dove l'hai conosciuto?»
«E il migliore amico di Surush, il fidanzato di Neghin, e gira sempre con lui; così lo vedevamo spesso in facoltà, e da quando sei partita è entrato a far parte a tutti gli effetti del nostro gruppo, e sta sempre con noi.»
Mi aveva raccontato i fatti, ma io le chiesi di dirmi qualcosa del carattere di quel ragazzo, e soprattutto se le piaceva.
«Perché, mamma? Cosa penseresti se ci fosse più di una semplice amicizia?»
«Tesoro mio, sei grande, compirai ventun anni fra poco, e ho completa fiducia in te, conto sull'educazione che ti ho dato. So che non ti è mai mancato l'affetto della famiglia e non hai bisogno di dire di sì al primo che capita. Sai bene cosa vuoi, e non permetteresti a nessuno di calpestare quello che sei. Pensi e ragioni di testa tua, sai controllare le tue emozioni e prendere decisioni sensate meglio di me... Ti basta?»
«Davvero? Davvero tu pensi che io sia così?»
«Certo Shirin! È questo nuovo sentimento a farti dubitare di te stessa? Hai paura di perdere il controllo sulla ragione?»
«Sì, non hai idea di quanto abbia paura!»
«E normale, anzi sono felice che tu ti senta così, perché significa che rifletti e sei consapevole di te stessa. Per il momento pensa a studiare e a imparare, fai pure progetti per il futuro, ma concediti del tempo per conoscere meglio sia lui sia te stessa.»
«Ma io penso sempre a lui, vorrei vederlo più spesso, stare di più con lui...»
«Lo vedi sempre all'università! E puoi invitarlo qui quando vuoi, ma preferirei esserci anch'io, vorrei conoscerlo meglio.»
«Temi che io magari, non so... possa finire per esagerare?»
«No, non lo farai... Ho fiducia in te. Una ragazza determinata a fare ciò che vuole continuerebbe per la propria strada anche se la legassero con infinite catene. Tu hai una personalità forte e solidi valori, ed è questo che conta!»
«Grazie mamma, sei fantastica! Ora mi sento molto meglio, stai sicura che terrò tutto sotto controllo...»

50.

Dopo le vacanze di Noruz, un pomeriggio in cui eravamo soli in casa, Masuud si sedette accanto a me e mi disse che voleva prendere una «decisione seria» per il suo futuro. Tutti i suoi amici si erano sistemati e lui si sentiva sempre più solo. Anche per me era giunto il momento che lo facesse, ed era un po' che volevo parlargliene, ma i khastegari non mi erano mai piaciuti e desideravo che lui trovasse da sé una ragazza in gamba da sposare. L'errore che aveva commesso la prima volta lo aveva spaventato e bloccato e forse non si sarebbe mai innamorato davvero. Il ricordo di Firuzeh mi strinse il cuore. Ma anche mio figlio aveva il diritto di essere felice. Sospirai e gli chiesi di chi si trattava.
«Il signor Maghsudi ha una figlia di venticinque anni che studia chimica. E dal suo comportamento mi è sembrato che non gli dispiaccia affatto l'idea di avermi come genero.»
«Il signor Maghsudi è una persona splendida, sono certa che lo sia anche la sua famiglia, anche se come dirigente di un ministero ha il difetto di lavorare in politica, e lo sai quanta paura mi faccia ormai quella parola!»
«Devi controllarti, mamma! Se tutti la pensassero come te, chi lo manderebbe avanti questo paese? Scusami ma credo che ti serva uno psicoanalista...»
Naturalmente acconsentii al khastegari, ma quando io e Shirin fummo pronte a uscire Masuud ci chiese di portare il chador come segno di rispetto per il signor Maghsudi. Mi infuriai.
«Senti Masuud caro, non credi che anche noi siamo delle persone, che abbiamo diritto alle nostre idee e scelte? Non voglio più cambiare aspetto ogni volta che mi viene chiesto! Hai idea di quante volte nella mia vita abbia dovuto farlo? A Qum giravo con il chador. Arrivata a Teheran mi permisero di portare il rusari. Dopo il matrimonio tuo padre volle che non rispettassi più l'hijab, il precetto del velo. Poi è arrivata la rivoluzione religiosa che ci ha imposto il rusari e il manteau. Poco tempo fa tu mi hai chiesto di essere elegante e alla moda per il khastegari di Ladan, e adesso per chiedere la mano della figlia del tuo capo mi chiedi di rimettermi in testa il chador? No, figlio mio, non mi sono mai opposta, ma adesso lo devo fare. Una donna della mia età e con la mia esperienza deve poter decidere come vestirsi e comportarsi. Noi dobbiamo presentarci a questo khastegari per quello che siamo, non facendo qualcosa che non ci appartiene per piacere a loro!»
Atefeh era una ragazza religiosa, posata, educata e colta. Aveva la pelle chiara e grandi occhi color miele. Sua madre era una donna gentile e continuava a offrirci dolci e frutta, il marito un uomo buono e piacevole e io mi sentivo ancora debitrice nei suoi confronti per l'aiuto che aveva dato a Masuud. Era un po' ingrassato, con i capelli quasi tutti bianchi. Continuava a rigirarsi tra le dita il tasbi che aveva in mano. Da quando facemmo il nostro ingresso, Masuud e il signor Maghsudi parlarono del lavoro e del ministero, come se la nostra visita non avesse altri scopi. Nonostante l'atmosfera religiosa mi ricordasse la casa di Mahmud e Ali, non ebbi nessuna sensazione negativa. La fede e la conoscenza di Dio che si respiravano in quella famiglia trasmettevano pace e serenità. Non si sentiva la minaccia dell'inferno e della morte, le risate e l'allegria non erano peccato, e anche Shirin, che a causa dei suoi zii non sopportava le famiglie religiose, si trovò a suo agio e si mise subito a chiacchierare con Atefeh.
A metà primavera celebrammo le loro nozze. Nonostante Masuud anni prima avesse comprato un bell'appartamento, grazie alle opportunità che gli erano state concesse dall'ufficio, il signor Maghsudi insistette perché andassero a vivere al secondo piano della loro casa, dove avevano un appartamento vuoto che volevano lasciare alla figlia.
Il giorno in cui Masuud raccolse le sue cose per separarsi da noi, cercai di mostrarmi allegra e felice. Lo aiutavo e scherzavo. Ma quando se ne andò, mi sedetti sul letto della sua stanza vuota, e rimasi a fissare le pareti e la porta. La casa senza di lui sembrava deserta e senz'anima. Sentivo il cuore gonfio di tristezza. Pensai: "Gli uccellini hanno spiccato il volo e il nido è rimasto vuoto". E per la prima volta provai terrore per la solitudine che mi aspettava.
Shirin, che era appena tornata, socchiuse la porta e disse: «Se n'è andato? Com'è vuoto qui adesso!».
«Sì, tutti i figli prima o poi se ne vanno, ma questo è il modo migliore di separarsi. Grazie al cielo lui è felice e sano e io sono riuscita a vedere il suo matrimonio...»
«Ma mamma, detto fra noi, siamo rimaste parecchio sole adesso, no?»
«Sì, ma per fortuna siamo insieme, per fortuna ci sei tu, e manca ancora qualche anno prima che tu te ne vada!»
«Qualche anno?»
«Non credo che tu abbia intenzione di sposarti prima di aver finito gli studi, o sbaglio?»
Arricciò le labbra, alzò le spalle e rispose: «E chi lo sa? Forse potrei sposarmi tra un paio di mesi... Forse potrebbe succedere qualcosa che non mi lascerà altra scelta...».
«Di cosa stai parlando? Non farti carico troppo presto delle responsabilità di moglie! Finisci di studiare, trova un lavoro, conquista la tua indipendenza e poi potrai pensare al matrimonio. Ricordati che dopo sarai una moglie e una madre per sempre, che la libertà e la spensieratezza che hai adesso non si ripeteranno più! Che fretta hai di chiudere un periodo così bello?»
Masuud passava a trovarmi regolarmente e mi diceva che avrei dovuto smettere di lavorare e riposarmi. Dopotutto non ne avevo più bisogno. Cercai di fargli capire che io amavo il mio lavoro: mi teneva impegnata e non mi faceva sentire inutile. Ma lui, non so come, sistemò tutto per mandarmi in pensione. Avere la garanzia di una somma sicura ogni mese mi tranquillizzava, ma non potevo stare senza lavorare e continuai ad accettare piccoli lavori di battitura o correzione, anche se Masuud metteva a mia disposizione più denaro del necessario. Sapevo che godeva di un'ottima situazione finanziaria, ma non ero soddisfatta del suo lavoro d'ufficio. Gli dicevo continuamente che lui era un architetto e un artista, non doveva accontentarsi di fare l'impiegato, e poi era legato ai suoi capi e, se loro se ne fossero andati, avrebbe avuto problemi anche lui. Anche Masuud non ne poteva più di quel lavoro e stava aspettando l'occasione giusta per cambiare. Voleva mettersi in proprio facendo società con altri ragazzi, ma doveva avviare l'attività prima di lasciare il lavoro per non correre il rischio di restare disoccupato.


51.

Per quanto avessi sperato di rimandare il più possibile, qualche mese dopo fui costretta ad affrontare il problema del matrimonio di Shirin. Faramarz aveva preso la specializzazione e si stava organizzando per partire per il Canada. Insistevano per sposarsi prima della sua partenza, in modo da poter avere il permesso di soggiorno in Canada anche per Shirin. Io non volevo assolutamente che Shirin lasciasse gli studi, ma mi assicurarono che per sistemare i documenti di Shirin ci sarebbe voluto un anno e lei nel frattempo avrebbe avuto modo di laurearsi. Il pensiero di allontanarmi anche da lei mi era insopportabile. Ma quando vedevo la sua gioia per quel legame, non potevo nemmeno pensare di impedirle di andarsene. Così anche loro si fidanzarono, e dopo poco Faramarz partì. Shirin avrebbe terminato gli studi e allora lui sarebbe tornato per il ricevimento di nozze e sarebbero ripartiti insieme.
Avevo adempiuto al mio dovere nonostante tutte le difficoltà. I miei figli avevano studiato con successo e si erano sistemati. Mi ero tolta un enorme macigno dalle spalle ma, come nei giorni che seguono un esame importante, mi sentivo vuota e senza più ambizioni. Cosa dovevo fare ora? Apparentemente non avevo più altro da realizzare. Ringraziavo Dio di tutto, perché non mi ritenesse indegna e non mi punisse come in passato. Cercavo di farmi coraggio pensando che mancava ancora un anno alla partenza di Shirin. Ma non potevo ignorare le ombre della vecchiaia e della solitudine davanti a me...
Più si avvicinava la partenza di Shirin, più aumentavano in me l'inquietudine e la malinconia. Lottavo con me stessa per combattere quei sentimenti, per non mostrarmi troppo attaccata e dipendente agli occhi dei miei figli. Non volevo che si preoccupassero per me e non volevo diventare un'anziana madre rompiscatole. Cercai di intensificare la mia vita sociale e di riempire il tempo libero che aumentava di giorno in giorno. Ma trovare degli amici a quell'età non era facile. Con la famiglia non avevo più nessun rapporto: Khanum Jun era vecchia e invalida e viveva a casa di Mahmud. Non era disposta a venire a casa nostra per passare qualche giorno con noi e io non volevo andare a casa di Mahmud, per cui la vedevo pochissimo. Anche Parvin Khanum si stava avviando verso la vecchiaia e non aveva più la pazienza e le energie di un tempo, anche se rimaneva l'unica persona sulla quale potevo contare nel momento del bisogno. Fati, dopo la partenza di Firuzeh, era triste e depressa. Non si trovava più a suo agio con me, era chiaro che mi considerava almeno in parte responsabile della scelta e della lontananza della figlia. Ogni tanto mi trovavo con le ex colleghe d'ufficio e a volte vedevo anche il signor Zargar, che si era risposato da qualche anno e sembrava veramente felice. I pensieri tristi e le preoccupazioni mi abbandonavano solo quando Parvaneh tornava a Teheran. Ricordavamo i giorni felici della giovinezza, ridevamo e parlavamo liberamente. Quell'anno la madre di Parvaneh si era ammalata e lei passava la maggior parte del suo tempo a Teheran. Secondo lei avrei dovuto dare in affitto la mia casa e passare qualche mese da ciascuno dei miei figli.
«Non se ne parla proprio, non posso perdere la mia indipendenza, e non voglio assolutamente essere di peso ai miei figli. Hanno la loro vita. Non si usa più e anch'io non ritengo giusto che diverse generazioni vivano sotto lo stesso tetto.»
«Ma quale peso? Ti sei sacrificata per loro tutta la vita, è arrivato il momento che ricambino non lasciandoti sola.»
«Ti prego, non parlare così, mi fai tornare in mente mia nonna Naneh Jun che affermava: "Crescere un figlio maschio è come friggere le melanzane: richiede tanto olio, ma ne restituisce altrettanto...". Io non voglio nutrire questo genere di aspettative nei confronti dei miei figli. Era mio dovere crescerli al meglio delle mie possibilità anche per me stessa. Loro non hanno obblighi nei miei confronti e io voglio avere la mia libertà.»
«Libertà? Di fare cosa? Di restare a casa sola e triste e lasciare che loro si dimentichino di te con la coscienza a posto e l'animo in pace?»
Ma io ero convinta che la libertà fosse una conquista e che il presente, nonostante la solitudine, si prospettasse migliore del passato nel quale avevo spesso sofferto. E desideravo che la mia vecchiaia passasse in fretta...
Quando cominciarono le giornate calde dell'estate, ero impegnata a preparare il corredo di Shirin. Io e Parvaneh andavamo tutti i giorni a fare compere e con quella scusa passavamo le giornate insieme. Quel giorno era uno dei più caldi dell'estate. Mi ero appena sdraiata a riposare, quando il suono insistente del campanello mi fece sobbalzare. Era Parvaneh, che minacciò di buttare giù la porta se non le avessi aperto subito... Salì le scale in un lampo, aveva le guance rosse e gocce di sudore le imperlavano la fronte e il contorno delle labbra. Cosa poteva essere successo? Mi chiese dell'acqua, come ai vecchi tempi, prima di parlare...
«Non puoi immaginare chi ho visto... prova a indovinare!»
Sentii un tuffo al cuore e nello stesso istante seppi la risposta. Il comportamento di Parvaneh mi aveva riportato a oltre trentacinque anni prima. Con voce rotta chiesi: «Saeid?».
«Ma come diavolo hai fatto? Te l'ha detto qualcuno...»
Eravamo di nuovo due adolescenti che parlavano concitatamente e in segreto in casa dei genitori... Il mio cuore aveva ricominciato a sussultare come allora e lei, come allora, era emozionata ed eccitata.
«Avanti, dimmi! Dove l'hai visto? Con chi era? Com'è diventato?»
«Ehi, una domanda alla volta! Ero andata in farmacia a prendere le medicine per la mamma. Il dottore era in piedi dietro il bancone con qualcuno, ma non riuscivo a vedere chi fosse perché mi dava le spalle. La voce familiare e il fisico aitante mi hanno incuriosita e ho cercato di vederlo in faccia. Così, anche se mi avevano già servito, mi sono rivolta al dottore che mi conosce per salutarlo e far girare lo sconosciuto... Masum, era proprio lui! Non hai idea di come mi sia sentita impacciata e imbarazzata in quel momento, più che mai!»
«Anche lui ti ha riconosciuta?»
«Sì, ha una bella memoria! Dopo tutti questi anni, nonostante il manteau, il rusari e i capelli tinti è riuscito a riconoscermi. E io mi sono subito tolta gli occhiali affinché mi potesse vedere bene, e gli ho sorriso!»
«Avete parlato? E com'è diventato, è invecchiato molto?»
«Naturalmente ci siamo parlati, non ci sono più i tuoi fratelli a fare la guardia! Ha i capelli brizzolati e porta gli occhiali, ma non è cambiato molto, soprattutto gli occhi sono rimasti gli stessi...»
«Cosa ti ha detto?»
«Be'... innanzi tutto mi ha salutato e ha chiesto di mio padre. Io sono stata più sfacciata e gli ho domandato di lui: cosa fa, dove vive... Mi ha detto di aver vissuto in America per un periodo e di essere tornato e aver ricominciato a lavorare in Iran da qualche anno. Volevo scoprire se ha moglie e figli, ma non sapevo come, allora gli ho chiesto come sta la sua famiglia, la madre e le sorelle. Mi ha risposto che la madre è morta da molti anni e le sorelle si sono sposate e lui le vede poco da quando è tornato qui da solo. Era il momento giusto per sapere di più... e infatti ho scoperto che la moglie e i figli sono rimasti in America. "I ragazzi sono cresciuti lì e ci sono abituati, e mia moglie non poteva lasciarli soli", così mi ha detto.»
«E di me non ha chiesto nulla?»
«Sì! Mentre prendeva nota del mio numero di telefono mi ha chiesto se avevo notizie della "mia amica" e se ci vedevamo ancora. E io gli ho risposto subito di sì e che sicuramente ti avrebbe fatto piacere rivederlo. Dovevi vedere come gli si sono illuminati gli occhi... Però, da come mi ha chiesto se non c'erano problemi, secondo me ha ancora paura dei tuoi fratelli! Cosa vuoi che gli dica quando mi chiamerà?»
Mille pensieri diversi cominciarono a danzarmi nella mente, nel vero senso della parola, perché si muovevano così rapidi che non ero in grado di fermarne nessuno.
Parvaneh interruppe quella danza richiamandomi alla realtà. Voleva sapere come comportarsi, aveva intenzione di fissare un appuntamento a casa sua, o da me, quando Shirin era fuori...
Ero confusa. Era passato così tanto tempo, perché avremmo dovuto rivederci? Ma Parvaneh rispose con grande schiettezza, com'era nel suo stile: «Be', non è certo una novità: tu sei sempre confusa! Ma non hai voglia di rivedere un vecchio amico e di scoprire come ha vissuto, cosa ha fatto in tutti questi anni?».
Mi sembrava di essere una ragazzina: non riuscivo a ragionare con lucidità e mi tremavano persino le gambe al pensiero d'incontrarlo, ma allo stesso tempo non volevo rovinare il ricordo che aveva di me, non volevo che mi vedesse invecchiata...
«E perché mai? Anche lui è invecchiato. E poi, come dice Khossroh, tu sei migliorata invecchiando.»
«Non dire sciocchezze! Non mi guardo nemmeno più allo specchio...»
«Ma falla finita! E poi, che esagerazione... a sentirti sembra che abbiamo novant'anni, mentre sono solo quarantotto.»
«Veramente, cinquantatré...»
In quel momento entrò Shirin e noi ci ricomponemmo in fretta, come due bambine che hanno combinato qualcosa. Shirin salutò e baciò Parvaneh e andò nella sua stanza. Noi ci guardammo e scoppiammo a ridere. «Ti ricordi come nascondevamo le lettere di Saeid quando entrava Ali?»
Poi Parvaneh prese la decisione al posto mio. «Se mi chiama, lo invito domani pomeriggio alle sei a casa di mia madre. Lì è più sicuro. Ma tu vieni prima, va bene? E comunque ci sentiamo per telefono...»

52.

Andai in camera mia e mi sedetti davanti allo specchio guardandomi da vicino. Cercai di ritrovare nel mio volto qualcosa di quando avevo sedici anni. Esaminai con attenzione le piccole rughe intorno agli occhi che diventavano più profonde quando sorridevo. Due solchi ben evidenti partivano dai lati del naso e abbracciavano le labbra. Le graziose fossette rotonde che avevo sulle guance e che diventavano più profonde quando parlavo o ridevo si erano trasformate in una lunga linea. La pelle, una volta tesa e lucente, adesso era rilassata e opaca. Le palpebre formavano delle pieghe e la luminosità dei miei occhi si era spenta. I capelli castano scuro, folti e lucidi, che da ragazza mi arrivavano alla schiena, erano corti, fini e senza luce, e il bianco vi faceva capolino, nonostante le continue tinte. Perfino l'intensità del mio sguardo si era attenuata. No, non era rimasto niente della bella ragazza di cui un giorno Saeid si era innamorato.
Mentre ero persa alla ricerca di me stessa nello specchio, Shirin mi riportò alla realtà, chiedendomi cosa stessi facendo: non mi aveva mai visto fissarmi allo specchio con tanta intensità. Le risposi che avrei voluto mandare in frantumi qualunque specchio...
«Uau, cosa ti è successo? Non ti sei mai preoccupata del tuo aspetto, e non mi sei mai sembrata infelice di invecchiare, anzi hai sempre parlato con orgoglio della tua età, hai sempre affermato che ogni età ha la sua bellezza!»
«È vero, ma spesso un evento, una foto ti riportano indietro negli anni, e allora ti guardi allo specchio e ti rendi conto di quanto sei diversa dall'immagine che avevi di te stessa, e questo è deprimente, sembra di cadere nel vuoto... e poi la bellezza della giovinezza è tutta un'altra cosa!»
«Mamma, non è da te parlare in questo modo! E poi, per me, sei sempre stata la più bella. Quando ero bambina mi sarebbe piaciuto assomigliare a te, ti ho persino invidiato, e fino a pochi anni fa la gente guardava più te che me. Mi disperavo perché i miei occhi non avevano il colore dei tuoi, perché la mia pelle non era chiara e liscia come la tua... Ma perché proprio adesso quest'ansia per l'età e questo rimpianto della giovinezza?»
«Tesoro, è normale: quando si arriva a cinquant'anni il passato assume un nuovo colore e perfino i giorni più difficili acquistano un fascino. Finché si è giovani si pensa al futuro, a cosa succederà fra un anno, a dove si sarà fra cinque... si desidera che i giorni passino in fretta. Ma quando tutto ti è già successo, e non hai più un futuro, torni indietro a guardare il passato.»
Nel pomeriggio Parvaneh telefonò e mi comunicò che si era accordata con Saeid per le sei del giorno dopo. Continuavo a ripetermi che forse era meglio non vederlo, per mantenere intatto il ricordo che avevo di lui e che lui aveva di me. Mi tornò in mente che negli anni passati, tutte le volte in cui mi era capitato di indossare un vestito seducente e di «farmi bella», mi ero compiaciuta del mio riflesso allo specchio e avevo desiderato che lui mi vedesse così in una situazione inaspettata, a un ricevimento, o anche per strada. Avevo sempre sperato in un altro incontro fra noi, quando ero al culmine del mio splendore. La mattina dopo Parvaneh chiamò di buon'ora: «Come stai? Io stanotte non sono riuscita a chiudere occhio!».
Risi e risposi: «Allora siamo come due vasi comunicanti!».
Poi cominciò a impartirmi ordini in fretta. Dovevo tingermi i capelli, fare un bagno caldo, immergere la testa nell'acqua ghiacciata, tenere per mezz'ora una maschera antirughe sulla faccia, idratare la pelle con la crema «miracolosa» che mi aveva portato ed essere da lei per le cinque così avrebbe finito di «sistemarmi»...
«Ma cosa dici? Non devo prepararmi come una sposa!»
«E chi lo sa, forse lo potresti diventare...»
«Già, a questa età...»
«Se parli ancora di età, giuro che ti picchio!»
Eseguii gli ordini di Parvaneh. Quando mi stesi la maschera sul viso e mi sdraiai, Shirin entrò nella mia stanza ed esclamò sorpresa: «Cosa sta succedendo? Oggi ti prendi anche cura di te stessa! Non te l'avevo mai visto fare...». Poi scosse la testa e uscì dalla stanza. Cominciai a prepararmi alle tre e mezzo. Mi pettinai con cura e provai tutti i miei vestiti. Mi guardavo allo specchio e mi dicevo che dovevo essere ingrassata almeno di dieci chili da quei giorni, eppure il mio viso non era pieno come allora...
Mi sembrava che ogni vestito avesse qualcosa che non andava. Il letto si riempì in fretta di gonne, abiti, camicette. Shirin si appoggiò alla porta con aria perplessa.
«Mamma, dove devi andare?»
«A casa di Parvaneh...»
«Vorresti dirmi che ti stai preparando con tanta cura per la zia Parvaneh?»
«In realtà Parvaneh ha ritrovato delle nostre vecchie conoscenze e le ha invitate, e io non ho voglia di apparire vecchia e brutta ai loro occhi. Vorrei che ritrovassimo qualcosa degli anni passati nelle nostre espressioni...»
«Quante sono?»
«Chi?»
«Le vecchie amiche invitate da Parvaneh. Non me ne avete mai parlato.»
Rimasi un po' disorientata. Ero sempre stata una pessima bugiarda. Tentennai e alla fine dissi che non sapevo in quante sarebbero venute e che non gliene avevamo parlato perché non c'era mai stato un rapporto così stretto come quello fra me e Parvaneh.
«È strano, non riesco proprio a immaginare come saranno i miei amici fra trent'anni. O mamma, pensa alle vecchine che diventeremo!»
Feci finta di non aver sentito.
Ero pronta a trovare una scusa in caso mi avesse chiesto di venire con me, ma fortunatamente preferì la compagnia dei suoi coetanei come sempre.
Finalmente mi decisi a indossare un fresco vestito di cotone color cioccolato con la vita stretta e lo abbinai a un paio di sandali marrone con il tacco alto. Arrivai a casa di Parvaneh alle cinque e mezzo passate. Lei mi studiò attentamente: «Va abbastanza bene, lascia che al resto pensi io...».
«Non voglio che mi trucchi troppo, deve vedermi come sono! In fondo ho una certa età, e poi, con la vita che mi sono lasciata alle spalle...»
«No, stai tranquilla, solo po' d'ombretto e un velo di rossetto, non hai bisogno d'altro, hai ancora la pelle come uno specchio.»
«Sì, uno specchio rotto!»
«Anche se è rotto, le crepe non si vedono ancora, e poi Saeid adesso porta gli occhiali... comunque, se vuoi, possiamo restare in salotto dove la luce è soffusa...»
«Ma cosa dici? Non dobbiamo vendergli della merce scaduta! Resteremo in giardino.»
Alle sei in punto suonarono al citofono. Parvaneh disse che secondo lei stava peggio di noi, e si era appostato lì fuori per poter citofonare senza nemmeno un minuto di ritardo...
Gli aprì e si avviò alla porta facendomi cenno di seguirla, ma io ero come impietrita. Restai a guardarla dalla finestra mentre lo faceva accomodare in giardino: era un po' ingrassato, indossava un completo grigio e aveva i capelli brizzolati. Non avevo ancora avuto modo di vedergli la faccia. Dopo qualche minuto, Parvaneh rientrò seccata a chiedermi cosa avessi intenzione di fare, forse un ingresso ad arte con il vassoio del tè come una promessa sposa? Ma io avevo il cuore in gola e le gambe che si rifiutavano di muoversi... come una ragazzina. La pregai di fargli compagnia, mentre io cercavo di riprendere il controllo. Poteva dirgli che ero con sua madre e sarei arrivata fra poco. Mi precipitai verso la stanza della signora Ahmadi. Non avrei mai creduto di poter provare ancora quelle sensazioni. Mi consideravo una persona calma e posata. Avevo avuto a che fare con altri uomini che avevano dimostrato interesse nei miei confronti, ma non avevo più sentito i fremiti dell'adolescenza. Sentii la voce di Parvaneh che mi chiamava: «Masum, Saeid Khan è arrivato!». Non avevo scampo. Mi guardai velocemente allo specchio, passandomi una mano tra i capelli, e uscii dalla stanza mentre la povera signora Ahmadi mi stava ancora parlando. Non dovevo concedermi nemmeno un istante per pensare. Raggiunsi in fretta il giardino e, cercando di non far tremare la voce, dissi: «Salam...».
Si alzò di scatto e rimase a fissarmi per qualche istante prima di ricambiare il saluto.
Dopo i soliti convenevoli, le tensioni e le ansie svanirono. Parvaneh andò a prendere il tè e noi ci sedemmo l'uno di fronte all'altra. Nessuno dei due sapeva cosa dire. Era invecchiato, però i suoi affascinanti occhi castani conservavano ancora lo sguardo che ricordavo e del quale avevo sentito il rimpianto in tutti quegli anni. Mi sembrò maturo e interessante e sperai che anche lui mi vedesse in quel modo. Dopo mezz'ora, eravamo come tre buoni amici che si erano ritrovati e gli chiedemmo di raccontarci cosa avesse fatto e dove fosse stato durante quella lunga separazione. Acconsentì a patto che noi facessimo lo stesso. Cominciò Parvaneh.
«Non ho niente di speciale da raccontare, la mia vita è stata tranquilla: dopo il diploma mi sono sposata e sono andata a vivere in Germania. Ho avuto tre figli, due femmine e un maschio, e la maggiore è già sposata. In questo periodo sono qui perché la mamma si è ammalata, ma quando starà meglio la porterò con me in Germania. Ecco tutto! Non è successo niente di clamoroso nella mia vita, ma nella sua...» e con un cenno della testa indicò me.
Naturalmente Saeid s'incuriosì e mi chiese di raccontare, ma io non sapevo nemmeno da dove cominciare e chiesi aiuto con gli occhi a Parvaneh.
«Oh no, meglio di no! La sua vita è come un libro d'avventure, ma è troppo lungo perché Masum lo riassuma adesso, e poi io lo conosco già a memoria... è molto meglio che prima ci parliate di voi.»
E così Saeid ci raccontò la sua vita. Si era laureato un po' in ritardo, e non aveva fatto il servizio militare perché era l'unico uomo in casa e doveva prendersi cura della famiglia. Aveva aperto una piccola farmacia a Urumieh con l'aiuto degli zii. Le cose andavano bene e il valore dei terreni di suo padre era cresciuto, così aveva deciso di mettersi in società con vecchi compagni di università che avevano fondato un'azienda farmaceutica, aveva venduto la farmacia ed era tornato a Teheran. Importavano ed esportavano medicinali e avevano avviato anche una ditta di cosmetici e prodotti per l'igiene della casa. Sua madre insisteva che prendesse moglie e alla fine lui si era deciso a sposarsi con Nazi, la sorella di uno dei suoi soci. Nazi aveva appena finito di studiare, e presto avevano avuto due gemelli, entrambi maschi, anzi «maschiacci» per quanto erano scatenati. Dopo la rivoluzione, e soprattutto con l'inizio della guerra, ogni cosa andò lentamente in rovina. I parenti di Nazi se ne andarono tutti e lei pensò che dovevano fuggire all'estero anche loro, ma le strade e i confini erano già chiusi. Lei li avrebbe attraversati anche illegalmente, ma Saeid aveva preferito temporeggiare per un paio d'anni, nella speranza che la situazione migliorasse. Poi aveva dovuto decidersi. La madre, già malata, era morta poco dopo la sua partenza. Avevano venduto quasi tutto, tranne la sua quota della società. Prima erano andati in Austria dal fratello di Nazi, poi in America. Ricominciare da zero era stato difficile, ma alla fine si erano ambientati nella nuova realtà. I ragazzi erano felici e soddisfatti e dopo un paio d'anni erano diventati veri e propri americani. Nazi aveva proibito di parlare il farsi in casa per imparare meglio l'inglese e così i loro figli l'avevano dimenticato quasi completamente. Lavoravano molto, la loro vita era tranquilla e non mancavano di niente, ma lui non era felice... Aveva nostalgia delle sorelle, degli amici, di Teheran. Nazi aveva parenti e amici iraniani intorno a sé, i ragazzi avevano i loro compagni, ma lui era solo. Il mondo che lo circondava gli era estraneo. Con la fine della guerra aveva saputo che la situazione era migliorata ed era tornato. Molti altri iraniani l'avevano fatto. La sua azienda era ancora in piedi, lui aveva ricominciato la vecchia attività e il suo spirito si era subito risollevato. Aveva comprato un appartamento ed era tornato a prendere Nazi, ma lei non aveva voluto seguirlo, e con un ottimo pretesto: i ragazzi. Aveva ragione, perché non c'era più nessuna possibilità di staccarli da quella cultura che ormai si era radicata in loro. Alla fine avevano deciso di vivere separati: lui a Teheran dove guadagnava di più e Nazi in America finché i ragazzi si fossero sistemati. Ed erano ormai otto anni che vivevano così. I figli erano cresciuti e se n'erano andati da casa, ma Nazi non ne voleva sapere di tornare in Iran. Una volta all'anno Saeid andava a trovarli e passava almeno un mese con loro e il resto dell'anno stava in Iran, solo, pieno di lavoro e responsabilità. Non era soddisfatto di quella vita, sapeva che non era una bella situazione, ma non faceva niente per cambiarla...
Durante il racconto Parvaneh guardava ora me ora lui con aria soddisfatta, e mi dava colpetti alla gamba sotto il tavolo, ma io ero molto dispiaciuta per Saeid: avevo sempre sperato che almeno lui fosse felice, e invece mi sembrava più solo di me.
Era giunto il mio turno e non potevo più sottrarmi. Cominciai a raccontare. Il mio matrimonio forzato con Hamid, la bontà e la comprensione di mio marito, la lotta politica, e poi gli anni in prigione, la libertà, la seconda prigionia e la condanna a morte. Parlai del mio lavoro, dello studio e di quello che avevo passato per i miei figli, di come si fossero finalmente sistemati e della tranquillità che mi sembrava di avere raggiunto...
Parlammo come tre amici intimi che si sono ritrovati dopo anni, a lungo e senza cognizione del tempo che passava. Fino alla telefonata preoccupata di Shirin: erano le dieci!
Ma non mi sentii in colpa: per una volta poteva preoccuparsi lei per me...
Saeid si offrì di accompagnarmi, ma Parvaneh non voleva perdersi nemmeno una parola e ci accompagnò con la sua auto. E quando la fulminai con lo sguardo, disse con la solita sfacciataggine: «Perché mi guardi in quel modo? Vedete Saeid Khan, è stata sempre così: da ragazza mi ripeteva in continuazione "Non fare questo, non fare quello" perché per lei tutto era sconveniente, e adesso, a cinquant'anni, mi rompe ancora le scatole!».
Saeid rideva. Io mi morsi il labbro inferiore imbarazzata.
«E allora perché non fissiamo un altro incontro tutti insieme? Non ditemi che non volete più vedermi!» Era davvero incontenibile...
Finì che li invitai da me il mercoledì seguente a pranzo, quando Shirin restava all'università tutto il giorno. Non volevo dirle niente per il momento.
Non avevo ancora tolto il vestito che squillò il telefono. Non poteva che essere Parvaneh! Voleva farmi gli auguri, perché secondo lei Saeid cercava moglie! Le feci notare che era già sposato: la moglie stava in America, ma era pur sempre sua moglie. Lei replicò che erano marito e moglie solo ufficialmente, ma di fatto vivevano separati, e avrebbero benissimo potuto divorziare. Andai in collera. Non era giusto dare giudizi sul loro rapporto. E poi, se fosse stato così, perché non avevano già divorziato? Ma ormai Parvaneh era lanciata: affermò che erano distanti da ogni punto di vista, affettivo, pratico, culturale, e che la moglie non era certo rimasta da sola a versare lacrime per lui, anzi secondo lei era una furba che si faceva mandare i soldi dal marito e in cambio non doveva nemmeno stirargli le camicie o preparargli la cena... perché mai avrebbe dovuto divorziare, perdendo una gallina dalle uova d'oro come Saeid? E anche lui probabilmente aveva qualche motivo per non farlo, o forse semplicemente non ne vedeva l'utilità.
«Certo che ne hai di fantasia!» fu il mio unico commento.
Feci ordine in casa con l'energia di quando ero giovane e che pensavo di avere perso da tempo, cucinai e mi presi cura di me stessa. E il mercoledì fu una splendida giornata! Da quel momento i nostri incontri continuarono e mi fecero guardare al resto con occhi nuovi. Mi sentivo di nuovo giovane. Mi curavo di più, mi truccavo, compravo vestiti. A volte frugavo nell'armadio di Shirin e indossavo le sue camicette. Il mondo aveva assunto un altro colore. La mia vita aveva trovato una nuova direzione. Sbrigavo le mie faccende con gioia ed entusiasmo. Non mi sentivo più sola, vecchia, inutile e dimenticata. Mi sembrava persino che la mia immagine allo specchio fosse diversa, ringiovanita. Le rughe sotto gli occhi meno evidenti, quelle intorno alle labbra meno profonde, la mia pelle più luminosa. E il mio cuore di nuovo in attesa di qualcosa di bello. Il suono del telefono aveva un altro significato. Rispondevo in un sussurro e mi nascondevo allo sguardo e alle orecchie curiose di Shirin. Sapevo che vedeva questi cambiamenti, ma non riusciva a capire cosa fosse successo. Una settimana dopo l'inizio degli incontri mi disse: «Mamma, da quando hai ritrovato le vecchie amiche sei di ottimo umore!» e un'altra volta, in tono di rimprovero: «Sono certa che mi stai nascondendo qualcosa. Fai cose che prima non facevi, ti curi, esci spesso, sei più allegra, insomma... strana!».
«Strana come?»
«Non saprei... forse come una ragazzina innamorata!»
A un certo punto Parvaneh e io pensammo che sarebbe stato meglio presentare Saeid a Shirin perché era assurdo che a quell'età facessi le cose di nascosto con la paura di essere scoperta. Ma non volevo che sapesse tutto... dovevamo inventarci qualche scusa per l'assiduità di Saeid e non dire niente dell'origine del nostro rapporto. Così decidemmo di presentarglielo come un vecchio amico di famiglia di Parvaneh, tornato da poco dall'estero, e giustificare le sue continue visite con motivi di lavoro. In effetti, lui aveva tradotto degli articoli che mi aveva lasciato da correggere, e io mi facevo vedere impegnata con quelli. Shirin lo vide un paio di volte, e io desideravo conoscere la sua opinione su di lui, ma non volevo insospettirla, finché un giorno me ne parlò senza che glielo avessi chiesto. Mi disse che le sembrava un gran signore, anziano ma affascinante, e che aveva poco in comune con Parvaneh...
Per tutta l'estate ci vedemmo quasi ogni giorno. A metà del mese di Shahrivar, Saeid ci invitò al frutteto che aveva comprato. Che giornata meravigliosa! Un vento leggero dalle montagne che toccavano il cielo portava con sé il fresco delle nevi di quelle cime. L'aria era pulita e profumata. Le foglioline nuove sui rami sottili degli alberi danzavano a ogni sospiro del vento e si tingevano di mille riflessi sotto i raggi del sole. E quando il vento alzava la sua voce, le foglie sembravano applaudire le bellezze della vita e della natura. I fiori riposavano beati, immersi nel loro stesso dolce profumo lungo i canali d'irrigazione. Sugli alberi da frutta pesche, susine, albicocche erano un invito per i sensi con colori, profumi e superfici vellutate, e maturavano sotto i raggi dorati del sole. Nella mia vita erano stati rari i giorni in cui avevo desiderato che il tempo si fermasse, e stavo vivendo uno di quei giorni. Calmo, luminoso, senza pensieri inutili. E noi tre, com'eravamo felici e sereni insieme! Imbarazzo e timori si erano dileguati e potevamo parlare liberamente di ogni cosa. Parvaneh, come fosse la parte nascosta di me, diceva anche ciò che forse io non avrei avuto il coraggio di dire. E con le sue battute e la sua spontaneità era fonte d'allegria e di risate. Non volevo più controllare le mie risate. Era come se nascessero dal profondo del mio essere e sbocciassero sulle mie labbra. Il loro suono riecheggiava piacevole nelle mie orecchie. Mi dicevo: "Ma sono veramente io che rido così liberamente?".
Quel giorno, dopo una piacevole passeggiata, eravamo seduti sul terrazzo della sua villa ad ammirare il tramonto e mangiare pasticcini con il tè, quando Parvaneh si rivolse a Saeid per fargli la domanda alla quale avevamo cercato invano di dare una risposta per tutti quegli anni. «Saeid, scusa, non posso proprio fare a meno di chiedertelo: perché dopo quella notte sei sparito? Perché non hai mandato tua madre per il khastegari? Non pensi di avere sbagliato e che tutte le difficoltà delle vostre vite non siano state altro che la conseguenza di quell'errore?».
Fino a quel giorno avevamo fatto in modo di non rievocare il ricordo di quella notte e di quella storia, perché sicuramente avrebbe messo in imbarazzo me e fatto vergognare Saeid. Non avrei voluto che Parvaneh gli facesse quella domanda. La guardai accigliata, mordendomi il labbro inferiore. Ma lei non mollò. Pensava che fosse ora di parlare delle azioni e delle decisioni che avevano cambiato il nostro destino. Vedendo la mia faccia, però, aggiunse: «Naturalmente sei libero di non rispondere, se non vuoi».
Ma anche lui sentiva il bisogno di raccontare il seguito di quella terribile notte, di spiegare cos'era accaduto.
«Quella sera ero ancora in farmacia ignaro di tutto, quando arrivò Ahmad e cominciò a insultarmi. Ero sorpreso e disorientato. Il dottor Ataii gli si avvicinò per calmarlo, ma lui lo attaccò e quando io mi misi in mezzo si avventò su di me tirando calci e pugni. Non volevo fare a botte con lui che era ubriaco fradicio. Nel frattempo, davanti alla farmacia si era raccolto tutto il quartiere. Io ero molto timido allora e mi sentivo morire per l'imbarazzo. Ahmad m'insultò nel peggiore dei modi, poi tirò fuori un coltello e mi aggredì, mentre la gente accorreva in mio aiuto e mi strappava dalle sue grinfie. Ma prima di andarsene mi minacciò, assicurandomi che se mi fossi fatto rivedere da quelle parti mi avrebbe ucciso. Non mi spaventai per la sua minaccia, ma il dottore disse che sarebbe stato meglio se non fossi andato in farmacia per qualche giorno, e poi ero messo veramente male per le botte che avevo preso, facevo fatica a muovermi e avevo un occhio così gonfio da non vederci più. Quando il dottore venne a trovarmi e mi raccontò che Ahmad, tutte le notti, si metteva davanti alla farmacia a urlare insulti e minacce anche contro Masum. Il dottor Tabataby, che aveva un ambulatorio in fondo alla via, aveva raccontato al dottor Ataii che aveva visitato Masum e che l'avevano picchiata a sangue e stava malissimo. Il dottor Ataii allora mi consigliò di andarmene per qualche mese per proteggerla: dovevo lasciare che le acque si calmassero e poi sarei potuto tornare con mia madre per il khastegari. Nel frattempo lui avrebbe parlato con il padre di Masum e mi avrebbe chiamato al momento opportuno. Andavo spesso di notte sotto la casa di Masum e mi appostavo come un ladro, sperando di riuscire a vederla dietro alla finestra. Poi tornai a Urumieh (il nuovo nome di Rezaieh dopo la rivoluzione) e aspettai che il dottore mi richiamasse. Avevo deciso di sposare Masum e, se avesse accettato, di andare a vivere con mia madre mentre finivo gli studi. Anche mia madre era d'accordo, ma il dottore non mi aveva più dato notizie. Tornai io stesso a Teheran e andai da lui. Lui cominciò a dirmi che avrei dovuto pensare a studiare, che la mia vita era appena iniziata, non dovevo soffrire, sarebbe passato tutto con il tempo... mi consolava come se mi stesse porgendo le sue condoglianze. All'inizio pensai che Masum fosse morta, ma Ataii finì per dirmi che l'avevano fatta sposare in tutta fretta. Ero disperato. Non frequentai nemmeno il trimestre seguente all'università. Ci vollero sei mesi perché ritrovassi me stesso e tornassi alla vita normale.»
Più conoscevo Saeid e più mi rendevo conto del crimine che avevano commesso nei miei confronti. Saremmo potuti diventare la coppia più serena, felice e fortunata del mondo. Se solo avessero aspettato qualche mese a farmi sposare...

53.

Quelle giornate splendide d'estate passarono con una velocità incredibile. L'aria fresca della fine di Shahrivar ci ricordava che stava arrivando l'autunno. Le condizioni della madre di Parvaneh erano migliorate e i medici le avevano dato il via libera per viaggiare. Parvaneh si stava preparando a tornare in Germania.
Un giorno eravamo seduti in giardino e io mi sentivo stringere il cuore al pensiero della sua partenza. Questa volta mi sarei sentita ancora più sola. Ma lei si mise a scherzare come sempre. «E vuoi che ci creda? Chissà quanti voti avete fatto per liberarvi di me! Dovete promettere di scrivermi ogni parola che vi scambierete quando non ci sarò, anzi potreste tenere un registratore acceso...»
Saeid, che di solito rideva alle sue battute, restò serio. E con aria contrita ci comunicò che doveva partire anche lui. Restammo senza parole. «Per dove?» gli chiesi.
«Devo tornare in America: ci andavo ogni anno all'inizio dell'estate e rimanevo con Nazi e i ragazzi almeno un mese. Ma quest'anno ho continuato a rimandare. La verità è che non ne avevo voglia...»
Il sorriso mi morì sulle labbra. Restammo tutt'a un tratto in silenzio e pensierosi. Parvaneh entrò in casa a prendere il tè. Saeid approfittò della sua assenza e mise la mano sulla mia dicendomi che doveva assolutamente parlarmi, ma da soli... mi avrebbe aspettato il giorno dopo all'una nel «nostro» ristorante.
Sapevo cosa voleva dirmi. Tutto l'amore di quegli anni si era risvegliato. Andai all'appuntamento con un senso d'angoscia. Era seduto a un tavolo in fondo al locale e guardava fuori dalla finestra. Pranzammo parlando del più e del meno senza riuscire ad affrontare l'argomento che ci stava a cuore. Dopo pranzo si accese una sigaretta e disse: «Masum, credo che tu abbia ormai capito che sei stata l'unico vero amore della mia vita. Il destino ci ha messo di fronte a grandi problemi, e abbiamo sofferto e incontrato molte difficoltà, ma credo che adesso ci voglia ripagare e darci una possibilità. Sto andando in America per chiarire le cose con Nazi. È da due anni che le dico che se non vuole tornare in Iran l'unica soluzione è il divorzio, ma nessuno dei due ha voluto prendere finora una decisione definitiva. Adesso lei ha aperto un ristorante e ha molto lavoro, afferma che ci converrebbe restare lì e che in ogni caso dobbiamo decidere cosa vogliamo fare del nostro matrimonio. Sono stanco di una vita incerta e solitaria. Se sapessi che sei disposta a sposarmi, potrei prendere questa decisione più facilmente. Dunque, mi vuoi sposare, Masum?».
Nonostante avessi aspettato da sempre quella proposta e fossi stata certa che un giorno me l'avrebbe fatta, sentii un tuffo al cuore e balbettai, perché non avevo mai deciso cosa rispondergli... in realtà non lo sapevo.
«Non lo sai? Vorresti dirmi che dopo più di trent'anni non sei ancora in grado di decidere per te stessa?»
«Saeid, i miei figli! Cosa faccio con i miei figli?»
«Figli? Non hai più nessun problema con i figli! Ormai ognuno di loro si è sistemato e ha preso la sua strada, non hanno più bisogno di te!»
«Ma io sono la madre e potrebbero restarci male, non essere d'accordo...»
«Ti prego, lascia perdere il resto e per una volta pensiamo soltanto a noi due! Ci spetterà almeno questo nella vita, non lo pensi anche tu?»
«Devo parlarne prima con i miei figli.»
«Va bene, ma decidi in fretta, te ne prego. Mi è rimasto poco tempo, il mio volo è fra due settimane, e non posso più rimandare la partenza.»
Ne parlai subito con Parvaneh. Ci scherzò su. Disse che erano secoli che desiderava essere presente quando Saeid mi avrebbe chiesto di sposarlo e noi l'avevamo tradita facendo tutto da soli... ma ci perdonava, a patto che ci sposassimo prima della sua partenza. Assistere al nostro matrimonio era uno dei desideri più grandi della sua vita.
Io non ero proprio in vena di scherzi: ero molto preoccupata per le possibili reazioni dei miei figli, per ciò che avrebbero potuto pensare e dire.
«Cosa vuoi che dicano? Hai sacrificato la tua vita per loro, non gli hai fatto mancare niente. Adesso è arrivato il momento di pensare a te stessa. Hanno tutti una famiglia, e tu hai il diritto di avere qualcuno accanto nei giorni della vecchiaia. Vedrai che i tuoi figli ne saranno felici.»
«Come fai a non capire? Proveranno imbarazzo nei confronti dei loro sposi e delle famiglie.»
«Hai ancora la fissa dell'onore! Prima ti preoccupavi per l'onore di tuo padre e dei tuoi fratelli, poi di tuo marito e adesso dei tuoi figli... non ha più senso, senza contare che non vuoi fare niente di disonorevole, mi pare. Molti si sposano più di una volta nella vita. Non buttare via l'occasione di passare almeno gli ultimi anni serenamente con accanto qualcuno che ti ama. Sei un essere umano prima di essere una madre, e hai dei diritti...»
Ci pensai tutta la notte. E la domanda che mi assillava era: «Come lo dico ai miei figli?».
Cercai di immaginare le reazioni di ciascuno di loro, cosa avrebbero detto nella peggiore e nella migliore delle ipotesi. Mi sentivo come una ragazzina che affronta i genitori puntando i piedi per terra e urlando: «Sì, lo voglio! voglio sposarlo». Più volte decisi di lasciar perdere, di fare finta di non avere incontrato Saeid e di continuare la mia vita come prima, ma il ricordo dei suoi occhi, il risveglio dell'amore mai del tutto sopito e lo spettro della solitudine mi facevano cambiare idea. Al mattino non avevo ancora preso nessuna decisione... Parvaneh mi chiamò presto per sapere se l'avevo detto ai ragazzi e mi rimproverò per non averlo fatto. Secondo lei era semplice: erano i miei figli, non degli sconosciuti, avevo sempre avuto confidenza con loro, e adesso che mi serviva avevo d'un tratto perso la lingua? Mi consigliò di cominciare da Shirin, che era una donna come me e avrebbe sicuramente capito, propose di dirglielo lei al posto mio. Ma non era giusto. Dovevo trovare io il coraggio oppure lasciar perdere. Infine mi assicurò che sarebbe venuta dopo pranzo per darmi man forte. Avremmo affrontato Shirin insieme... «Due contro uno sarà più facile», disse, come se si trattasse di una battaglia.
Shirin però aveva altri programmi, doveva andare da un'amica per questioni legate all'università. Parvaneh la pregò di rimandare la visita e restare con noi. Ma sembrava che non fosse proprio possibile. «Voi riposatevi intanto. Tornerò per il tè e porterò la torta che piace tanto alla zia.» E se ne andò.
Io e Parvaneh ci sdraiammo una accanto all'altra sul letto a chiacchierare.
«La vostra storia sembra un film!» esordì.
«Sì, irrealizzabile come spesso ciò che accade nei film...»
«A me, invece, sembra che Dio, il destino, o in qualsiasi altro modo tu lo voglia chiamare, ti abbia concesso un'occasione meravigliosa e, se non ne approfittassi, lo offenderesti.»
Eravamo sul terrazzo per il tè quando Shirin tornò. Mise la torta sul tavolo e andò a cambiarsi. Quell'attesa era snervante, ma Parvaneh mi fece un cenno incoraggiante e mi disse di stare calma. Shirin ci raggiunse e cominciò subito a raccontarci la sua giornata, mentre mangiava una fetta di torta e sorseggiava il tè. In una pausa Parvaneh, senza preamboli, le chiese se le sarebbe piaciuto partecipare a un matrimonio...
«Oh sì, avrei proprio voglia di andare a uno di quei matrimoni in grande, in cui si balla fino all'alba... Ma solo se gli sposi sono belli: odio le coppie brutte! Perché, chi si sposa?»
«Di chi ti piacerebbe che fosse il matrimonio?»
Shirin si appoggiò allo schienale della sedia e gustò un sorso di tè pensandoci su. Parvaneh la incalzò. «E se si trattasse del matrimonio della mamma?»
Shirin scoppiò a ridere. Io e Parvaneh ci guardammo e provammo a unirci a lei, ma la sua risata sembrava non terminare, come se le avessero raccontato la più divertente delle barzellette...
«Ma cosa t'è preso? Trovi così divertente l'idea che la mamma si sposi?»
«Sì, è davvero divertente... ma te la immagini la mamma alla sua età in abito da sposa e con il velo che va alla cerimonia con un vecchietto con il bastone da passeggio, mentre io da dietro reggo lo strascico? E magari lo sposo è affetto dal morbo di Parkinson e tutto tremante cerca di infilare la fede al dito della sposa, che mette in mostra una bella mano rugosa? No, ditemi se riuscite a immaginarlo senza morire dalle risate!»
Ero imbarazzata e furente, ma rimasi in silenzio. Parvaneh, indignata, le disse di smetterla e che io non ero affatto rugosa e non avevo cent'anni come sembrava dalla sua descrizione. E comunque poteva stare tranquilla: lo sposo non aveva affatto il Parkinson e anzi era molto più affascinante del suo Faramarz!»
«E perché vi offendete? La scena che ho descritto l'ho vista in un film, e comunque la mamma non si sposa di certo, no?»
«Invece sì, e se volesse potrebbe avere anche adesso, alla sua età, uno splendido matrimonio!»
«Ti prego zia, smettila, non dire più sciocchezze! Mia madre è una signora di una certa età che ha già due nuore e due nipoti e ora sta per festeggiare il matrimonio della sua ultima figlia. I miei documenti sono quasi pronti, Faramarz tornerà per le vacanze di Natale e potremo dare finalmente la festa per il nostro matrimonio... Non volevo offenderti dicendo che sei vecchia, mi sembra semplicemente ridicolo parlare di matrimonio nella tua situazione.»
«Quale situazione? E perché mai sarebbe ridicolo? Non dico affatto sciocchezze: in Germania si sposano a tutte le età, anche a ottant'anni, e nessuno li prende in giro, nessuno ha niente da obiettare, anzi i loro figli e nipoti si rallegrano e danno feste. E poi tua madre non è affatto vecchia!»
«Il problema è che tu hai vissuto lì per molto tempo, zia Parvaneh, e non conosci più i nostri costumi e la nostra mentalità. Io non avrei mai il coraggio di dire che mia madre si risposa, e poi perché dovrebbe farlo? Non le manca nulla, non ha bisogno di un marito!»
«Ne sei sicura?»
«Certo! Ha una bella casa, non ha problemi di salute, ha il suo lavoro, Masuud è riuscito a farle avere la pensione grazie alle sue conoscenze, e i suoi ragazzi hanno cura di lei. Può permettersi di andare in vacanza, di viaggiare, e potrà venire a stare da me e badare ai nipotini!»
«Quale onore...»
Non riuscivo più a sopportare quella discussione. Mi alzai, raccolsi le tazze e i piattini e rientrai in casa. Dalla finestra vedevo Parvaneh parlare con grande foga a Shirin che la guardava accigliata... Non uscii più sul terrazzo. Parvaneh si preparò ad andarsene. Venne a salutarmi e mi riferì sottovoce ciò che aveva detto a Shirin.
«A qualsiasi età un essere umano non ha solo esigenze materiali, ha bisogno anche di appoggio, di affetto, di compagnia. I sentimenti sono importanti. E quell'uomo affascinante che hai conosciuto qui una volta è il pretendente di tua mamma.»
Vedevo Shirin dalla finestra, aveva messo i gomiti sul tavolo e teneva la testa fra le mani. Quando Parvaneh se ne fu andata, la raggiunsi sul terrazzo. Alzò la testa e mi guardò con gli occhi pieni di lacrime. «Mamma, ti prego, dimmi che Parvaneh sta mentendo, dimmi che non è vero!»
«È vero in parte. Saeid mi ha davvero chiesto di sposarlo, ma io non gli ho ancora dato una risposta.»
Sospirò sollevata. «Zia Parvaneh l'ha detto come se fosse già tutto deciso! Pensa a noi, mamma. Hai idea di come ti rispetti Faramarz? Parla sempre del tuo buon gusto e del tuo spirito di sacrificio. Ti considera la madre ideale. Con che faccia posso dirgli che mia madre vuole un marito? Rischi di distruggere l'immagine che tutti noi abbiamo di te!»
«Ma non voglio fare niente di male. Non si tratta di un reato o di un tradimento: perché mai il mio matrimonio dovrebbe cambiare qualcosa fra noi?»
Si alzò con rabbia, spostò rumorosamente la sedia e corse verso la sua stanza. Dopo qualche istante la sentii parlare al telefono. Ero sicura che stesse chiamando Masuud. Mi preparai alla tempesta... Mi sentivo come se fossi tornata piccola, come se Shirin fosse la madre e io la figlia in attesa del suo permesso. Un'ora dopo Masuud fece il suo ingresso con la fronte corrugata. Io ero in terrazzo, e mi finsi intenta a leggere il giornale. Shirin gli parlò velocemente a voce bassa, poi mi raggiunsero entrambi.
«Ciao Masuud, finalmente vieni a trovare tua madre!»
«Scusami, mamma, non hai idea di quanto sia preso dal lavoro, le giornate passano l'una dopo l'altra senza che me ne accorga!»
«Perché continui ad ammazzarti di lavoro in quell'ufficio? Non dovevi aprire un'attività tutta tua per dedicarti al disegno e all'architettura, che hai studiato e che ami? Questo lavoro non fa per te, non ti dà soddisfazioni. Sembri addirittura invecchiato e sono secoli che non ti sento ridere di cuore.»
«Ormai ci sono dentro fino al collo, è difficile uscirne, e poi il padre di Atefeh dice che è un dovere religioso continuare ad aiutarli.»
«Aiutare chi? Non pensi che se ti dedicassi al lavoro per cui hai studiato saresti più d'aiuto a tutti?»
Mi accorsi che fremeva. Non era quello che gli stava a cuore in quel momento.
«Hai ragione mamma, ma lasciamo perdere per ora, sono qui per sapere cosa c'è di vero in ciò che mi ha detto Shirin. A me sembrano assurde sciocchezze, come quella che hai un khastegar...»
I due fratelli si guardarono trattenendo a stento le risate.
Ero veramente in collera, mi sentivo derisa, ma cercai di mantenere la calma e la fiducia in me stessa e risposi che avevo avuto molti pretendenti dopo la morte di Hamid. Non se n'erano mai accorti? Pensavano che nessuno mi volesse?
«No, mamma, sapevo benissimo chi ti desiderava, e alcuni non volevano proprio mollare. Del resto eri una donna bellissima e intelligente. Avevo paura che ti sposassi con un estraneo, credo come tutti i ragazzi nella mia situazione, e avevo addirittura incubi per questo. Non hai idea di quante notti abbia sognato e desiderato la fine del signor Zargar... L'unica cosa che mi tranquillizzava era la fiducia che riponevo in te. Sapevo che non ti saresti mai liberata di noi per seguire il tuo cuore. Ho sempre pensato che fossi la migliore delle madri e che non avresti rinunciato a noi per nulla al mondo. Ora non capisco come quest'uomo ti abbia influenzata al punto da farti dimenticare i tuoi figli.»
«Non mi sono affatto dimenticata di voi e non lo farò mai. Niente può sostituire un figlio per il padre e la madre. Mi sembri un uomo ancora alle prese con il complesso di Edipo! Fino a quando siete stati piccoli e avete avuto bisogno della mia protezione, mi sono sentita in dovere di vivere soltanto per voi. Non so se fosse giusto, ma sapevo che adolescenti come te e Siamak non avrebbero accettato facilmente la figura di un patrigno, anche se avrebbe potuto essere un aiuto e una guida per voi, e un sostegno per me, perché avremmo condiviso preoccupazioni e fatiche. Ma a quell'epoca non esisteva nulla di più importante della vostra felicità e serenità. Adesso però sono cambiate molte cose. Siete cresciuti, avete la vostra famiglia e il lavoro. Io ho portato a termine il mio compito con le possibilità che avevo. Non avete più bisogno di me, anzi vi sarei d'intralcio. Adesso credo di avere il diritto di pensare al mio futuro, decidere per me stessa e fare qualcosa che desidero. Se vi sforzate di essere razionali e aprite gli occhi, vi renderete conto che sarà meglio anche per voi. Non dovrete occuparvi di una vecchia madre rompiscatole destinata a diventare un peso sempre maggiore con il passare degli anni!»
«Ti prego, mamma, non dire così. Tu sei tutto per noi, e resti ancora la persona che amo di più su questa terra. Mi prenderò cura di te fino all'ultimo giorno della mia vita e farò qualsiasi cosa desideri!»
«Tu sei un uomo adulto con molti doveri e responsabilità, e anche Shirin deve pensare alla sua vita. Io non voglio rappresentare una preoccupazione e un peso sulle vostre spalle. Voglio che vediate che non sono sola e che sono felice e possiate stare tranquilli per me.»
«Ma non sarai mai sola. Non lascerò che succeda. Noi saremo a tua disposizione con rispetto e amore, desideriamo ripagarti almeno in parte dei sacrifici che hai fatto per noi...»
«Non ce n'è bisogno, tesoro. Non mi siete debitori, non ho fatto altro che adempiere al mio dovere di madre. Adesso vorrei passare quel che resta della mia vita con qualcuno che possa darmi la serenità che ho sempre desiderato. Vi sembra chiedere troppo?»
«Mamma, mi stupisco di te! Non capisci che sposandoti rovineresti la nostra vita?»
«Non vedo come. Il matrimonio non è un peccato...»
«No, ma è altrettanto grave! Hai mai pensato alle reazioni che susciterebbe una notizia del genere? A quanto ci sentiremmo in imbarazzo? Cosa diranno gli amici e i colleghi? E soprattutto come potrò camminare ancora a testa alta davanti alla famiglia di Atefeh? Se mia moglie lo venisse a sapere perderebbe tutto il rispetto che ha per te. Cadresti dal piedistallo su cui ti ha messa, lo direbbe ai suoi genitori e arriverebbe anche all'orecchio del signor Maghsudi. In ufficio lo verrebbero a sapere tutti e comincerebbero a ridere alle mie spalle, a malignare sul fatto che ti ho trovato un marito...»
Avevo un nodo alla gola. Non riuscivo a continuare a parlare. Non tolleravo che si svilisse così il mio sentimento puro e meraviglioso per Saeid e soffrivo per l'egoismo dei miei figli. Mi alzai con la testa che mi scoppiava e andai a sedermi al buio sul divano. I ragazzi continuarono a parlarsi sul terrazzo. Mentre Masuud se ne andava, sentii Shirin che sosteneva che era tutta colpa di Parvaneh che mi aveva messo in testa quelle sciocchezze. Io da sola non avrei nemmeno preso in considerazione di sposarmi... E a pensarci bene zia Parvaneh non le era mai andata molto a genio, le era sempre sembrata frivola e poco rispettosa. Una sera aveva addirittura allungato il braccio per dare la mano al signor Maghsudi e lui, naturalmente, si era offeso... Se fosse stata al mio posto chissà quante volte si sarebbe sposata!
Mi alzai dal divano, accesi la luce e gridai: «Parvaneh non c'entra niente con questa faccenda. È un mio diritto di essere umano prendere una decisione per me!».
«Hai ragione mamma, è un tuo diritto: avevi e continui ad avere molti diritti, ma non credo che tu voglia farli valere a ogni costo, anche mettendo a repentaglio l'onore dei tuoi figli...»
Presi un'aspirina prima di andare a letto, ma passai lo stesso una notte febbricitante e rabbiosa, in preda a pensieri opposti. Mi sentivo in colpa per essere causa di preoccupazione e dispiacere per i miei figli. D'altra parte, quell'ultimo sogno di libertà mi chiamava a sé. Per una volta nella vita avrei voluto liberarmi di qualsiasi responsabilità, spezzare tutte le funi e volare alta nel cielo, leggera. Lo sguardo triste di Masuud e le lacrime di Shirin non mi davano tregua, ma il desiderio, l'amore per Saeid e la paura di perderlo per sempre mi stringevano il cuore. Si fece mattino, ma non avevo la forza di alzarmi. Il telefono squillò un paio di volte. Shirin alzò la cornetta e dall'altra parte riattaccarono. Doveva essere Saeid, che era preoccupato per me, ma non voleva parlare con mia figlia. Il telefono squillò ancora. Questa volta Shirin rispose con un freddo salam e mi avvertì che Parvaneh Khanum voleva parlare con me.
«Cos'è successo? Adesso sono diventata Parvaneh Khanum? Ci mancava poco che mi insultasse!»
«Mi dispiace, non te la prendere, ti prego...»
«No, non ti preoccupare, non ha importanza, piuttosto dimmi di te, come stai?»
«Male, l'emicrania non mi dà tregua. Shirin ha chiamato Masuud che ha reagito anche peggio di lei...»
«Certo che sono dei begli egoisti. Non gliene importa niente della tua felicità e dei tuoi desideri, solo del loro onore. Ma è anche colpa tua: a forza di dargliela sempre vinta e di sacrificarti per loro, sono diventati sfacciati e non riescono nemmeno a immaginare che tu possa avere qualche diritto! E adesso cosa pensi di fare? Quel povero Saeid è preoccupatissimo. Dice che sono due giorni che non ha più tue notizie, e ogni volta che chiama è Shirin ad alzare la cornetta. Non sa come comportarsi, non sa se può parlarle. Che ne dici di andare a fare una passeggiata noi tre insieme? Io parto fra pochi giorni, e non manca molto nemmeno alla partenza di Saeid.»
Non sapevo cosa fare, dovevo prima recuperare un po' le forze. Le chiesi di salutare Saeid da parte mia e di dirgli di non chiamare per il momento. Non me la sentivo proprio di uscire...
Shirin era appoggiata alla porta e ascoltava con sguardo incupito i miei discorsi con Parvaneh. Le chiesi cosa volesse. Mi sembrava un guardiano dell'inferno!
Rispose che non vedeva l'ora che Parvaneh Khanum partisse e sperava di non vederla più...
«Non essere maleducata e vergognati! Non si parla così della propria zia.»
«Non è affatto una vera zia... l'unica zia che ho è Fati! Non pensavo che la signora Parvaneh fosse così importante per te...»
A mezzogiorno telefonò anche Siamak. Evidentemente i ragazzi gli avevano già dato la notizia. Mi salutò freddamente e mi chiese subito cosa stava succedendo e se fosse vero che volevo sposarmi.
Sentire quelle parole e quel tono sulle bocche dei miei figli era davvero doloroso, ma non volevo farmi calpestare. Risposi solo: «Qualche problema?».
«Certo che ci sono problemi! Come puoi pronunciare il nome di un altro uomo dopo aver avuto un marito come mio padre? È come tradire il suo ricordo. Non è una questione di onore o di età come dicono Shirin e Masuud, è che non posso vedere infangato il ricordo di mio padre martire! I suoi sostenitori hanno gli occhi puntati su di noi e tu vorresti far sedere un altro al suo posto?»
«Ma ti rendi conto dell'assurdità di ciò che stai dicendo, Siamak? A quali sostenitori ti riferisci? Hai fatto di tuo padre un tale idolo da parlarne come se fosse un profeta! Se lo chiedessi a un milione di iraniani, non ne troveresti uno che si ricordi il suo nome... Anche se qualcuno ti ha adulato parlandoti di lui, e tu sei stato così ingenuo da credergli, è ora di smetterla di interpretare il ruolo del figlio di un eroe. Apri gli occhi: la gente ama inventarsi gli eroi per potercisi nascondere dietro, perché parlino al loro posto e diventino il capro espiatorio se qualcosa va storto, lasciando agli altri la possibilità di darsela a gambe. Con tuo padre hanno fatto la stessa cosa. L'hanno mandato avanti, l'hanno acclamato e si sono strappati i capelli per lui, ma quando è finito in prigione sono scappati tutti, quando è stato ucciso hanno rinnegato ogni legame con lui, e poi hanno cominciato a elencare i suoi errori. E a noi cosa è rimasto del suo eroismo? E mai venuto qualcuno a bussare alla nostra porta e a chiederci come stavamo e se avevamo bisogno di qualcosa perché eravamo la famiglia di un eroe? Quelli più coraggiosi si limitavano a salutarci... Finché eri un bambino, un ragazzino, era comprensibile che guardassi tuo padre come un eroe e volessi diventarlo anche tu, ma ora sei un uomo adulto e un uomo non ha bisogno di eroi... deve camminare sulle sue gambe e ragionare con la sua testa, basandosi sulla conoscenza e sul buon senso per prendere la strada giusta e per saper cambiare direzione quando si accorge che è sbagliata. Non devi seguire qualcun altro o una qualsiasi ideologia che ti costringa ad accettare posizioni e decisioni a occhi chiusi e a inventarti delle scuse e degli alibi per giustificarne gli errori. Tu sei un essere umano completo. Non hai bisogno di miti. Lascia che i tuoi figli ti vedano come una presenza forte nella quale si possono rifugiare, non come qualcuno che si nasconde dietro presunti eroi.»
«Parli così perché non hai mai compreso il valore dei sacrifici e delle lotte di mio padre, mamma.»
«E tu non hai mai capito quanto io abbia sofferto per causa sua! È ora che tu apra gli occhi, figlio mio: tuo padre era una brava persona, ma ha avuto enormi mancanze nei nostri confronti anche se eravamo la sua famiglia. E poi, nessuno è perfetto.»
«Qualsiasi errore abbia fatto, è stato per nobili scopi, per salvare l'umanità e fondare una società basata sui principi del socialismo e sull'uguaglianza.»
«Sì, ma era una grande illusione. Lo stato libero e giusto per il quale tuo padre ha sacrificato la vita non è mai nato e sono felice che non sia vissuto per vedere che fine ha fatto la sua utopia.»
«Ma tu cosa ne sai di politica, mamma? E poi non ho chiamato per discutere di questo, ma delle tue intenzioni, e per dirti che non posso sopportare di vedere qualcun altro al posto di mio padre!»
E riagganciò il telefono. Discutere con Siamak era inutile. Per lui suo padre era ancora un idolo e io avrei dovuto sacrificarmi sul suo altare...
Nel pomeriggio vennero a trovarmi Masuud, Atefeh e il loro splendido bambino, che mi ricordava tanto mio figlio da piccolo. Era da molto che non mi portavano il nipotino. Mia nuora disse che era colpa di Masuud, lavorava troppo. Ma quel giorno, nonostante avesse una riunione, aveva mollato tutto per venirmi a trovare con la famiglia perché, aveva detto, non stavo bene...
«Ma no, non dovevate disturbarvi, non è niente di grave, solo un po' di emicrania.» Masuud rispose subito al posto di Atefeh.
«Ma figurati, mamma, è nostro dovere venirti a trovare, e ti chiedo scusa perché il lavoro mi ha tenuto lontano da te!»
«Ma io non sono una bambina! E poi hai la tua famiglia e il lavoro è importante: non devi trascurarlo per me. Non voglio che sentiate dei doveri nei miei confronti, mi mette a disagio.»
Atefeh ci guardava con curiosità: il vero significato del nostro dialogo chiaramente le sfuggiva. Poi andò a cambiare il bambino che piangeva, io entrai in cucina e Shirin si mise a confabulare con Masuud. Ma Atefeh colse qualche parola della loro conversazione e chiese: «Chi è che si vuole sposare?».
Masuud la guardò imbarazzato. Shirin fu più pronta e rispose che si trattava di una mia amica vedova che, nonostante avesse generi, nuore e nipoti, voleva risposarsi... Atefeh sembrò scandalizzata. «Caspita, che donne che ci sono in giro! Seguono ancora i dettami del cuore e le loro voglie anche da anziane... Non c'è nessuno che dica loro che a una certa età bisogna pensare al tempo che resta e a Dio?» Io stavo in piedi con il vassoio della frutta tra le mani e la ascoltavo, Masuud e Shirin non si azzardavano a guardarmi in faccia. Posai il vassoio e dissi: «Allora tanto varrebbe comprarsi una bara e sdraiarcisi dentro quando si compiono cinquantanni...».
"Ecco perché alle donne non piace dichiarare la propria età!" pensai.

54.

Il giorno seguente andai a casa di Parvaneh. Shirin voleva venire con me, ma le dissi che preferivo restare sola: avevo avuto guardiani per tutta la vita, e non ne potevo più, e tantomeno avevo bisogno di protettori. Anzi, se avessero continuato a controllarmi, sarei fuggita dove nessuno di loro avrebbe potuto trovarmi!
Mentre Parvaneh chiudeva le sue valige, le raccontai tutto. Non riusciva a capacitarsi dell'egoismo dei miei figli e della crudeltà del mio destino. Mi ricordai le parole di mia madre. «Quello che spetta a ciascuno di noi è già stabilito, e anche se il cielo scendesse in terra non cambierebbe.»
Spesso mi chiedo cosa mi spettasse realmente, e se io abbia mai avuto qualcosa che fosse davvero destinato a me o se invece sia stata partecipe e vittima di quello che spettava agli uomini della mia vita, dei loro ideali e obiettivi. Ero stata sacrificata per l'onore di mio padre e dei miei fratelli, avevo pagato per gli ideali di mio marito e le sue scelte da eroe, e anche per i doveri verso la patria dei miei figli. Ma io chi ero? La moglie di un criminale, di un traditore del suo paese o di un attivista che lotta per la libertà? La madre di un mujahid? Oppure la mamma disperata di un soldato, fatto prigioniero e poi liberato? Quante volte ero riuscita a rialzarmi ed ero stata ributtata a terra e schiacciata nella mia vita, sapendo di non averlo mai meritato? Non ero mai stata lodata e acclamata per le mie capacità e la mia forza, ma per quelle dei miei uomini, e anche i rimproveri e le accuse non erano dipesi da me e dai miei errori, ma da quelli presunti di mio marito e dei miei figli. Era come se io non esistessi, se non avessi alcun diritto. Quando avevo vissuto e lavorato per me stessa? Quando avevo avuto il diritto di decidere? Quando mi era stato chiesto che cosa volessi veramente?
Mi sfogai con Parvaneh e lei si sorprese di sentirmi parlare così, di vedermi demoralizzata senza nessuno spiraglio di ottimismo, non era da me, e mi esortò a reagire e ad andare avanti per la mia strada, senza curarmi degli altri. Ma io ero stanca, non ne avevo più voglia, mi sentivo sconfitta, mi sembrava di essere tornata indietro di trent'anni. Non ero riuscita a cambiare le cose nemmeno nella mia famiglia.
«Persino i miei figli vogliono decidere della mia vita e non mi concedono alcun diritto, neanche da loro ho avuto un minimo di comprensione. Valgo solo in quanto madre e fintanto che sono al loro servizio. Nessuno ci vuole per noi stessi, per quello che siamo, tutti ci vogliono per loro stessi. La mia felicità e i miei desideri non hanno alcun valore. Mi hanno tolto la gioia e la voglia di sposarmi, hanno inquinato il rapporto tra me e Saeid. E se coloro che dovrebbero capirmi e incoraggiarmi mi trattano in questo modo, chissà cosa direbbero tutti gli altri e come infangherebbero il nostro amore.»
«E chissenefrega! Lascia che dicano ciò che gli pare, sii forte e vai avanti. La rinuncia non ti si addice. L'unica soluzione è parlarne con Saeid: chiamalo, quel poveretto sta impazzendo a forza di aspettare.»
Quel pomeriggio Saeid venne a casa di Parvaneh. Lei non voleva più essere presente ai nostri incontri e tornò alle sue faccende. Dissi a Saeid che mi dispiaceva molto, ma il nostro matrimonio non era possibile. Ero condannata a non vivere mai la serenità e l'appagamento di un amore vero... Saeid corrugò la fronte.
«La mia gioventù è stata segnata da quest'amore infelice. Anche nelle migliori condizioni, nel profondo del cuore mi sono sempre sentito triste e solo. Non dico di non aver guardato nessun'altra donna nella mia vita, non dico di non aver voluto bene a Nazi, ma mi azzardo a dire che l'unico vero amore della mia vita sei stata tu! Quando ti ho ritrovata ho pensato che Dio avesse avuto clemenza per me, che volesse concedermi le gioie dell'esistenza almeno nell'ultima fase della vita. Forse non mi crederai, ma per me i giorni più felici ed emozionanti sono stati quelli che abbiamo passato insieme in questi ultimi due mesi. Adesso la tua mancanza mi peserà ancora di più, adesso sarò più solo di prima, e ho bisogno di te più che mai, perciò ti chiedo, ti supplico di pensarci ancora. Non sei più la ragazza di sedici anni che doveva chiedere il permesso al padre, puoi decidere da te e per te. Non lasciarmi precipitare nel buio un'altra volta!»
I miei occhi si riempirono di lacrime. Si trattava dei miei figli, e io ero debole nei loro confronti. Non mi piaceva come si stavano comportando con me, non condividevo affatto la loro opinione, e pensavo che erano molto egoisti. E tuttavia non sopportavo di vederli soffrire, di essere la causa del loro imbarazzo e del loro disagio di fronte ai familiari, agli amici, ai colleghi...
«Vedrai che sarà così solo all'inizio, poi si abitueranno all'idea e si dimenticheranno di ciò che adesso sembra un problema insormontabile...»
«E se non lo facessero? E se covassero il rancore nei loro cuori per sempre? E se questo distruggesse l'immagine che hanno di me?»
«Non succederà, ma forse è il prezzo da pagare per la felicità della nostra vita insieme.»
«Ma io non posso essere felice sulle spalle dei miei figli!»
«Ti prego, ascolta il tuo cuore, lasciati andare e non pensare ad altro per una volta nella tua vita...»
«No, caro Saeid, non ne sono capace... mi dispiace.»
«Secondo me, stai inconsciamente usando i ragazzi come alibi perché hai paura.»
«Non lo so, forse hai ragione... Il fatto è che ho perso tutte le mie energie: le loro parole mi hanno ferita, non mi sarei mai aspettata che proprio i miei figli reagissero in questo modo, e adesso sono così stanca e triste che non posso prendere una decisione tanto importante per la mia vita. Mi sento come se avessi cento anni e in queste condizioni non posso proprio darti la risposta che vorresti da me.»
«Ma Masum, così ci perderemo un'altra volta!»
«Lo so, per me sarà come morire per la seconda volta. Ma la cosa più triste e che mi fa più male è sapere che, oggi come allora, sono stati i miei cari, le persone alle quali sono più legata, quelli che mi hanno fatto soffrire e hanno ucciso il mio spirito.»
Parvaneh partì. Io vidi Saeid altre due volte. Gli chiesi di promettermi che sarebbe rimasto accanto a sua moglie in America. Avere una famiglia, anche se non la migliore possibile, era una fortuna rispetto a non averla affatto...
Dopo essermi separata da lui per l'ultima volta, passeggiai fino a casa. Il vento freddo dell'autunno aveva cominciato a soffiare. Ero stanca, troppo. Il peso della solitudine era sempre più gravoso sulle mie spalle ormai fragili e i miei passi sempre più deboli e lenti. Mi avvolsi nel mio scialle nero, guardai il cielo cupo e triste e pensai: "Che inverno difficile mi aspetta...".


Autunno 2000



POSTFAZIONE
di Shahla Lahiji

Quello che mi spetta è insieme un bestseller e un romanzo controverso. Controverso perché, dopo ben quattordici edizioni, la sua pubblicazione è stata vietata dal governo iraniano. L'autrice ha allora fatto causa al ministero per la direzione culturale islamica. Ciò nonostante, prima del processo il ministero stesso ha autorizzato una nuova ristampa, senza poi più intervenire per interrompere la pubblicazione.
Oggi, dopo più di venti ristampe, il romanzo è ancora in testa alla lista dei bestseller. E si tratta probabilmente del primo libro pubblicato legalmente in Iran che abbia riscosso il consenso della critica.

Sebbene sia imperniato su questioni e problemi della vita delle donne, è riuscito a catturare l'attenzione di tantissimi lettori uomini.
Forse una delle ragioni del suo successo è che non è un normale romanzo femminile e non tratta solo d'amore. È invece una finestra sulla vita sociale iraniana degli ultimi cinquant'anni, ossia su tutto il periodo della rivoluzione islamica e i vent'anni precedenti.

Quello che mi spetta esprime un punto di vista critico sulla rivoluzione islamica: uomini e donne vi parteciparono insieme allo scopo di sradicare un regime oppressivo e tirannico. Ci riuscirono, ma poi si ritrovarono di nuovo nelle tenebre di una tirannide medievale.
L'anelito alla libertà fu soffocato nel sangue di tanti giovani e le donne furono le prime vittime nel macello della dittatura religiosa. Non solo non ottennero i diritti e le prerogative che erano stati loro promessi, ma persino i miglioramenti conquistati sotto il regime precedente furono perduti.
All'inizio della guerra fra Iraq e Iran, che coincise con la sconfitta di tutti i gruppi di attivismo politico, i cuori dei giovani iraniani erano ormai il bersaglio dei proiettili nemici e di squadroni della morte organizzati da tribunali rivoluzionari paragonabili a nulla più di una corte marziale. E tutto questo avveniva nel nome di Dio.

Ed è proprio fotografando con precisione la storia dell'Iran degli ultimi cinquantanni che Parinoush Saniee presenta una visione storica estremamente accurata della condizione femminile.
Prima della rivoluzione, la società iraniana era costituita da un ampio spettro di gruppi sociali.
Prima di tutto quello più tradizionale che considerava le donne come simboli del male, al punto da coprirle con il velo e imprigionarle dietro i muri delle case dei genitori, per poi trasferirne la custodia a un marito con cui avrebbero potuto adempiere il loro compito riproduttivo e di servitù dell'uomo.
Poi quello dei borghesi, che erano una larga maggioranza e vivevano in città; qui le donne, durante la transizione dalla cultura tradizionale alla modernità, avevano visto gradualmente aprirsi le porte di scuole e università, con la possibilità di diventare insegnanti, giudici, medici, avvocati e persino ministri. Avevano fatto progressi nell'ottenimento dei diritti civili; per gli studi superiori si recavano in Occidente laureandosi a Harvard, alla Columbia, alla Sorbona, a Oxford. Insegnavano nelle università iraniane, ma inconsciamente portavano il retaggio dei valori tradizionali. Non avevano in mente una visione chiara su temi come i diritti privati, la cittadinanza e la libertà economica. E, cosa più importante, non erano consapevoli della vita tradizionale che ancora si svolgeva nella società di cui facevano parte. Leggevano libri stranieri ma non conoscevano la cultura antica del loro stesso paese.
Accanto a queste donne ce n'erano altre, quelle dedite all'attivismo politico, che nel massacro di sogni e utopie sacrificarono tutta la propria femminilità. Parlavano di diritti dei lavoratori e dichiaravano di lottare per la giustizia politica. Eppure erano scarsamente consapevoli, come il gruppo di maggioranza, della realtà fondante della società in cui vivevano. Definivano «oppio dei popoli» la fede religiosa, sottovalutando l'influsso di quelle credenze sulla gente normale. In realtà erano settarie quanto chi difendeva la tradizione; l'unica differenza era l'ideologia, che queste donne, nel seguire i compagni maschi, elevavano al rango di religione infallibile.
C'era poi un'altra fascia sociale, inconsapevole dell'esistenza delle altre, in cui la popolazione si occupava solo della propria sussistenza. Nelle zone rurali del paese l'unica preoccupazione erano i bisogni materiali, come l'acqua potabile. Era gente così povera da arrivare a vendere le figlie pur sapendo che sarebbero finite nel mercato della prostituzione.

Il governo o non era a conoscenza di queste problematiche oppure semplicemente faceva finta di niente. Il flusso di denaro proveniente dal petrolio fu speso per i festeggiamenti in occasione dei 2500 anni di monarchia e per altre celebrazioni.
La paura costante di una possibile aggressione da parte del «vicino a nord» - L'Unione Sovietica - aveva spinto l'Iran verso le potenze occidentali, inducendo il governo a reprimere la libertà politica per timore del comunismo. Fu invece conferito appoggio ai leader religiosi, anche quelli critici verso il governo, permettendo loro di costruire moschee ovunque e sostenendoli finanziariamente.
Fu in questa atmosfera che l'aria iniziò a riempirsi dei primi fermenti di rivolta: era il 1978, un anno prima della rivoluzione. Lo spettro politico era costituito da gruppi e partiti che, pur avendo molto poco in comune, condividevano tutti lo stesso obiettivo, e cioè far crollare il regime.
Quello che mi spetta parla di questi tempi difficili e accompagna il lettore in un viaggio. Un viaggio in cui vediamo l'unione di persone appartenenti a classi sociali e mentalità diverse. Un'unione fragile, dalla vita molto breve, spezzatasi tragicamente dopo la rivoluzione.

Ma questo libro è anche altro: è la storia di una donna.
Ed è attraverso la sua storia che si narra una storia ancora più grande, quella della condizione di tutte le donne in Iran. Donne che hanno sofferto, lottato, combattuto, prima e dopo la rivoluzione.
Quello che mi spetta è il manifesto di tutte loro. Hanno vissuto gli ultimi trent'anni iraniani, hanno lottato e lottano ancora, in questi giorni, in queste ore, contro il fanatismo. Sono eroine dei nostri tempi, pioniere della lotta per i diritti civili, per cui sono disposte a morire.
Lo spiega bene Parinoush Saniee nel suo romanzo. Nelle prime pagine scrive di ragazze nate in famiglie tradizionali. Ragazze che hanno sogni come tutte, speranze che si infrangono contro mura di tradizionalismo e menti ancorate al passato. Ragazze che vogliono studiare e sono assetate di conoscenza. Nelle sue stesse parole, «ragazze che sono diventate vecchie senza essere mai state giovani e che si sono sposate troppo giovani per sfuggire alla violenza dei padri». Ragazze che si sono trasformate in donne troppo presto, madri che spesso, dopo la rivoluzione, hanno perso i mariti in guerra o nelle prigioni del regime e si sono viste costrette ad allevare i propri figli da sole. Hanno lottato per sopravvivere e mandare avanti la propria vita cercando di studiare.
Queste donne hanno rifiutato di essere vittime, non vogliono esserlo più. Hanno rifiutato di essere prigioniere delle ideologie, che fossero di destra o di sinistra. Hanno rifiutato per sempre l'idea di essere mantenute dai loro padri.
Quello che mi spetta parla di tutte loro. Donne appartenenti a diverse classi e settori della società iraniana. Unite dal bisogno di trovare un posto giusto nella società, un posto che è stato negato loro troppo a lungo.
Parinoush Saniee, psicologa e sociologa che ha lavorato in numerose istituzioni governative nel campo dell'istruzione, pone al lettore molte domande. Domande a proposito delle vite e delle conquiste di tutte quelle donne, ricche o povere, che hanno agito durante la rivoluzione, sacrificando ogni cosa.
Cosa mi spetta? Cosa ho ottenuto dopo anni di sacrifici, dopo aver donato tutto, dopo la devozione per allevare i figli? Dobbiamo considerare la maternità come una spina nel fianco e dimenticare tutti i nostri bisogni emotivi? Siamo destinate a dare e a non ricevere nulla in cambio? O a morire sul nostro Golgota portando la croce di «madre che ama»?

Qual è la tua risposta?



Shahla Lahiji, scrittrice e traduttrice, ha fondato e dirige la casa editrice Roshangaran. È stata la prima donna editore in Iran.




Finito di stampare nel mese di marzo 2010
presso il Nuovo Istituto Italiano d'Arti Grafiche Bergamo













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